Tra geopolitica e criminalizzazioni: come cambiano le migrazioni

Intervista ad Annalisa Camilli a Sherwood Fetival 2019

5 / 7 / 2019

Dopo il dibattito tenutosi il 23 giugno “Il moltiplicarsi dei confini tra attacco ai diritti e razzismo” abbiamo intervistato Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale e autrice del libro La legge del mare. Cronache dei soccorsi nel Mediterraneo (Rizzoli, 2019) che affronta la questione migratoria a partire da una distorsione del discorso pubblico avvenuta negli ultimi anni, in particolare sul tema della solidarietà e dei salvataggi nel Mediterraneo.

Partendo dal tuo ultimo articolo su Internazionale “Tra migrazione e terrorismo in Niger”, questo Paese è per antonomasia un confine, nello specifico il confine meridionale dell’Europa. Il Niger è spesso protagonista di attacchi terroristici di matrice islamica, e tanti fuggono da queste crudeltà sperando di riuscire ad approdare sulle nostre coste. Questo significa che chi sopravvive ai viaggi porta con sé un bagaglio di esperienze terribili. Nonostante ciò, i richiedenti asilo si vedono spesso rifiutare la protezione umanitaria, a causa di organi colpevolmente ignoranti. Come si potrebbero portare alla luce queste situazioni?

In realtà il Niger non è sempre stato la frontiera più meridionale dell’Europa, lo è diventato a partire dal 2015, quando i governi europei hanno investito di nuovo sull’esternalizzazione delle frontiere per rimettere ordine all’esplosione dei confini che era avvenuta in seguito alle primavere arabe del 2011.

L’Europa, a partire dalla fine degli anni ’90, ha investito su quella che chiamiamo esternalizzazione delle frontiere, ha cioè investito sui paesi extraeuropei limitrofi in modo che facessero da frontiera, da confine, che bloccassero i migranti, i richiedenti asilo, i rifugiati ben prima che arrivassero sulle nostre coste. Questa è una strategia che - in qualche modo - nasce insieme al progetto dell'Unione Europea: nel momento in cui si pensa di superare i confini interni con la nascita di Schengen, si pensa anche che è necessario controllare le frontiere esterne.

Questo ordine delle cose viene in qualche modo messo in discussione con le cosiddette primavere arabe, le rivoluzioni che ben presto in alcuni paesi si sono trasformate in guerre civili, pensiamo alla Libia e alla Siria. Però, a partire dal 2015, quando in Europa arrivano più di un milione di persone - soprattutto attraverso la rotta Balcanica - i governi europei capiscono che non sono pronti, soprattutto politicamente, e che il sistema europeo di asilo e il sistema europeo di accoglienza non sono in grado di fronteggiare una situazione di quel tipo, e quindi riprendono i fili dell’esternalizzazione.

Il Niger diventa protagonista di questo progetto di esternalizzazione, come la Libia d’altro canto, ma quest’ultima  è un paese ancora in guerra, diviso tra almeno due governi e decine di gruppi armati, e le sue frontiere, come era anche all’epoca di Gheddafi, sono difficilmente controllabili. Il Niger invece è un paese relativamente stabile, anche se è circondato da instabilità. Io sono stata poche settimane fa nel Paese: l’Unione Europea ha investito moltissimo attraverso fondi che erano apparentemente destinati alla cooperazione e che in realtà sono stati destinati al controllo delle frontiere.

Ma c’è un altro livello: il livello militare. Il Niger è diventato una base militare per moltissimi stranieri, essendo l’unico Paese stabile con un governo riconosciuto di tutto il Sahel. È una delle principali basi degli Stati Uniti, della Francia, e anche governi europei come l’Italia e la Germania hanno capito che era importante investire in quel Paese proprio per avere un controllo militare di tutta la regione, quindi un controllo di quello che succede in Libia (dove il nostro Paese ha importanti interessi economici), ma anche in Mali, in Nigeria. Questo ha fatto si che il Niger (da Paese di transito, attraversato dai migranti che tentavano di raggiungere la Libia o l’Algeria, anche solo per fermarsi nelle stesse che sono due potenze economiche nella regione) si è trasformasse in Paese di frontiera, con tutto quello che ne consegue, in particolare con una maggiore militarizzazione.

