13 febbraio no a Berlusconi, no a Marchionne

8 / 2 / 2011

Le compagne e i compagni che animano il percorso di uniticontrolacrisi a nordest, saranno nelle piazze delle proprie città il prossimo 13 febbraio. Lo slogan che rieccheggerà, declinato da ognuno in modi diversi e attraverso diverse sensibilità, unisce Berlusconi a Marchionne nel dirigere a loro, ai due insieme, la pubblica e perentoria richiesta che se ne vadano.

E’ una decisione questa, di partecipare alla giornata di mobilitazione, che vorremmo offrire come contributo ad un dibattito pubblico composto di tante voci e sfumature. Troppo importante quindi, come lo è il momento, per evitare attraverso artifizi tattici o diplomatici, di andare alla sostanza.

Innanzitutto cerchiamo di guardare al contesto nel quale si inserisce il 13 febbraio: un vasto movimento di opinione che comincia a rendersi visibile attorno alla richiesta di dimissioni del premier. Quando l’opinione assume fisicità, si raduna e si organizza, siamo potenzialmente sempre in presenza di una transizione di stato: da rappresentati a coloro che vogliono rappresentarsi da sé. Quando capita significa che il meccanismo di cattura e rappresentazione dell’opinione, tradizionalmente legato al ruolo e al sistema dei partiti, è in crisi conclamata.

Questo dunque un primo spunto di riflessione: la movimentazione sociale che chiede le dimissioni di Berlusconi, è frutto della crisi dei partiti della sinistra, e non conseguenza delle loro tattiche. Va affrontata con speranza, la moltitudine disorientata che da un palazzetto dello sport ad una piazza televisiva, davanti ad un tribunale o dentro una fabbrica, si manifesta cercando ciò che non trova più nella delega a qualcun altro. Speranza significa il contrario di tolleranza o mediazione: vuol dire sapersi dotare di umiltà e determinazione allo stesso tempo, e ciò è la misura di quanto ci si debba sentire parte di questa moltitudine, dei suoi destini e delle sue incertezze.

I partiti dell’opposizione inefficace, quella parlamentare e quella per via giudiziaria, rincorrono: come a Genova, vi ricordate? Lo fanno sempre in maniera scorretta e non c’è mai da fidarsi, perché il loro problema è che l’avvento dell’opinione decisa ad autorappresentarsi, non è che li condanni alla morte, come avremmo detto un tempo, ma mette in seria discussione i loro gruppi dirigenti, gli organigrammi consolidati, le dislocazioni di potere personalizzate, le procedure di cui si nutrono. In pratica questo tipo di opinione lungi dal voler fare tutto da sé, perché il rapporto tra tumulto e democrazia perfino l’Egitto ce lo mostra in tutta la sua complessità e contraddizione, ma costringerebbe i partiti e la politica a diventare qualcos’altro, spazio percorribile del comune politico invece che “organizzazione privata”. La “rincorsa” disonesta si avvale di trucchi: ad esempio quello che vorrebbe consegnare il 13 febbraio ad un antiberlusconismo possibile solo come sacralizzazione istituzionale, tale da giustificare Sante Alleanze che vadano dalla Chiesa ai fascisti neo rautiani di Fini, come li definisce un loro eminente ideologo, fino a coloro che si definiscono democratici. Oppure far arretrare paurosamente il dibattito di genere, trasformandolo in una disputa tra “donne per bene” o puttane, o tra maschi opportunisticamente rispettosi o sfacciatamente laidi, dimenticando che gli stupri si commettono tra le mura domestiche e che il nodo della differenza di genere, affrontato in maniera formidabile dal movimento femminista negli anni 70, oggi è tutto da reindagare all’interno delle categorie che segnano il passaggio da un potere ad un bio-potere, ad un capitalismo che sussume l’intera vita e determina e si alimenta delle mutazioni antropologiche stesse dell’essere umano.

Ridurre a moralismo la discussione sui festini di Arcore, toglie di mezzo Marchionne: certo perché questo è il grande problema del Pd, che deve dire di no a Berlusconi, dicendo di sì al modello feroce di liberismo che l’Ad della Fiat incarna. Ecco perché senza una alternativa di società, l’opinione ridiventa solo carburante per il consenso dei partiti, e non può trasformarsi in qualcosa che cambia il nostro vivere collettivo. Quella che dalle notti del “vecchio flaccido” traspare con tutta la sua violenza è la diseguaglianza sociale all’ennesima potenza: milioni di euro buttati in faccia come sassi a chi non arriva a fine mese, a chi deve pagare il mutuo della casa, a chi per avere un salario deve accettare di cedere tutti i diritti e la dignità. Il possesso del corpo altrui è in realtà il poter disporre della vita altrui: è quello che impone la ricetta di Pomigliano e Mirafiori, che impone un uso della crisi che spinge nella direzione della precarizzazione generale l’intero corpo sociale.

La rendita finanziaria, dalla quale dipendono gli enormi guadagni di Marchionne e Berlusconi, descrive l’economia di questo sistema, quello di un capitalismo in crisi strutturale, che continua a riproporre sé stesso finchè gli sarà possibile. Nemmeno Berlusconi va banalizzato: svolta quando diventaimprenditore del lavoro cognitivo, trent’anni fa, e mette a valore tramite le sue televisioni le relazioni, i sogni, i desideri di una intera società. Non solo, li produce, li orienta, li trasforma. Coglie dunque fino in fondo, la potenza produttiva della comunicazione nell’organizzare la nuova società dei media e dell’informazione. Il fatto poi che elementi da tardomedioevo si mescolino, finanche nelle biografie di questi nuovi capitalisti, a quelli legati alle visionarie e tecnologiche interpretazioni del futuro, è una caratteristica che contraddistingue il tipo di capitalismo che imbriglia il nostro vivere. Proprio come accade con Marchionne, il top manager con il maglioncino, che unisce l’abilità di un broker con l’avidità di un vecchio rentier, facendo credere di vendere auto.

Dire no a Berlusconi e a Marchionne nelle piazze del 13, può aprire confronto e dibattito, verso qualcosa di comune. Abbandonarle invece consentendo che esse siano solo il teatro di operazioni politiche e culturali che non indicano nessuna alternativa se non persino peggiore dell’esistente, sarebbe un errore.