O anche dove Zion e Babilonia sono a portata di mano.

We (all) have a dream

di Massimiliano “Miase” Palmesano*

8 / 12 / 2009

Castelvolturno – Ricordo le prime volte che ho sentito parlare di questo lembo della mia terra, una lingua d’Africa nel sud dell’Italia. Precisamente non si trattava di Castelvolturno, bensì dell’allora tristemente famoso ghetto di Villa Literno. Un accampamento delimitato da alti muri fatti di copertoni di camion, dove le persone vivevano ammassate in uno slum, poteva essere provincia di Caserta, Portmore o Soweto, perché il ghetto, il garrison, lo slum è internazionale, è uguale dappertutto, può cambiare il nome, ma la storia non cambia.

Migliaia di ragazzi, moltissimi ancora adolescenti, ghanesi, senegalesi, nigeriani, alcuni del Burkina Faso, poi diventati miei amici, vivevano ammassati lì, uscivano all’alba per spezzarsi la schiena nei campi di pomodoro, per ritornare solo con il buio nel cielo. Non ricordo bene come e perché, ma l’allora giovane camorra casalese una notte incendiò il ghetto di Villa Literno, e tra le fiamme perse la vita il giovane Jerry Masslo. Fu questo il mio primo approccio a questo mondo, a questo pezzo di Africa in Europa che ti metteva a portata di mano la speranza della Terra Promessa, di Zion, di riscatto della gente nera… e Babilonia, con tutte le sue distorsioni e il suo male.

Andai con mio padre, giornalista, per vedere la situazione, ricordo solo silenzio, paura, e centinaia di corpi neri chinati a raccogliere pomodori nelle sterminate campagne dei mazzoni di Villa Literno. Lo ammetto, fu subito amore!

Perché quegli uomini, seppur in condizioni di vita pessime, mi infondevano tanta dignità? Perché qui? Perché Zion e Babilonia qui sono la stessa cosa?

Passò qualche anno, io crescevo, e i primi echi arrivavano via voce, i vecchi tossici, quelli tutti anni '80, jeans stretto, camicia smanicata fino al gomito a nascondere i buchi, si riunivano nel primo pomeriggio, sotto la chiesa di Pignataro per… “apparare” e fare “la partenza”. La partenza. Ovvero andare a comprare eroina e coca, partivano a decine su questo percorso che campagna-campagna, toccando Grazzanise e Cancello Arnone, portava a Castelvolturno in poco più di dieci minuti, qualcuno in auto, altri col motorino, qualcuno in bici… ne ho visti anche a piedi!

Inutile fare giri di parole, io crescevo (of course), e l’eroina (parlo di fine anni '90 qua a Caserta) riscopre una nuova golden age, non ci sono più solo i tossici 80style, ma bene o male si fanno tutti, il sistema, inteso con la doppia valenza di Sistema (che t’ancatena) e di Sistema Criminale, decide scientificamente di anestetizzare un pò i giovani, gli stessi giovani che a metà anni 90 hanno assaporato l’artiglio della Pantera (con un pò di ritardo), e hanno dato vita a una bellissima stagione di lotte studentesche su tutto il territorio, sfociando nell’occupazione del centro sociale Tempo Rosso a Pignataro. Il seme di quelle lotte metropolitane, partite dai tempi dell’autonomia (con la minuscola), la lotta al nucleare negli '80, l’epopea dei centri sociali del '90, fioriva anche in queste desolate terre note ai più per la mozzarella e per essere state “schifate” a morte da Pasolini. Pericoloso quindi, bisognava fare qualcosa. E difatti nelle tasche di qualcuno oltre a qualche cannetta di fumo marocco comincia a spuntare qualche pezzettino di cannuccia (si quelle per le bibite), segmenti di due, tre centimetri confezionati per contenere “a robba”.

Ma torniamo a noi. Questa ventata di zucchero marrone è micidiale per centinaia di ragazzi, e quella strada, nota a pochi iniziati, diventa un’autostrada trafficatissima. Ed è questa l’occasione per i più di rovinarsi, per altri, forse pochi, di venire a contatto con una realtà che senza troppi giri di parole era e resta stupenda, non un enclave, non un ghetto e basta, ma semplicemente Africa su un tratto della Domitiana. Subito mi resi conto che non si trattava solo di grossi pezzi da 30mila lire che al solo aprirli vomitavi, di “cavalli” a rota di crack che per cento lire ti ammazzavano anche, di crack house e baracche nella sterminata pineta. Ho visto cose che è meglio non scrivere, ma credo che l’immaginazione umana sia capace di poterci arrivare. Ma non era solo questo. Era anche la Dignità (con la maiuscola) di migliaia di uomini, donne e bambini, provenienti dalle più svariate parti dell’Africa, che stavano semplicemente riprendendosi quello che noi bianchi, per secoli, abbiamo loro rubato. Mi affascinava camminare in auto sulla Domitiana, passare sulla foce Volturno, che li si trasformava nel Missisipi a New Orleans, le barche dei pescatori (poche) e quelle dei contrabbandieri (sicuro di più) davano il “blues” necessario a quei corpi che camminavano ai lati della strada in cerca di vita nuova, di nuove opportunità. Passavamo davanti al villaggio Coppola (ma non mi è mai interessato tanto) ma eravamo su una qualunque strada del continente nero, schiene spezzate dal lavoro dei campi, ragazzine costrette a dare via il loro corpo, pusher con gli occhi di ghiaccio e la lama sempre arzilla, “The Rock of Salvation” la chiesa battista, con l’insegna fatta a mano (quanto mi piaceva!!!), fratelli africani con macchine sgangherate e rap a palla, il “Black pearl Market”, dove poi ci sarebbe stata la strage dell’anno scorso, dove questa gente viveva e vive una quotidianità che dire difficile è riduttivo, bambini nati qui in Italia (la seconda generazione, la più bella a mio avviso) che hanno affrontato il dover fare i conti con la scuola italiana, il razzismo innocente eppur odiosissimo dei compagni, molte volte l’ignoranza e l’impreparazione dei professori, ma anche fortunatamente l’amore e l’accoglienza che la gente di queste parti ancora sa dare.

