Come la pandemia aumenta il divario tra profitto e diritti

«Non fermarsi!»: il motto di Confindustria e il “triage sociale” nel mondo della produzione

18 / 3 / 2020

Dal primo decreto  che ha visto l’estensione della “zona a rischio” a tutta Italia a mercoledì 11 marzo, quando l’OMS decretava lo stato di pandemia globale e il governo Conte emanava nuove misure che hanno imposto la chiusura degli esercizi commerciali non necessari, l’Italia ha cambiato drasticamente rotta.

Non sono queste però le uniche cose che stanno scuotendo il Paese; infatti in questi giorni  scioperi e agitazioni spontanee stanno attraversando diverse aree produttive e praticamente tutte le categorie con delle parole d’ordine molto semplici: “anche noi vogliamo restare a casa: non siamo carne da macello”.

Almeno 15 milioni i lavoratori e le lavoratrici del settore privato sono ad oggi ancora impiegati per non bloccare il sistema produttivo italiano: soggetti spesso non tutelati né contrattualmente né, visto la situazione di emergenza sanitaria, nella salute. Dalle fabbriche metalmeccaniche ai magazzini della logistica, passando per gli autotrasportatori, la richiesta è semplice: chiudere tutte le attività non essenziali e rimanere a casa con il salario pieno e garantito. Per quei lavoratori e lavoratrici “costrette” ad andare a lavorare è tassativo pretendere misure di tutela che passano sia dalla revisione del documento di valutazione dei rischi (Duvri), sia dalla fornitura di tutti gli strumenti di tutela protettivi ( come ad esempio mascherine a conchiglia FFP3, guanti monouso e disinfettanti), fino alla sanificazione di tutti i locali e i veicoli oltre che a una riduzione drastica dei ritmi e dei volumi della produzione, garantendo solo la produzione e la circolazione e la consegna dei beni di prima necessità.

Richiedono inoltre di non essere trattati come lavoratori e lavoratrici di serie B, di non essere quelli identificati “sacrificabili” per il bene del profitto e del capitale.

In un momento in cui non si sta parlando di sospendere il sistema produttivo, le persone impiegate sono più esposte al contagio, specialmente perché stanno avvenendo numerosissime segnalazioni di luoghi di lavoro e aziende che non stanno predisponendo alcuna misura di sicurezza né tantomeno sanificando gli spazi comuni e di lavoro.

Se Confindustria è scesa subito sul piede di guerra, dichiarando addirittura “irresponsabili” gli scioperi, dal canto suo il governo sembra fare orecchie da mercante. La firma del “Protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e contenimento della diffusione del Covid-19” sabato scorso, è stata un grande bluff, in quanto prevede degli standard di sicurezza in questo momento impossibili da garantire integralmente.

Le misure di sostegno al reddito sono insufficienti, in quanto o scaricano sui lavoratori i costi della crisi (consumare o scalare le ferie e i permessi) oppure non garantiscono a chi vuole o deve stare a casa la piena retribuzione. Congedi parentali ordinari al 30% oppure straordinari per 15 giorni al 50 %, come previsto dal Decreto “Cura Italia”, non permettono, ad esempio in nuclei familiari monoparentali, di arrivare a fine mese.

Questo porta a creare situazioni di discriminazione tra categorie di lavoratori, tra quelli maggiormente tutelati, quelli parzialmente tutelati e quelli sacrificabili, che spesso solo i lavoratori cosiddetti “invisibili”.

In tutto questo emerge con forza la questione del “reddito di quarantena”, richiesta che non va intesa solo in termini emergenziali, ma che riapre a tutto tondo l’annosa questione della continuità salariale, della piena retribuzione delle forme di lavoro decontrattualizzate e non riconosciute, dell’emancipazione collettiva di tutto il lavoro vivo in questo Paese, oltre che della cancellazione delle rate di mutui, affitti, bollette e prestiti.