Veronica Gago: un’analisi economica femminista dello sfruttamento e dell’estrazione

30 / 4 / 2022

Grazie alla gentile concessione della casa editrice Capovolte, che di recente ha tradotto e pubblicato in italiano il libro di Veronica Gago La potenza femminista. O il desiderio di cambiare tutto, pubblichiamo in esclusiva due estratti dal capitolo “Un’analisi economica femminista dello sfruttamento e dell’estrazione” (pp. 158-160 e 192-195). La ricercatrice e attivista argentina, tra le fondatrici del movimento Ni Una Menos, sarà a Padova il 2 maggio e a Venezia il 3 maggio.

1. L’economia femminista spiega il modo specifico in cui le donne sono sfruttate nella società capitalista. A tal fine, espan­de la nozione stessa di economia, includendo altri elementi emergenti: dalla divisione sessuale del lavoro alle forme per opprimere il desiderio. Il primo obiettivo che si pone consiste nel percepire, teorizzare e misurare il differenziale di sfrutta­mento di donne, lesbiche, trans e travestis. Si tratta di qualco­sa di molto più ampio che contabilizzare le attività realizza­te dalle donne e dai corpi femminilizzati. E questo si deve al fatto che il secondo obiettivo dell’economia femminista – che si posiziona in maniera critica rispetto all’economia politica, non come una richiesta di inclusione nel mondo neoliberale competitivo – consiste nello sfidare, sovvertire e trasformare l’ordine capitalista, coloniale e patriarcale.

È questo il contesto in cui si deve collocare oggi la riflessione sul differenziale di sfruttamento come compito dell’economia femminista. Il punto da cui muove questa domanda si situa nel luogo concreto in cui esso si origina: la riproduzione. Perché? Perché questo differenziale è sem­pre relazionale. In altre parole, rivela la posizione unica che il lavoro delle donne e dei corpi femminilizzati oc­cupa nelle relazioni sociali. Tuttavia, nel rendere visibile e comprensibile queste dinamiche specifiche, illumina in maniera nuova la questione più generale dello sfrutta­mento. Rendere visibile il lavoro salariato e precarizzato attuale a partire da una prospettiva femminista, che sor­ge dall’analisi storica del lavoro non remunerato e delle mansioni femminilizzate, permette di elaborare una nuo­va analisi nel suo insieme.

Inoltre, porre in evidenza il differenziale ci porta a un altro punto centrale: non si tratta semplicemente di vedere la dif­ferenza per reclamare l’uguaglianza. Non vogliamo ridurre il divario per essere sfruttate quanto gli uomini. Quello che ci interessa, e quello che l’economia femminista ci permette di valutare, è la lotta condotta da donne, lesbiche, trans e travestis per la riproduzione della vita in opposizione alle relazioni di sfruttamento e subordinazione.

[…] Non si tratta di una mera analisi settoriale, né dell’interesse di una “minoranza” (concetto che è di per sé problematico), ma piuttosto di una prospettiva unica da cui possiamo visualizzare l’insieme sulla base di conflitti concreti. Metodologicamente, questo significa che le donne e i corpi femminilizzati non sono un capitolo da aggregare all’analisi economica, ma che essə offrono una prospettiva che riformula la stessa analisi economica. È una prospettiva politica trasver­sale, che propone un’altra via di ingresso alla critica della poli­tica economica, piuttosto che un’agenda circoscritta.

Porre l’economia femminista in termini politici, come orga­nizzazione di una critica, produce uno spostamento ancora maggiore. La critica femminista, infatti, non focalizza la sua analisi sui modi in cui è organizzata l’accumulazione di ca­pitale, ma piuttosto su come si organizza e si garantisce la ri­produzione della vita collettiva in quanto condizione a priori. Così, la riproduzione sociale si rivela come condizione di pos­sibilità per l’accumulazione di capitale. In termini filosofici, possiamo dire che la riproduzione è la condizione trascenden­tale della produzione.

Questa questione ha, a sua volta, un duplice livello: da una parte, cerca di comprendere come la riproduzione ren­da possibile tutta la produzione di cui beneficia il capitale. In quest’ottica, l’economia femminista si interroga sul perché nascondere la riproduzione sia essenziale al processo di va­lorizzazione in termini capitalisti. Ma c’è un secondo livello. Uno dei compiti ulteriori dell’economia femminista consiste nello scoprire in quali forme e in quali esperienze la riprodu­zione sociale può essere organizzata evitando un approccio estrattivo e di sfruttamento (fatto che implica, come vedremo in seguito, combattere la naturalizzazione di tale approccio). In questo modo, si supera l’opposizione tra riproduzione e produzione (intese come termini antitetici) per pensare inve­ce alla riorganizzazione della loro relazione. È in questa rela­zione che possiamo collocare la domanda sul differenziale di sfruttamento.

Molte femministe hanno letto Marx in questo registro. Nel farlo, si sono fatte carico di un duplice movimento e un dupli­ce obiettivo. Da una parte, hanno accompagnato Marx nei luoghi nascosti del suo lavoro; dall’altra, hanno radicalizzato il metodo di ricerca di Marx di guardare alla “sede nascosta” della produzione della realtà capitalista. Come vedremo, la prima dimensione nascosta è la riproduzione: tutto ciò che è reso invisibile e, al tempo stesso, costitutivo della produzione sociale organizzata in termini capitalisti.

