Ottanta giorni di sterminio – Una voce da Gerusalemme

22 / 12 / 2023

Un articolo di Layal Hazboun, originariamente pubblicato su "We are not number"  col titolo: 

“Miei cari amici, siete ancora vivi?”

Due anni fa, mentre mi trovavo in Italia, un amico giapponese mi si avvicinò con il telefono in mano e mi chiese di indicare il mio paese su una mappa. Nemmeno i miei amici cinesi capivano da dove provenissi. Oggi invece la città di Gaza e il genocidio in corso sono sotto gli occhi di tutti e il mondo intero è sceso in piazza in solidarietà con la Palestina. Il 7 ottobre mi sono svegliata insolitamente presto e ho agguantato il telefono. Su Instagram mi sono imbattuta subito in un video di un amico che lavora a Giaffa. 

Il filmato mostrava delle auto guidate dai combattenti delle brigate al-Qassam di Gaza che circondavano gli insediamenti, accompagnate dal lamento inquietante delle sirene. Quella scena era tanto surreale da farmi dubitare che fosse vera, fino a quando, pochi minuti dopo, le sirene sono echeggiate anche a Gerusalemme. Proprio in quel momento mio padre ha risposto alla telefonata di mio zio: «Ciao, Josef. hai sentito le notizie?»

Quel giorno i palestinesi non parlavano d’altro e restavano incollati alla televisione. Immagino quanto sia difficile capire per tutte le altre persone: per la prima volta noi palestinesi abbiamo avuto un assaggio di cosa significasse la liberazione. Si respirava un ineffabile senso di ottimismo – la convinzione che qualcosa di significativo stesse per cambiare in nostro favore. I palestinesi hanno vissuto per decenni sotto gli anfibi dell'oppressione, pertanto restituire i colpi ricevuti non poteva che esserci di consolazione. Tuttavia la brutale risposta israeliana seguita appena il giorno dopo ha mandato in frantumi tutte quelle illusioni. 

La paura a Gerusalemme 

Abitare a Gerusalemme è improvvisamente diventato un motivo di terrore. Accecati dalla rabbia, i coloni israeliani hanno diffuso minacce di morte su tutti i social. Quando mi trovo a casa da sola, chiudo a chiave tutte le porte. So che probabilmente i coloni non verranno ma non mi sento certo al sicuro, specialmente adesso che sono stati armati dal governo israeliano. Ciò nonostante, dato che ho viaggiato all'estero più volte e sui social sono in contatto con molti amici internazionali, mi sento in dovere di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle atrocità in corso a Gaza. Su Instagram pubblico più storie ogni giorno. 

Mi sento impotente, colpevole di non soffrire come soffrono le persone a Gaza. Per quanto poco, devo fare qualcosa. Da allora ho appreso che gli studenti palestinesi che studiano nelle università israeliane stanno venendo espulsi e che i dipendenti perdono il lavoro dopo aver pubblicato contenuti a favore della Palestina. I rischi sono aumentati non appena le forze di occupazione israeliane hanno iniziato a fare irruzione nelle case di Gerusalemme est, a perquisire i telefoni delle persone per le strade e nei posti di blocco, arrestandole con il pretesto di incitamento al terrorismo. 

Ora, ogni volta che supero un checkpoint, mi assicuro di eliminare Telegram, Instagram e anche certe conversazioni su WhatsApp. Alcune persone lasciano addirittura il telefono sempre a casa. Nessuno si sente più al sicuro. Ricevo molti messaggi e chiamate da amici e familiari che mi chiedono di smettere di pubblicare contenuti politici: temono per la mia sicurezza. Eppure, se lo facessi, mi sentirei una traditrice. Perciò non bado alle loro suppliche e continuo a condividere, solo meno frequentemente. 

Le sofferenze in West Bank 

La situazione in Cisgiordania rispecchia la disperazione a Gerusalemme. Il 7 ottobre, le forze di occupazione israeliane hanno chiuso tutti i checkpoint e quindi tutte le vie d'uscita dalla Cisgiordania. I palestinesi che vivono in West Bank e lavorano a Gerusalemme non possono più raggiungere i loro luoghi di lavoro. I coloni, spinti dalla rabbia, hanno licenziato migliaia di lavoratori palestinesi. 

Oltre ai soliti checkpoint, sono stati istituiti nuovi posti di blocco tra le diverse città e i quartieri all’interno della Cisgiordania. Pertanto, le scuole e le università sono passate alla didattica a distanza online. Inoltre istituzioni, imprese e attività hanno smesso di funzionare a causa degli scioperi, motivati dai numerosi massacri commessi dalle forze di occupazione israeliane in Cisgiordania e Gaza. 

