So2Eo2 - Una cura eroica. La seconda stagione di Jessica Jones

11 / 5 / 2018

 Cheng: «I never take a no for an answer»  

Jessica: «How rapy of you»                         

[Cheng: «Non accetto mai un no come risposta

Jessica: «È quello che direbbe uno stupratore» ] 

Ad Hell’s Kitchen non ci sono rapine di banche né (almeno stavolta) sparatorie con tanto di mitragliatrici d’assalto. Non vediamo neanche (di nuovo, stavolta) gruppi organizzati nell’intento di truffare il sistema per vivere meglio. Hell’s Kitchen è dannatamente ordinaria, con quel caldo estivo che porta i suoi abitanti sull’orlo di un crollo di nervi. Eppure (o proprio per questo?), la seconda stagione di Jessica Jones può essere letta in chiavi politiche molto interessanti.

Uscita non a caso l’8 marzo di quest’anno, la serie riprende le fila della storia dell’eroina Marvel più irriverente, tormentata, scontrosa e meno stereotipata degli ultimi anni. Jessica (Krysten Ritter) esce da una stagione nella quale ha affrontato – dentro e fuori di sé - il trauma della violenza e dell’abuso sessuale. Qualche giorno di combutta con gli altri Defenders per strappare New York dalle mani degli speculatori e hedge funder di turno l’hanno momentaneamente alleviata dalle ripercussioni dell’esperienza vissuta. Sappiamo, però, che niente può essere più come prima quando si materializzano e si affrontano le proprie paure. Tanto più se da quel momento in avanti ne sorgono di vecchie, magari rimaste inesplorate o a cui non si è dato il giusto peso. 

Con uno taglio scenico che riesce a tenere assieme l’avvicendamento degli eventi e la vita psichica della protagonista, la regista Melissa Rosenberg  [1] riesce ad allargare il tiro della serie andando a toccare profondità e sfumature inedite rispetto alla prima stagione – il tutto mantenendo uno sguardo femminile e femminista, divenuto ancora più esplicito. A questo proposito, a suo tempo la regista e showrunner decise di formare una squadra interamente composta da registe donne. Non è secondario che la data di uscita dello show sia stata anticipata all’8 marzo e che i suoi messaggi si siano incrociati con la potente presa di parola del #metoo.

Questa impronta, seppur non manca mai di rappresentare diversi nodi del femminile, abbraccia questioni che si intrecciano con le tematiche femministe e ne sono al contempo parallele. La seconda stagione di Jessica Jones, infatti, ha come tema centrale il potere e la dinamica relazionale che comporta tra soggezione, superiorità, emancipazione. I tre personaggi principali – Jessica, Trish e Jeri – incarnano tre posizionamenti differenti dell’essere donna e tre azioni-reazioni al potere distinte, ognuna delle quali è metafora di condizioni quanto mai attuali. Di riflesso, potremmo dire lo stesso per i personaggi maschili (Malcom, Griffin e Cheng).

Avere il potere

Inutile dire che la donna più potente sia Jessica, dotata di un carattere irremovibile, di una forza sovrumana e di un “salto-volo-atterraggio” che le fa superare senza problemi altezze e cadute a precipizio. Abbiamo già imparato dalla prima stagione che la superforza e il carattere di Jessica non la rendono immune dalla violenza di genere, simbolica e fisica, perché la subalternità femminile è strutturale, non episodica. Il percorso narrativo di Jessica l’ha portata a riprendersi il sorriso e ad autodeterminarsi, ad avere finalmente il controllo della sua vita strappandola dalle mani di un uomo violento. In poche parole, ad avere di nuovo potere di sé; un potere che, sprigionato fino in fondo, le ha permesso di uccidere il suo stupratore Kilgrave.

