Voglio la testa di Ryan Giggs

Il legame sociale con il calcio della working class inglese

23 / 4 / 2014

Ryan Giggs, ala sinistra e, nella seconda parte della carriera, centrocampista di grande talento e bravura del Manchester United dal 1987 ad oggi (ha recentemente disputato l’ennesima Champions League e la Premier League 2013-2014); inglese di nascita e gallese per scelta, ha adottato il cognome della madre; ha vinto praticamente tutto, 13 campionati inglesi, 4 Fa Cup e 4 Coppe di Lega, 10 Community Schield, 2 Champions League, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Uefa, una Coppa Supercontinentale e una Coppa del Mondo Fifa per club; calciatore dell’anno del Pfa per tre volte, le prime due come miglior giovane calciatore e la terza come miglior calciatore in assoluto; tre volte calciatore del mese della Fa Premier League; otto volte inserito nella Squadra dell’anno della Pfa e una volta in quella del Secolo della Pfa.

Ma non è di lui che ci parla Rodge Glass nel suo Voglio la testa di Ryan Giggs (edizione 66THAND2ND 2014), bensì di Mike Wilson che detiene il record di esordio in Premier League più breve della storia del Manchester United. Glass ce lo fa conoscere il giorno in cui nella casa paterna in un quartiere della working class di Mancester si presenta alla porta sir Alex Fergusson – “il Grand’uomo” – per invitarlo, sarebbe meglio dire “ordinargli”, di presentarsi agli allenamenti delle giovani promesse dello United, premettendogli che lui, sir Alex, solo un’altra volta nella sua carriera di allenatore-manager professionista è andato in visita ad un possibile talento: si trattava di Bryan Giggs. La reazione del ragazzo è questa:

 

“Il Grand’uomo era parecchio in anticipo e quando suonò il campanello non me l’aspettavo e lo giuro su Dio andai fuori di testa, cazzo. Cominciai a correre in giro per la casa senza sapere dove andare. Avrei potuto arrampicarmi sul muro fino al soffitto e poi tornare giù, dall’energia che avevo. Avrei dato un morso al divano.”

 

Avrebbe potuto essere l’inizio di un sogno per un ragazzo di talento a cui piaceva giocare a calcio, viveva per il calcio e faceva parte di una famiglia proletaria che dai tempi del nonno, appena finita la seconda guerra mondiale, possedeva l’abbonamento all’Old Trafford. Lui, il fratello maggiore, suo padre e lo zio Sid non mancavano un appuntamento allo stadio. Come tanti altri ragazzi non attendeva che di essere rastrellato dalle periferie da un talent scout per essere inserito nei pollai d’allenamento di qualche grande club professionistico per diventare un giorno campione come quelli di cui aveva collezionato sino a quel momento figurine o appeso poster ai muri della sua stanza o ammirato allo stadio e in tv. Il massimo, poi, era essere scelto proprio dai mitici red e poter far parte di quella nidiata di talenti che in pochi anni porteranno il Manchester United che non vinceva nulla da più di un ventennio, a vincere tutto il possibile. Invece il talentuoso Mike Wilson, al suo esordio proprio all’Old Trafford a pochi minuti dalla fine, smanioso di dimostrare tutte le sue capacità, inseguendo un lancio leggermente fuori misura fattogli proprio dal suo idolo Ryan Giggs, si avventura in un contrasto durissimo con un difensore rompendo ad entrambi un arto inferiore. Da quell’incidente Wilson non si riprenderà più; non giocherà più nello United e non riuscirà neanche a farlo in altri club di Premier e degli altri campionati professionistici inglesi.