A Betlemme, per esempio, da dove è originaria la mia famiglia paterna, molte famiglie hanno perso il loro reddito, poiché la città vive di turismo. Dal 7 ottobre turisti e pellegrini non vengono più in Terra Santa; questo spinge gli alberghi a chiudere e a lasciare a casa i propri dipendenti. Il mio fidanzato, mio cugino e il marito di mia cugina lavorano in un hotel, mentre mio zio e due mie zie possiedono negozi di souvenir che ora sono chiusi. I genitori del mio fidanzato fabbricavano souvenir artigianali in legno d'ulivo da vendere ai pellegrini. Inoltre a due amici stretti del mio fidanzato che lavoravano negli insediamenti israeliani non è più consentito attraversare i checkpoint o lavorare fuori dalla Cisgiordania. 

Mi sento in colpa per ogni sheqel speso mentre osservo la sofferenza economica che mi circonda, senza alcuna speranza all'orizzonte. 

Prigionieri liberati e speranze infrante 

Dal 7 ottobre, le forze di occupazione israeliane hanno ripetutamente invaso i Territori palestinesi, arrestando 3.580 persone e uccidendone 263 in West Bank e Gerusalemme. All'inizio controllavo Telegram ogni giorno per assicurarmi che nessuna delle persone che conoscevo fosse stata arrestata. Ma l'elenco è diventato ancora più lungo. Paradossalmente molti di questi arresti hanno avuto luogo durante la temporanea “tregua” a Gaza. Secondo al-Jazeera, durante i primi quattro giorni della tregua e dello scambio di prigionieri, le forze israeliane hanno arrestato quasi tanti palestinesi quanti ne hanno rilasciati: ne sono stati imprigionati 133 contro i 150 liberati. 

Il tormento di Gaza 

Negli ultimi due mesi mi sono resa conto di quanto sia una condanna avere degli amici a Gaza. Nella mia impotenza, posso soltanto seguire il telegiornale e sperare che i miei amici restino in vita. Mi sembra che ogni mia azione quotidiana, dal mangiare al dormire, sia come immorale davanti alla loro sofferenza. Dal momento che dal 2021 sono membra dell'associazione We Are Not Numbers, ho stretto molte conoscenze a Gaza, tra le quali un paio dei miei amici più cari, Maram e Raed. Ecco perché, dal 7 ottobre, controllo più regolarmente il gruppo WhatsApp di WANN, solo per assicurarmi che siano tutti vivi. 

Ogni volta che perdiamo un compagno, il suo nome viene annunciato sul gruppo. Quando non si ricevono notizie significa che va tutto bene. Poi è venuto il 14 ottobre. Mia sorella mi ha raggiunto mentre mi sistemavo i capelli, ma non aveva il solito sguardo infantile che vanta ogni volta che mi segue dopo la doccia, quando mi chiede di prepararle del latte. 

Mi ha guardata con un'espressione grave e mi ha chiesto: 

«Conosci un certo Yousef Dawas?» 

Immediatamente, il sangue mi si è gelato nelle vene, non volendo sapere cosa sarebbe successo subito dopo. C'è una canzone di uno dei miei gruppi preferiti, i Glass Animals, intitolata It's all so incredibly loud, che parla dei pochi raggelanti secondi di silenzio prima dell'annuncio di una notizia terribile. 

Questo è stato uno di questi momenti. 

«Sì… sì» ho riposto. «Perché?» 

Lei voleva esserne certa, quindi ha chiesto di nuovo: 

«Ha i capelli ricci?» 

«Sì!» ho esclamato, ora un po' impaziente. 

«Perché?» 

«È stato ucciso.» 

In tutta la mia vita non avevo mai iniziato a piangere così velocemente dopo aver ricevuto una brutta notizia. Mi era difficile aprire la bocca per prendere fiato. Mia sorella, a cui di solito non piace il contatto fisico, ha sentito il bisogno di darmi l’abbraccio più grande che avesse mai dato a qualcuno. Per giorni e giorni ho pianto prima di andare a dormire e ogni volta che qualcuno pubblicava la sua foto sui social, mi ritrovavo a ricordare le nostre conversazioni su Instagram. Non ho mai incontrato Yousef di persona, ma era un buon amico. Avevamo una cosa in comune, i nostri capelli ricci, e quindi la maggior parte delle nostre conversazioni ruotava attorno a questo. Di solito mi chiedeva quali prodotti utilizzavo e come li acconciavo. 

L'ultima volta che ci siamo scritti, abbiamo parlato delle nostre madri, che ci incoraggiavano a smettere di lisciarci i capelli e di goderceli così com'erano. 

L’ultimo messaggio che ho ricevuto da lui è stato: 

«Beh, tua madre ha buon gusto.» 

Non avrò mai più la possibilità di scoprire cos'altro avevamo in comune. Possa la tua anima riposare in pace, amico mio. 

«Miei cari amici, siete ancora vivi?» 