Adesso, Jessica si trova a riflettere sulle implicazioni di un tale potere. La preoccupazione che tormenta la sua mente per tutta la durata della serie ruota attorno ad una domanda: ora che ho liberato il mio potere, e grazie a questo mi sono autodeterminata, come posso evitare che prenda il sopravvento su di me? Come posso fare in modo che non riproduca quello che io stessa ho subito? Nel caso dell’eroina, stiamo parlando di un potere che non si limita al controllo della condotta altrui, ma anche alla capacità di uccidere e di fare del male ad altre persone. Nei tredici episodi della stagione lo spettatore, tra ricostruzione di memorie passate, scoperte di verità e la collocazione del proprio vissuto nel presente, percorre assieme a Jessica l’unico percorso da battere a questo scopo: la conoscenza di sé. Se pensiamo che la comprensione di se stessi si conduca con la pura introspezione, i lettini degli psichiatri e le pastiglie, ci stiamo sbagliando di grosso. Jessica impara a conoscersi dagli errori (e con l’alcol), dai pugni che inferisce, dal fatto che per più volte (con l’investigatore privato Cheng e con il regista Maximilian) si accorge di non avere piene facoltà sul suo potere,. La consapevolezza dei suoi limiti e dell’intensità di ciò che è in grado di fare l’acquista nella relazione con gli altri e le altre, in cui vede riflesso un lato di sé o un possibile sbocco delle sue azioni. Riprendendo il vecchio topos dell’alter ego, le registe mostrano come Jessica potrebbe diventare nella figura della madre Alisa, altra donna dotata della super-forza (il doppio più potente di Jessica stessa).

Furiosa, inarrestabile, testarda, amante dell’alcol, con un piccolo problema psichiatrico che la rende una macchina assassina suo malgrado, Alisa sembra aver trasmesso alla figlia i geni del suo carattere, anche di quelli pericolosamente tendenti all’omicidio. L’eroina vede nella madre tutti i riflessi della sua grande paura, di un futuro possibile in cui è lei stessa a causare dolore e morte. In fin dei conti, entrambe le donne condividono la condizione di subalternità di genere, sebbene vissuta in due modi differenti. Alisa è la classica donna che ha covato rabbia e sofferenza per le rinunce che ha dovuto fare in nome della famiglia, del lavoro affettivo e relazionale a cui sono chiamate per natura le donne, troppo spesso a scapito dei loro desideri. Sarà grazie allo scontro/confronto con lei che Jessica imparerà a vedersi da un altro punto di vista e a capire chi non vuole essere. Senza scadere nell’edulcorazione del rapporto madre-figlia, per niente rappresentato come idilliaco o all’insegna di una presunta empatia femminile, Jessica comprenderà che possedere il potere vuol dire averne il controllo, sapere quando e su chi esercitarlo, essere coscienti di averlo nei confronti di qualcuno/a anche involontariamente, dunque essere in grado di calibrarlo per non sopraffare l’altro/a. Chi più di una delle donne più forti della terra ha bisogno sapere tutto ciò? Attenzione, conoscere il proprio potere non vuol dire metterlo da parte, perché non possiamo sfuggirgli, sia che lo subiamo o che lo esercitiamo. Il controllo del potere non è rinuncia all’indignazione, all’attacco e alla difesa: al contrario, è sinonimo di saperlo direzionare con coscienza.  Ce la immaginiamo davvero una Jessica che si fa mettere i piedi in testa dal primo riccone proprietario di appartamenti, cliente irrispettoso o maschio alfa di turno?

La genialità della scrittura del personaggio mostra come le relazioni di potere tocchino il femminile in due direzioni, sia come potenziale vittima che come potenziale carnefice. E ci mette sotto gli occhi il fatto che l’empowerment deve passare per un costante lavoro sul proprio io che trasformi l’identità della persona, lasciando indietro quegli aspetti di sé dominati o dominanti e acquisendone di nuovi.

