Tequila Sunset

“Spero che il mio film ricordi a tutti che la marijuana non è il male”. (Oliver Stone)

12 / 11 / 2012

Riempite per un terzo lo shaker di ghiaccio. Versateci il romanzo di Don Winslow, aggiungete Leone, Tarantino e Soderbergh in parti uguali, uno spruzzo di Mann, qualche goccia di Meirelles. Agitate vigorosamente, lasciate riposare per qualche secondo, poi riprendete più lentamente (serve a ottenere la schiumetta) versate e avrete un Savages - per gli avventori italiani Le belve - ultima fatica di Oliver Stone. Ma a quel punto vi sovverrà la lezione del grande Veronelli che, in un introvabile pamphlet del lontano 1974, ammoniva come tre e rigorosamente non più di tre devono essere gli ingredienti da utilizzarsi per ottenere un buon cocktail. Dopo aver messo a valore la sua energia anti sistema con film come W., South of the Border, Wall Street 2, Stone torna finalmente alle coordinate pulp di Assassini nati e U - Turn, ma confeziona un mostro alcolico, una sorta di “Sex On The Laguna Beach” probabilmente destinato a eccitare palati abituati a beveroni lunghi leggeri e guarniti da un ombrellino, ma che scontenta quelli che da un cineasta fratello entrato nel quarto decennio di attività si aspettavano un’estetica meno patinata, meno debitrice nei confronti del linguaggio pubblicitario e videoclipparo e protagonisti meno insipidi laddove le promesse facevano riferimento a fascinazioni efferate, adrenaliniche e maledette.

Convinto assertore che “la California sta alla marijuana come la Francia sta al vino rosso” Stone è altresì convinto sostenitore delle proprietà terapeutiche della cannabis e della necessità di renderne libera la circolazione, non avendo mai fatto mistero del conoscerne in prima persona le virtù. Applicando questo nobile intento alla costruzione del suo film inciampa però nella trappola che molto spesso si nasconde sul percorso di translitterazione dalla pagina scritta all’immagine cinematografica quando deve dare volto e personalità ai tre giovani protagonisti. Avendo come sfondo una megapiantagione tecnologica e “pulita” (con il 33% di Thc, compliments…) Chon, Ben e O (Ophelia) dovrebbero incarnare un trio di belli e dannati ancorché dotati di diverse personalità. Un’ex Navy Seal palestrato aggressivo e dinamico, un botanico buddista ecologo e filantropo, una biondina che oltre all’attitudine allo shopping coltiva quella delle prestazioni softcore con entrambi – nel senso di uno alla volta: mentre uno scopa l’altro va educatamente a farsi una nuotata. Il punto debole del film sono loro. Mentre un cartello di narcos messicani li mette davanti a una di quelle offerte che non si possono rifiutare loro, duri e puri, rifiutano. E quando il gioco si fa duro cominciano come da sacrosanto aforisma - Belushi docet - a giocare. Il guaio è che la declinazione delle sfaccettature che il progressivo slittamento della percezione del sé dovrebbe indurre dentro e fuori di loro sta dalle parti di quella che potrebbe mettere in campo un paracarro. E non basta passare da un’atmosfera peace love and drugs a scenari da snuff movie sanguinolento per creare la tensione che sarebbe lecito attendersi da un maestro della capacità visionaria di Stone.

Se la gioventù bruciata lascia piuttosto a desiderare per vistosa mancanza di appeal per fortuna c’è il secondo terzetto, quello dei “vecchi”, a salvare la faccenda. La minuscola quanto energica Salma Hayek rifà la donna d’affari Catherine Zeta Jones di Traffic, mixando con grande misura ironica ferocia e melodramma, ricordandoci che quelle donne esistono veramente e sono uno dei risultati della insensata politica proibizionista che come principale risultato ottiene quello di ingrassare i cartelli messicani. John Travolta è fisiologicamente a suo agio nel ruolo bastard inside del poliziotto federale corrotto doppio e triplogiochista. Ma su tutti Benicio Del Toro, killer sanguinario servile e infido, a rielaborare il suo personaggio di Traffic (ancora…). E’ lui a incarnare l’anima sottile, ambigua, incandescente che costituisce la vera chiave di combustione del film. La sua maschera, la sua svogliatezza, la sonnolente impassibilità dei suoi gesti più spietati riescono a riscattare anche l’ultima tagliola che si stringe alla caviglia di Stone quando cede alla tentazione del doppio finale. Come accadde con Assassini nati quando Tarantino ritirò la firma dalla sceneggiatura anche a Don Winslow sono girate un po’ le balle. Nemmeno le mie sono rimaste quiete. Affanculo gli happy end.

LeBelve - Il trailer