E’ l’inizio della fine per Mike che non riuscirà più ad uscire da questo fallimento; cadrà nella dipendenza dall’alcool; non riuscirà a costruirsi relazioni sociali e sentimentali vivendo una esistenza frustrata e solitaria, ancorato ossessivamente al ricordo di quello che poteva essere e non è stata la sua avventura calcistica, tifoso sino all’estremo dello United, devastato dal ricordo e dalla ricerca di una relazione con quelli che lui continua a ritenere i suoi compagni ma che, di fatto, neanche più lo ricordano. Per Giggs, per Bekam, per Scholes, per i fratelli Neville, la nidiata vincente dello United, quanti sono stati i ragazzi come loro con talento che hanno calcato gli stessi campi di gioco delle giovanili e del campionato riserve senza poi sfondare nel calcio professionistico? Tanti, troppi e tutti dimenticati.

Ma il libro di Glass non è solo il racconto del fallimento di Mike Wilson e della sua progressiva caduta nella solitudine e nella disperazione; è anche il racconto del rapporto tra la working class inglese e il calcio; della progressiva espropriazione operata dalla Premier League dei magnati ultramiliardari del legame affettivo, popolare, di questa parte della società inglese con la propria squadra. Un legame sociale che oggi si alimenta molto meno nei bellissimi interni dell’Old Trafford o degli altri milionari stadi inglesi di proprietà dell’Arsenal, del Manchester City, del Chelsea, del Tottenham, del West Ham ecc. ma, soprattutto, nei pub con mega schermi o solamente schermi televisivi tra birre, whisky, magliette della squadra del cuore e cori di incitamento. Oppure, come fa il fratello di Mike, nella rottura netta con il mondo dorato del calcio professionistico per riversare la passione e quel legame profondo con questo sport nelle serie minori non professionistiche, alla ricerca di sapori e sentimenti meno inquinati dal bussiness. Glass ci fa intravvedere con il rimando continuo alla scelta alternativa del fratello di Mike come nella grande Manchester dello United e del City esistano realtà sociali che si sono distaccate dal calcio professionistico preferendo ritornare all’essenza della passione sportiva e del suo legame sociale con chi lo segue o lo pratica. E a quanto sembra non sono neanche poche.

Tornando al libro di Glass è molto bella la parte che racconta e ricorda i tanti giovani talenti divenuti degli emeriti sconosciuti perché scomparsi dalla scena e dai riflettori durante le continue selezioni che portano solo pochi eletti a calcare il tappeto verde dei grandi stadi professionistici. Toccanti le parti delle riflessioni di Mike sulle speranze e sulle improvvise e spesso non sopportate delusioni del fallimento, della fine del sogno, del ritorno nell’anonimato e nella quotidianità di persone qualunque. C’è chi non regge e non ce la fa come, appunto, Mike Wilson.

Altrettanto belle e spiritose sono le pagine che descrivono la partecipazione emotiva dell’”armata rossa” dei tifosi dei red, disposti a dilapidare i propri risparmi per seguire la squadra nella finale di Champions League di Mosca contro il Chelsea, per una buona parte buggerati dall’acquisto di biglietti falsi e costretti a tifare Manchester United in bar moscoviti guardando la partita dalla tv. La vita del tifoso, osserva Wilson, se la si vuole fare veramente e seriamente è durissima: campionato al sabato o alla domenica, coppe al martedì o al mercoledì, a volte qualche recupero infrasettimanale, praticamente rimane solo il venerdì libero per lavorare. Come può un tifoso impegnarsi seriamente con un impiego con questo fitto taccuino settimanale di appuntamenti calcistici?

L’ossessione, il sogno, l’ammirazione e la maledizione di Mike Wilson è la carriera di Bryan Giggs, un ragazzo di talento come lo era lui, solo che lui ce l’ha fatta. Però Bryan, ammettilo gli scrive Mike, quel lancio che mi hai fatto era sbagliato…non dico che è stata tutta colpa tua che io non ce l’ho fatta, ma un po’ di colpa ce l’hai, ammettilo. Per questo voglio la testa di Ryan Giggs.

 

Unknown

 

Info:

Rodge Glass

Voglio la testa di Ryan Giggs

Editore 66THAND2ND, 2014