È terribilmente snervante non ricevere notizie da un caro amico, sapendo che questo non si trova al sicuro. L'ho provato fin dall'inizio dell'aggressione, tra gli incubi dei missili e dei bombardamenti che mi tormentavano di notte. I messaggi che invio agli amici rimangono senza risposta, cosa emotivamente estenuante. Non conosco nemmeno alcuni dei loro cognomi, quindi non riesco a cercarli tra quelli delle vittime. 

Maram Faraj è una dei miei più cari amici di Gaza. La conosco dal 2021. È stata una dei primi membri a contattarmi quando mi sono unita a WANN. Da allora, siamo state a così stretto contato da messaggiare e chiamarci praticamente ogni giorno. Questo, ovviamente, prima del 7 ottobre. 

Ora riesco a malapena a comunicare con lei. Per la maggior parte del tempo non ha né connessione internet né elettricità. A volte è impossibile ricevere una telefonata per colpa della linea che cade continuamente. Quando invece ho la possibilità di parlarle, ironicamente, è lei che cerca di essermi di conforto. 

Maram ha dovuto evacuare la sua abitazione nel quartiere di al-Karama nella città di Gaza. Da allora, non ha più un posto da chiamare casa. È dovuta scappare altre due volte, senza mai essere più al sicuro. Poi, il 24 ottobre, la casa di Maram è stata bombardata. Era la prima volta che sentivo la disperazione nella sua voce. 

Fortunatamente la sua casa era vuota, ma aveva comunque perso ogni oggetto a lei caro che possedeva. 

«Vorrei essere stata là dentro mentre veniva bombardata. Vorrei essere stata uccisa. Non mi è rimasto più niente, Layal» è stato tutto quello che mi ha detto. 

La seconda volta in cui ha ceduto alla disperazione è stato il 4 dicembre, l'ultima volta che mi sono sentita al telefono con lei. La sua voce suonava insolitamente incerta, potevo percepire la sua paura. Era distratta. Ho capito che aveva pianto. 

«Scusa, Layal» ha detto lei, «ti parlerò quando mi sentirò meglio, ok?» 

Non mi sono mai sentita così spaventata e disperata in vita mia. Vorrei poter fare qualcosa per poter ascoltare di nuovo la sua risata.

Le chiese consolano le moschee 

È diventato evidente che l’aggressione non fa discriminazioni di religione. Al 18 novembre, sono state bombardate centonovantadue moschee e tre chiese, inclusa la chiesa ortodossa di San Porfirio che si dice sia la terza chiesa più antica del mondo. Il 19 ottobre mio padre ha ricevuto una telefonata da Gaza. Non riuscivo a sentire cosa gli stessero dicendo, ma il tono di mio padre si faceva sempre via via più alto mentre i suoi occhi iniziavano a inumidirsi. Abbiamo scoperto che è stata colpita la chiesa di San Porfirio, che ci sono stati dei martiri e che alcune persone erano ancora sepolte sotto le macerie. I canali televisivi non avevano ancora trasmesso la notizia, quindi non sapevamo quante persone fossero state uccise e i loro nomi. Sia in quanto cristiano sia in quanto direttore regionale della Missione Pontificia a Gerusalemme (ha visitato Gaza più volte durante i suoi viaggi di lavoro), mio padre era preoccupato per il suo dipendente a Gaza, Sami Tarazi, perché sapevamo che si stava rifugiando nella chiesa insieme a tutti i suoi familiari. 

Dal 7 ottobre Sami non aveva mai smesso di darsi da fare, assicurandosi di procurare cibo e acqua a tutti coloro che si rifugiavano nella chiesa, nonostante lui per primo non fosse al sicuro. Mentre aspettavamo una chiamata da parte di Sami, la tensione nell'aria si tagliava con il coltello. Era come se potessi sentire il battito del cuore di tutti, compreso il mio. 

Quando abbiamo saputo che Sami era vivo, la notizia della sua salvezza è stata un sollievo amaro, oscurata dalla tragedia della perdita dei suoi genitori e di sua nipote. Ho sentito subito un nodo alla gola; mio padre e mia madre singhiozzavano. Diciotto persone sono state uccise quel giorno nella chiesa. A livello personale, questo per me è stato il momento più triste, dal momento che avevo incontrato Sami l'anno scorso a Gerusalemme per Natale. Non riesco ancora a comprendere il suo dolore, né posso avere idea di cosa abbia provato quel giorno. 

Nessuna speranza in vista 

Sono passati due mesi dal 7 ottobre. Quando è stata dichiarata la tregua, avevamo qualche speranza. Ma ora che l’aggressione contro Gaza è ripresa, e più duramente di prima, ci chiediamo: «Quando finirà questo incubo? Quando il mondo si sveglierà e sceglierà di porre fine a questa follia? Quanti altri dovranno morire prima che il mondo si renda conto che ne abbiamo avuto abbastanza?».