Volere il potere

La narrazione che più calza con la vita esperita da milioni di donne al mondo è quella del personaggio di Patricia “Trish” Walker (Rachel Taylor). Una donna schiacciata dal ruolo che le è stato cucito addosso dalla madre e dai produttori del mondo dello spettacolo fin dalla nascita. Trish è una donna che non si è mai sentita in potere di decidere della propria vita. Il suo percorso do vita è stato battuto per lei da altre persone; e anche quando vi si è trovata a suo agio, è stata costretta a sottostare al comando altrui. Cosa mai può aver subito Patsy, star adolescenziale, poi attrice e icona pop, adesso giornalista di una famosissima radio di New York? Per iniziare, l’abuso sessuale da parte di un regista cinematografico per il quale lavorava quando aveva 15 anni. Ricorda qualcosa? In tempi non sospetti – la produzione della seconda stagione è avvenuta mesi prima dello scoppio del caso Weinstein – Jessica Jones anticipa un tema assolutamente centrale per il movimento #metoo e maledettamente vivo per la maggior parte delle donne: la violenza e la molestia sul posto di lavoro (e non solo).

L’assenza di controllo sulle proprie scelte e sul futuro trascina la migliore amica di Jessica in relazioni in cui lei vuole imitare il partner, Griffin (Halil Özşan), perché ha successo e indipendenza. La sua ricerca di potere la faranno scontrare con una domanda molto semplice: cosa si è disposti/e a fare per ottenere finalmente la capacità di decidere su di sé e sugli altri/e? Forse sviluppare una dipendenza da una sostanza che, una volta svanito l’effetto, fa rimanere con un quantitativo di potere minore rispetto a quando si è sobri. Ma anche affrontare temerariamente esperimenti genetici all’avanguardia per i quali si può rischiare di morire. Oppure sacrificare una delle relazioni più importanti della propria vita. Il mantra è uno solo: tutto pur di non essere ordinariamente donna, pur di non dover subire un solo giorno in più la condizione di subalternità a cui Trish è abituata. 

Perdere il potere

Un appartamento di lusso a New York? C’è. Un ufficio a Manhattan con decine di dipendenti al proprio servizio? C’è. Tutele legali e sanitarie di lusso? Ci sono. Riconoscimento e stima sociale? Ci sono anche queste. Jeri Hogarth (Carrie-Ann Moss) ha passato la sua intera esistenza ad accumulare potere e controllo, lavorando più tempo e più duramente dei suoi colleghi (soprattutto maschi). È l’incarnazione della perfetta donna-impresa che ha falciato qualsiasi ostacolo le si parasse davanti, spietata fino al midollo pur di raggiungere il suo obiettivo. Sicuramente, il suo potere l’ha trasformata. Da una parte, l’ha resa self-confident, una che crede nell’individualismo e nella capacità di farcela sempre da sola, perché solo lei conta. Dall’altra, le ha dato tutti i tratti dell’autorità: è sfrontata, tratta come strumenti funzionali ai suoi fini le persone che ha attorno, è vendicativa nei confronti di chi potrebbe minacciare la sua posizione di potere. Colpevolizza persino le belle segretarie con cui tiene delle relazioni, sostenendo che sono loro le adescatrici, che la ammaliano con i loro vestiti succinti per ottenere non si sa bene cosa. Niente sembra scalfire Jeri, donna lesbica che, in un certo senso, ce l’ha fatta e ha abbracciato fino in fondo le regole del mercato e del lavoro. Così l’abbiamo lasciata nella scorsa stagione, così l’abbiamo rivista in Iron Fist e The Defenders e la ritroviamo nel primo episodio della seconda stagione di Jessica Jones.

Non sarà un giudice o un cliente ostico da soddisfare a farla tremare per la prima volta in tutta la serie: sarà la fatalità umana. Come le ricorda la sua socia, il potere è qualcosa di effimero, un giorno lo si ha, l’altro no. La sua perdita può essere dovuta a qualcuno o a qualcosa. Per Jeri arriverà il momento di confrontarsi con una malattia incurabile i cui esiti la porteranno alla paura della debolezza e dell’impotenza. E della solitudine. Quella solitudine che non può essere curata temporaneamente se non si ha più potere sulle altre persone, se non si può possono più comprare o imporre loro la propria compagnia. Jeri dovrà affrontare il vuoto delle sue relazioni, le frodi, i tradimenti a cui la sottopone la malattia, che funzionerà da specchio per farle rendere conto dove l’ha fatta approdare la sua carriera. Cosa rimane di noi quando cadiamo dal piedistallo? Cosa si è realmente costruito? Quali ripercussioni dovremo vivere? Il personaggio di Jeri Hogarth è interessante perché esplora un femminile contemporaneo non solo modellato dal potere (il sessismo, l’autoritarismo, l’individualismo), ma che esercita il potere e rischia di perderlo.