2. Oggi la lotta femminista […] riconfigura la questione di classe. Non si tratta più di una qualità o di un supplemento che rimane rela­tivamente esterno all’analisi o viene aggiunto come variabile secondaria. Siamo piuttosto di fronte a un immaginario collettivo diverso di ciò che chiamiamo lavoro e di cosa significa costruire una forma comune di azione collettiva, capace di accogliere al suo interno la molteplicità espressa oggi dall’an­tagonismo di classe.

In questo senso, lo sfruttamento finanziario, che [analizzo] come apparato concreto di estrazione di valore nelle economie popolari femminilizzate (e che si articola con altre forme estrattive), rivela un modo di cooptare la vitalità so­ciale oltre i confini del salario ed è saldamente radicato nelle mansioni riproduttive in senso ampio. Soprattutto, è in atto una contesa per la temporalità dello sfruttamento: la finanza implica obbedienza nel futuro e, dunque, funziona come un “invisibile” e omogeneo “capo” delle numerose mansioni che possono produrre valore. Ma è anche qualcosa in più: in que­sto modo, la finanza intreccia infatti una relazione chiave con la violenza sessista e la gestione della crisi.

Oggi noi vediamo come la finanza – che ha messo radi­ci nei territori popolari e, in passato, periferici – ha costruito una rete capillare capace, da un lato, di offrire finanziamenti privati e con alti interessi per risolvere il problema della so­pravvivenza quotidiana causato dall’austerity e dall’inflazione; dall’altro, di strutturare la temporalità di un’obbedienza pro­iettata nel futuro, addossando la colpa e individualizzando la responsabilità per il saccheggio che ha svuotato i territori dalle infrastrutture (dalla salute all’acqua, fino al rifornimento alimentare). Attualmente, l’indebitamento generalizzato è ciò che ammortizza la crisi. E lo fa in modo che ogni persona affronti in maniera individuale l’aumento dei costi e debba spendere il proprio tempo a lavorare sempre di più per meno denaro. Oggi, il fatto stesso di vivere “produce” debito ed esso ricade principalmente sulle donne e sui corpi femminilizzati (Cavallero e Gago 2019).

Vediamo dunque che il debito diventa una forma per gestire la crisi: niente esplode, tutto implode. Implode nelle famiglie, nelle case, nei luoghi di lavoro, nei quartieri; gli obblighi fi­nanziari rendono le relazioni più fragili e precarie perché sono sottoposti alla pressione permanente del debito. La struttura­zione dell’indebitamento di massa, mantenuto per oltre una decade, è ciò che ci offre indizi sulle sembianze della crisi at­tuale: come responsabilità individuale, come aumento della cosiddetta “violenza domestica” e come crescente precarizza­zione dell’esistenza.

Usando un’immagine del filosofo George Caffentzis (2018), potremmo dire che il debito gestisce la “pazienza” di lavo­ratorə, casalinghe, studenti, migranti, etc. La domanda sulla pazienza è la seguente: fino a che punto è possibile sopportare le condizioni di violenza di cui oggi il capitale necessita per riprodursi e valorizzarsi? La dimensione soggettiva che segna i limiti del capitale è un punto chiave dell’indebitamento di massa.

Oggi è il movimento femminista, più di ogni altra politica di sinistra, a sollevare la questione della dimensione “soggetti­va”, ovvero, relativa ai modelli di disobbedienza, trasgressione e rifiuto delle forme attuali di violenza che sono intimamen­te connesse con lo sfruttamento e l’estrazione del valore. Nel processo di organizzazione dello sciopero femminista, abbia­mo sollevato questo punto strategico: lo sciopero rende visibili e traccia delle connessioni tra dinamiche di lavoro non rico­nosciute, rifiuta la gerarchia tra il produttivo e il riproduttivo, e costruisce un orizzonte condiviso di lotte che riformulano la nozione stessa di corpo, conflitto e territorio.

La dimensione coloniale è espressa, in questo senso, dalla colonizzazione di nuovi “territori”, formati a partire dall’ar­ticolazione tra debito e consumo, dato che entrambi funzio­nano con la premessa dell’espropriazione collettiva. Tuttavia, grazie a questa ristrutturazione del patriarcato, il coloniale qui si riferisce anche a un modo per unire la finanza a nuo­ve forme di smisurata violenza che forniscono agli uomini un principio di stabilizzazione soggettiva basato sul loro possesso, spesso violento, dei corpi femminilizzati e dei corpi-territo­ri, tramite le imprese internazionali. Possiamo comprendere, così, la forma organica e nuova in cui violenza e capitale oggi sono intrecciati. L’elemento coloniale di questo patriarcato della finanza permette anche di aggiornare la divisione tra go­vernanti e governatə sotto nuove coordinate, che rendono la chiamata istituzionale democratica qualcosa di anacronistico.
L’orizzonte organizzativo dello sciopero alimenta la dimen­sione di classe, anticoloniale e di massa del femminismo in modo creativo e trasgressivo, perché non fornisce uno stru­mento chiuso, pronto all’uso, ma piuttosto qualcosa che deve essere inventato nel processo organizzativo stesso. Al tempo stesso, lo sciopero ci permette di capire perché le donne e i corpi femminilizzati rappresentino un elemento chiave dello sfruttamento capitalistico, in particolare in questo momento di egemonia finanziaria.