La cosa interessante è che coincidono nel Paese tutte le operazioni per il controllo della frontiera e le operazioni anti terrorismo. Questo sta indebolendo notevolmente il Paese perché gli stessi eserciti stranieri stanno diventando un target per i gruppi terroristici che da altre zone della regione (il Mali, il Burkina Faso, la Nigeria) stanno penetrando qui. In questo momento, quindi, uno dei Paesi più poveri dell’Africa sta ricevendo una pressione migratoria importante, perché non è più un Paese di transito che viveva anche del transito dei migranti, visto che questo aveva contribuito a sviluppare un’economia locale. I famosi trafficanti erano dei conduttori di autobus.

È molto interessante andare in Niger proprio per decostruire l’immagine che abbiamo dei trafficanti qui in Europa: per esempio nel nord del Paese erano persone che conoscevano le rotte del deserto e trasportavano, insieme alle merci, anche le persone. Questa situazione da una parte ha eradicato l’economia del Paese e dall’altra ha dopato l’economia stessa , che vive di sovvenzioni europee. Allo stesso tempo la pressione migratoria è aumentata, tutti quelli che soltanto transitavano ora sono costretti a rimanere qui e questo chiaramente produce una serie di questioni.

Le persone che da qui arrivano in Italia sono pochissime, perché le rotte principali di accesso alla Libia sono state interrotte con una legge, approvata nel 2015, che criminalizza il traffico di esseri umani. Quindi c’è un controllo molto più diffuso, è molto pericoloso fare il “trafficante”. E questo cosa ha significato? Non che il traffico si sia estinto, ma che semplicemente sono state percorse altre rotte più pericolose e più dispendiose. Le stesse persone che prima cercavano di attraversare, e pagavano delle cifre accessibili, ora devono pagare cifre molto più elevate e rischiare molto di più la loro vita.

Sappiamo che nel deserto si muore quanto, se non di più, che nel Mediterraneo centrale. Quello che succede in Libia, e ce lo raccontano i migranti che riescono ad arrivare, sono storie di detenzione, anche prolungata. Quasi tutti quelli che sono passati dalla Libia hanno raccontato di essere stati in detenzione per anni, questo corrisponde all’aver vissuto orrori indicibili, come dicono alle Nazioni Unite: torture, stupri. Sappiamo che in Libia i migranti sono usati come merce di scambio, sono come dei bancomat che camminano, e vengono sequestrati da gruppi armati che li ricattano e chiedono un riscatto alle famiglie per liberarli.

Chi riesce ad arrivare - a volte intercettato in mare dalla cosiddetta Guardia Costiera libica e riportato indietro anche cinque volte - ha delle storie incredibili. Come incredibile è che gli venga negata la richiesta d’asilo questa, uno strumento che prima era usato proprio per questo tipo di persone, che non venivano da paesi in cui c’erano una dittatura o una guerra, ma che nel viaggio avevano subito tante torture.

Si diceva che queste persone, che spesso riportano nel corpo e nella psiche traumi così profondi, non potevano certo essere rimandate da nessuna parte. Le storie dei migranti che ora sono a bordo della Sea-Watch 3 ci dicono esattamente questo, perché loro dicono: «Piuttosto che tornare indietro, preferiamo morire». Se qualcuno è capace di dire una cosa del genere ci dice tutto. E ora non abbiamo più quello strumento giuridico legislativo che ci permetteva di assicurargli almeno una forma di protezione.

 

Il tuo libro La legge del mare. Cronache dei soccorsi nel Mediterraneo tratta dei salvataggi da parte delle ONG in mare. ONG sottoposte ogni giorno a tentativi di criminalizzazione. Quando sta cambiando all’indomani dell’applicazione del Decreto Bis, dato che pochi giorni fa ha scritto un articolo esplicando le caratteristiche del Decreto Bis?

Il Decreto Sicurezza Bis insiste su una situazione che era già al limite della sopravvivenza per i soccorritori. Ricordiamo che il decreto prevede multe fino a cinquantamila euro per chi entra nelle acque territoriali italiane, venendo meno al divieto posto dal Ministero dell’Interno.