A farle da contraltare è la senzatetto Inez Green (Leah Gibson). L’ex infermiera è un promemoria delle condizioni materiali e sociali di chi ha perso tutto perché privo/a di potere economico. Inez ci parla di cosa significa essere donna per strada, costretta a «difendersi da chiunque abbia un pene». E rammenta quanto la deprivazione economica esponga ancor di più al raggiro e alla soggezione emotiva, praticata in particolare dagli uomini contro le donne.

Maschilità fragile

La reazione degli uomini alle identità e alle azioni dei personaggi femminili è ormai un tema comune della serie. Vedremo quindi la maschilità dell’investigatore Pryce Cheng (Terry Chen) totalmente fatta a pezzi per averle prese da Jessica; un fatto da cui svilupperà un rancore e un odio per la donna da renderlo cieco e determinato a farla cadere in rovina. Insomma, tutto pur di riaffermare il suo ruolo di genere di maschio alfa. Accanto a lui, Griffin sembra essere piuttosto intimidito dalla possibile carriera professionale di Trish e dall’eventualità che possa pareggiarlo a livello giornalistico. Come reagisce una celebrità abituata ad avere i riflettori su di sé quando la sua partner potrebbe rubargli anche solo un angolino della sua scena? In ultimo, abbiamo Malcom (Eka Darville), l’assistente afroamericano di Jessica. La sua narrazione riguarderà l’emancipazione dalla dipendenza che ha nei confronti della sua datrice di lavoro, la definizione di una sua identità privandosi di tutti i vincoli che non lo fanno essere al servizio degli altri/e (soprattutto donne) e non lo rendono capace di ascoltarsi. Il suo sarà il percorso di un personaggio dalla maschilità fragile, e che tendenzialmente subisce i rapporti di potere e la manipolazione altrui, verso l’autonomia.

L’eroismo contemporaneo

«Hero isn’t a bad word, Jessica. It’s just someone who gives a shit and does something about it». L’eroina che rifiuta di mettere i suoi poteri a disposizione delle persone, che reprime i suoi sentimenti, che nonostante tutto si trova invischiata in problemi non suoi che le cadono addosso, ascolta con attenzione questa frase alla fine della stagione. Sta forse qui la natura del potere che vuole trasmettere la serie. Il potere è relazione nel senso di rimettere all’alterità ciò che si è in grado di fare, non per annullarsi o sacrificarsi, ma per dare e ricevere allo stesso tempo. La cura di noi stessi, la conoscenza dei nostri limiti e di ciò che si è in grado di fare, sono attività che si fanno in comune assieme all’altro/a. Jessica lo imparerà sulla sua pelle: per essere felici bisogna cambiare se stessi trasformando le relazioni di cui circondiamo. Il cambiamento implica conflitto all’esterno e all’interno di sé, di quella parte della propria identità che ancora ci vuole rinchiusi nel nostro piccolo, imprigionati nei ruoli cuciti addosso all’identità di donna, di uomo, di debole, di tossico, di pazza. In una metropoli come New York, dove milioni di persone si incontrano e stanno assieme soltanto per riempire un vuoto ed “esistere”, affidarsi alla cura è un gesto eroico che sprona all’azione e costruisce una nuova comunità tramite un nuovo modo di stare assieme. L’eroe e l’eroina del nuovo millennio non si sacrificano, hanno cura dell’alterità, la fanno diventare parte di sé per creare un “noi” dove ognuno/a trova il posto che più si confà ai suoi desideri.  

Non è, questo, un insegnamento profondamente politico?  

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[1] Intervista alla regista e creatrice: http://www.vulture.com/2018/03/jessica-jones-season-2-melissa-rosenberg-interview.html