A Padova in piazza contro la guerra globale e l'escalation militare in Palestina

Il corteo sabato 13 aprile, con partenza alle 17,30 da Piazza Mazzini. L'appello di Cso Pedro, Adl Cobas, Polisportiva San Precario, Asd Quadrato Meticcio.

8 / 4 / 2024

Non servono gli analisti geopolitici a spiegarci che la sensazione comune che sta vivendo l’umanità in questa fase storica è quella di una estenuante e drammatica attesa “pre-bellica”. In realtà la guerra globale è già in atto da tempo, da anni diremmo, quantomeno dal tentativo mai riuscito di costruire un “nuovo ordine mondiale” dopo la fine della Guerra Fredda. Da allora si sono combattuti nel mondo centinaia di conflitti armati, molti dei quali ancora in essere, la maggior parte nelle cosiddette “zone di sacrificio” di un mondo sempre più piegato alle logiche estrattiviste. Guerre spesso invisibili o invisibilizzate, quasi sempre bramate ed eterodirette dalle cosiddette “grandi potenze”, vecchie o nuove che siano.

Se è vero quindi che la guerra è condizione permanente ormai da decenni, è vero anche che la guerra in Ucraina prima e il conflitto genocida messo in atto da Israele dopo il 7 ottobre 2023 sono stati il corto circuiti di quella finta pax capitalista che teneva la guerra fuori dai confini del “mondo che conta”, e fuori dai suoi occhi.

Questi conflitti, e l’escalation globale che attorno a essi si sta generando, rappresentano il punto di rottura di un processo di medio e lungo periodo nel quale si sta ridefinendo completamente il rapporto tra capitale, lavoro e natura e in cui è proprio la guerra ad avere un ruolo fondativo. Siamo quindi di fronte a uno spartiacque della storia, in cui crisi climatica, recessione economica e diseguaglianze sociali si intrecciano con il crollo definitivo delle categorie politiche che ereditiamo dai due secoli precedenti.

In particolare, quello a cui stiamo assistendo da mesi in Palestina è il paradigma di quel primato della guerra sulla politica che connota il nostro tempo. Un conflitto da sempre asimmetrico, che si impianta in quasi 80 anni nei quali a una popolazione viene costantemente negato il diritto a esistere, e che in “soli” 6 mesi è stato in grado di uccidere quasi 40 mila persone. Un genocidio a tutti gli effetti, che si appresta ad avere una nuova tragica svolta dopo la fine del Ramadan, con l’ormai annunciata presa di Rafah.  

Siamo di fronte anche a un’escalation politica del conflitto, in particolare dopo il bombardamento dell’ambasciata iraniana a Damasco da parte di Israele. Il coinvolgimento diretto dell’Iran, sempre più probabile, chiama in causa l’altro conflitto in questione, quello in Ucraina, e non solo perché l’Iran è uno degli alleati più solidi di Mosca, ma perché i tasselli del mosaico della guerra globale rischiano di unirsi pericolosamente.

Proprio sul versante ucraino, che per mesi aveva segnato una situazione di stallo, stiamo assistendo a una nuova accelerazione. Se il disegno di Putin appare chiaro, altrettanto chiaro è quello della NATO che al recente vertice ministeriale ha approvato la proposta del segretario Jens Stoltenberg di “trasformare il pacchetto di assistenza globale all’Ucraina in un programma di assistenza pluriennale, che potrebbe toccare la cifra record di 100 miliardi di dollari per cinque anni. È evidente che nessuna delle grandi potenze è realmente interessata che la guerra in Ucraina finisca, tantomeno l’Unione Europea.

Gli effetti di tutto questo non sono solo di carattere geopolitico. Anzi, se c’è una cosa che abbiamo imparato negli ultimi decenni è quanto la guerra sia immanente a ogni processo sociale messo a valore dal capitalismo. Quello a cui stiamo assistendo, in particolare negli ultimi mesi, è la normalizzazione della guerra che si sta facendo nella narrazione pubblica, nelle scelte politiche ed economiche, in una cultura reazionaria che sta avanzando ovunque. L’economia di guerra ha lo scopo di mettere in questione l’intangibilità del welfare, derubricando nell'ordine delle priorità e salvaguardando invece la crescita dei profitti.

Ed è così che in Italia, come nel resto d’Europa, non solo si sacrifica la spesa sociale a vantaggio di quella militare, ma il “regime di guerra” sta pesantemente condizionando ogni contesto, dai luoghi di lavoro a quelli della formazione, dalle relazioni di genere a quelle ecologiche, dalla gestione dei flussi migratori alla sfera comunicativa.

Il vero paradosso è che ci troviamo in una situazione in cui l’escalation bellica è voluta solo dai governi e sta crescendo sempre di più un sentimento di opposizione alla guerra, percepito o manifestato che sia. Le mobilitazioni a cui abbiamo assistito lo scorso autunno e inverno, in particolare nel mondo universitario, ci restituiscono un clima di riattivazione di un fermento sociale, ma soprattutto ci dimostrano che la condizione di guerra non è qualcosa di ineluttabile. È necessario riconnettere e organizzare questo fermento, ed è necessario farlo innanzitutto a partire dai nostri territori e dalle nostre città, dove lottare contro la guerra globale significa creare legami sociali stabili in cui l’idea di “pace” sia intrinsecamente legata a quella di uguaglianza, equità e diritti per tutt*.

Per queste ragioni ritorniamo in piazza a Padova sabato 13 aprile, per dire “NO alla guerra globale”, per fermare l’escalation militare, il genocidio del popolo palestinese e chiedere un immediato e permanente “cessate il fuoco” di tutte le guerre.