Ecco questa gente aveva ed ha un sogno, anche se Babilonia e Zion, qua sono così fottutamente vicine, giri il vicolo e cambia scena.

Io mi sentivo parte di quel sogno, succedeva a 15 minuti da casa mia, non potevo far finta di nulla. è lì, più che nei dischi reggae, che ho cominciato a capire cosa potevano significare pezzi di Marley come Exodus, o che emozioni la parola “rimpatriation” suscita nell’anima dei neri americani. Qui gli africani, come in altre parti d’Europa, avevano fatto un nuovo Esodo, stavolta diverso, non più costretti con le catene ai piedi stipati come merce su delle navi, ma ugualmente crudo. Cambiano i tempi, le dinamiche, le barche e le catene. Ma questa volta il messaggio era chiaro: non siamo schiavi, siamo uomini con una dignità grande come una montagna, siamo qui, restiamo qui, ci riprendiamo quello che ci avete tolto, fuggiamo da fame, guerre e povertà e qui invece cerchiamo di vivere un pò meglio, questa ora è la nostra casa.

Passano gli anni, io cresco, il reggae, il rap, la musica nera in generale prende un posto sempre più importante nella mia vita, nelle mie passioni. Non posso a questo punto non andare con la mente a quei posti che tanto mi avevano affascinato, ricominciare a sognare, a sognare come uomo nato e cresciuto in provincia di Caserta, di poter un giorno fare una serata lì a Castelvolturno, si una dance hall lì, ragazzi bianchi e ragazzi neri, assieme, una valenza e un significato unico. Insomma questo pensiero mi ha accompagnato per anni nella mia vita, il mondo dei ragazzi africani della Domitiana, il mondo dei ragazzi di strada della provincia di Caserta, che poi è lo stesso mondo, la voglia di poter campare più dignitosamente, la voglia di riscatto, il diritto sacrosanto allo stare bene che poi è lo stesso per tutti.

Ma si sa i sogni sono difficili da realizzare, soprattutto dove Zion e Babilonia hanno un muro perimetrale in comune.

Passano gli anni, io cresco (mi faccio quasi vecchio), e la mia terra esce alla ribalta delle cronache nazionali: il clan dei casalesi, gli omicidi, una nuova mafia che attanaglia coi suoi tentacoli tutta la nazione, poi Saviano, latitanti che chiamano i giornalisti per redarguirli come fosse normale, killer che tra un agguato e un altro si vanno a prendere “o ccafè’”, sottosegretari di governo che sono la voce e la volontà dei capi clan, crisi rifiuti, discariche industriali, disoccupazione, in generale un imbarbarimento di questa terra, ma soprattutto delle persone che la vivono; conniventi o meno con “la criminalità”, per vivere qui è innegabile che fai la pelle dura, e il confine tra il ragazzo bianco di Orta di Atella e quello nero di Castelvoturno diventa sempre più labile. In questo scenario avviene anche la strage di Castelvolturno.

Fuori al market, come ogni sera si chiacchiera, si scherza, si ascolta la musica e si comprano le ultime cose che servono per mangiare prima di andare a dormire. Il commando arriva inesorabile, in un’operazione in stile Beirut, i sicari del boss Setola, lasciano al suolo in una pozza di sangue sette ragazzi africani. Può essere successo di tutto, non sta a noi giudicarlo. Quello che resta sono i corpi di sette giovani a terra e insieme a loro i loro sogni, e insieme ai sogni le macerie del muro perimetrale tra Zion e Babilonia, ormai caduto e rovinato del tutto. Poi la rivolta. La ribellione. Ancora una volta resto affascinato dalla dignità di questa gente che senza paura, con rabbia e a mani nude sfida sia i casalesi che lo Stato (molto più pericolosi i primi che i secondi) dicendo a chiare lettere siamo qui e non ce ne andiamo, guai a chi ci tocca.