Quello che sta cambiando è soprattutto il ruolo di questo ministero, che si assume la prerogativa di decidere chi presumibilmente ha compiuto il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, e quindi a chi vietare l’ingresso nelle acque territoriali italiane. Questo presupposto precedentemente era della Magistratura, doveva essere un procuratore ad aprire un’indagine e presumere che una determinata nave avesse compiuto un reato come quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

È un passaggio abbastanza importante, come se in qualche modo si volesse portare sul piano amministrativo quello che invece fino ad oggi sarebbe stato sul piano penale. Quindi di nuovo è un voler superare la separazione dei poteri, che è alla base del nostro Stato di diritto.

A livello concreto non sta cambiando tantissimo, perché già con le direttive di marzo e aprile, ma direi già nell’ultimo anno, per le navi delle ONG che resistevano in quel tratto di mare la vita non era per nulla facile. Sempre dal giugno del 2018, di fatto, la possibilità di compiere soccorsi in mare e sbarcare persone soccorse nell’arco di pochi giorni, come avveniva precedentemente in un porto sicuro, era diminuita notevolmente.

Ricordiamo il primo caso, quello dell’Aquarius nel giugno 2018: senza nessuna forma di decreto o di scrittura amministrativa il Ministro dell’Interno ha deciso che l’Aquarius non poteva (con 630 persone a bordo) avere l’autorizzazione di arrivare in un porto italiano. Quindi quella nave dovette navigare per tre giorni prima di arrivare in un porto spagnolo - all’epoca gli spagnoli erano disponibili ad accettare queste persone - ma questo ha comunque voluto dire rivoluzionare il soccorso in mare.

Io racconto, però, nel mio libro che questa storia comincia molto prima, alla fine del 2016, quando soprattutto i governi europei decidono che una delle priorità politiche è quella di chiudere la rotta del Mediterraneo Centrale, che in quel momento era la rotta principale da cui arrivavano migranti in Europa. Quello che è cambiato, in termini concreti, non è tanto che si siano ridotti notevolmente gli arrivi (sono arrivate quest’anno l’85% di persone in meno rispetto all’anno precedente, ma sappiamo che il tasso di mortalità lungo quella che è diventata la rotta più pericolosa del mondo si è alzato vertiginosamente: muore una persona ogni sei), ma che le persone vengono riportate indietro dalla Guardia Costiera Libica, in un paese in cui i migranti vengono sottoposti ad ogni forma di violenza. Si sono inoltre riattivate alcune rotte storiche, come la rotta marocchino-spagnola e la rotta turco-greca che sono rotte molto pericolose, il cui tasso di mortalità è molto alto.

 

Dopo anni di reportage hai deciso di pubblicare questo libro. Come mai la scelta di passare a questa forma?

Mi rendevo conto che più passava il tempo e più rapidamente si stavano dimenticando tutti i passaggi che avevano in qualche modo portato alla criminalizzazione delle persone di origine straniera e alla criminalizzazione degli umanitari. Questo secondo me era un tratto nuovo del processo di criminalizzazione. Avevamo assistito anche in passato - penso agli anni 2001-2002 quando fu approvata la legge Bossi-Fini, agli anni dei pacchetti sicurezza di Maroni - a processi di criminalizzazione delle persone di origine straniera nel nostro Paese, che in qualche modo erano il frame comunicativo, la cornice propagandistica che giustificava degli interventi legislativi di quel tipo.

Ma per la prima volta, alla fine del 2016, l’obiettivo polemico dei governi che volevano chiudere alcune rotte o prendere l’immigrazione come obiettivo critico (nella propaganda, soprattutto politica), sono diventati gli umanitari, per poi espandersi a tutto quello che potremmo definire terzo settore, il mondo del volontariato, dell’accoglienza, dell’assistenza, fino alle organizzazioni politiche indipendenti.

Questo mi sembrava un passaggio politico molto importante, di cui avevo fatto testimonianza con le mie cronache, e avevo registrato una distanza enorme rispetto a ciò che io vedevo e testimoniavo sul campo e ciò che invece veniva raccontato dai politici ma anche dai giornali mainstream. L’esigenza era quindi di dare una profondità storica, non solo legata al presente e agli avvenimenti, e soprattutto di nominare i responsabili. Già vedevo che con grande facilità si stavano perdendo le responsabilità politiche di questo processo, e si stava ricostruendo e riscrivendo -come spesso succede- la storia di quando accaduto.

Mi sembrava interessante registrare questo passaggio storico, con tutti i passaggi, con tutti i responsabili e le responsabilità politiche.