…e i bianchi che fanno? Odiano logicamente, ma è facile capire il perché. è più facile improvvisarsi membro del Ku Klux Klan in salsa casalese, che mettersi dalla giusta parte degli africani che nulla stanno facendo se non difendere ciò che hanno conquistato contro l’arroganza e lo strapotere dei clan. Forse anche un pò di invidia, d'altronde a memoria d’uomo qua in provincia mai la gente si è ribellata alla camorra e credo mai avverrà, triste a dirlo ma è cosi. In realtà e, ad onor del vero, in mezzo alla rivolta ci sta anche qualche ragazzo italiano (…ecco i sogni che si avverano), qualcuno a fare “da pompiere” ,altri a vivere quel momento di rivolta, quel momento di dignità e soprattutto cercando di camuffare quanto più è possibile la pelle bianca sotto giubbini, guanti e kefiah!

La rivolta di Castelvolturno mette sicuramente un punto fermo nel tempo e nella memoria di tutti, nessuno dimenticherà. Ma si sa Zion è un posto mistico, è la terra promessa, anche dove si mischia con Babilonia, riesce a stupire con la sua magia. È così che avviene l’altro miracolo, anche se sicuramente triste, di questa storia che sto raccontando. Miriam Makeba, si proprio lei, la Mama Africa di Pata Pata, lascia questo mondo proprio a Castelvolturno, dopo essersi esibita per l’ultima volta in un concerto per le vittime della strage. So che urterò contro le coscienze atee, ma credo che la spiritualità di questi avvenimenti sia per gli africani un qualcosa di unico e di impossibile da dimenticare. E ancora una volta io mi sentivo parte di quel sogno, del loro sogno. Miriam Makeba in realtà non è morta lontano dalla sua Africa, non è morta a Babilonia, ma nemmeno a Zion eppur in entrambe i posti. Poteva lasciare questa terra in Sud Africa, in Angola, nel Bronx, in Alabama, a Kingston Jamaica, a Brixton, oppure a Castelvolturno, e comunque ci avrebbe lasciati sapendo di aver toccato l’ultima volta la terra sul suolo della sua amata Africa. Perché la forza tellurica di tutta questa storia e la sua chiave di lettura sta proprio nel fatto che la “rimpatriation”, il rimpatrio degli africani, è già in atto e non è, o meglio non è solo una questione “fisica”, e semplicemente perché, come diceva Marcus Garvey, “Africani is where africans live”. Ho camminato sulla Domitiana, tra i vicoli di piazza Garibaldi a Napoli, a Brixton o a piazza Martim Monitz a Lisbona, a volte con facilità, altre con un pò più di difficoltà, mai aiutato dalla mia pelle color latte e dai capelli biondi, e in ognuno di questi posti ho avvertito sensazioni simili, ho avvertito negli occhi della gente gli stessi sogni, mi sono sempre trovato a casa mia, e qualche fratello africano ci scherza su chiamandomi WhiteAfrica. Ecco forse è proprio vero, è Africa in ogni piccolo posto di questa terra dove viva un africano, in ogni sperduto angolo, è questa la rimpatriation, non tornare in Africa bensì portarla in ogni parte del mondo. Africa is where africans live.

Passa il tempo, io cresco, e si sa a volte i sogni si avverano anche se per pochi istanti, ed è così che dopo anni, qualcosa comincia a cambiare. Vengo a sapere grazie a volontari che lavorano lì, miei amici, che un nostro pezzo, nato per scherzo, Africa, è diventata bene o male una piccola hit nei cellulari e negli iPod a Castelvolturno, un pezzo easy listening, ironico, ma anche radicale, di emancipazione. Finalmente ci chiamano a suonare a Castelvolturno, non mi pare vero e in una festa organizzata dagli africani. Un sogno relativo, sicuramente. Un concerto non cambierà certo le cose, potesse farlo suoneremo tutti i giorni lì, però significa ribadire il concetto: non abbandoniamo i sogni, nemmeno dove Zion e Babilonia vanno a braccetto. Perché è la nostra esistenza ad essere così, abbiamo a portata di mano Zion, e cioè fare la cosa giusta, e anche Babilonia, a volte è questione di scelte, altre di fortuna, ma nessuno può spegnere il sogno di potersi un giorno emancipare, liberare, vivere la propria terra promessa. Aspetto con ansia il giorno del concerto, non diremo nessuna cosa in particolare, non venderemo fumo per lavarci la faccia e fare gli impegnati del cazzo, ne faremo falsi moralismi o la campagna elettorale a qualche vampiro camorrista che si spaccia per politico. Andremo semplicemente a dire, soprattutto a quella seconda generazione di cui parlavo prima, e che ora bene o male è nostra coetanea, siamo figli della stessa terra, respiriamo la stessa aria, non abbandoniamo il sogno che ci accomuna, o almeno proviamoci, visto che lo sappiamo bene che tutta questa Babilonia è solo una maledettissima voglia di Zion!!!

*Pignataro Massive Crew, Militante del c.s.o.a. Tempo Rosso

Pignataro Massive Krew feat Maestro Street Mentality