Che genere di sicurezza. Donne e uomini in città

Intervista a Tamar Pitch*

Utente: mymy
4 / 5 / 2009

Partirei provando a riposizionare nel presente alcune sue riflessioni passate. Questo tanto discusso pacchetto sicurezza, attraverso i discorsi che produce e le conseguenze che reca in sé, prende le sembianze di un dispositivo di normazione, in cui un concetto soggettivo come la sicurezza non viene più visto come condizione base di esistenza, ma viene rideclinata come diritto dei cittadini o – come scrive lei – anziché bene pubblico un bene del pubblico, portando contemporaneamente avanti anche una sottrazione di libertà anziché un allargamento di queste.
Tutto ciò avviene – tra le altre cose – attraverso una categoria, quella della paura (anche questa soggettiva) che viene ad essere oggettivata, mettendo – e questo è il discorso che mi piacerebbe fare insieme a lei – in antitesi due concetti che andrebbero teoricamente di pari passo, andrebbero comunque visti come “compagni”: libertà e sicurezza.

Compagni, sì, se decliniamo la sicurezza come si faceva fino a un po’ di tempo fa, come sicurezza sociale, come possibilità di avere quelle risorse sociali, economiche e culturali che ci mettono al riparo dai rischi della vita, che non sono soltanto e neanche principalmente la criminalità, ma anche la malattia, la disoccupazione, eccetera. Allora, se decliniamo la scurezza in questo senso, evidentemente sicurezza e libertà vanno strettamente congiunti. Laddove invece sicurezza sia intesa come riduzione del rischio della vittimizzazione della criminalità di strada, ecco allora che invece libertà e sicurezza si divaricano, perché se noi decliniamo la sicurezza in questo modo, questo legittima e giustifica quello che è successo fin’ora: l’elaborazione di politiche che non sono più politiche sociali, ma sono politiche di sterilizzazione del territorio, di prevenzione dai rischi di criminalità di strada e dunque anche misure repressive, più repressive di quelle che c’erano prima e così via. Dunque in questo senso davvero libertà e sicurezza si divaricano.
Il punto di vista di genere non è uno dei punti di vista possibili, ma molto spesso si presenta come una leva per andare a rendere espliciti meccanismi che non lo sono immediatamente. In questo caso meccanismi di vittimizzazione ed esclusione: noi abbiamo assistito in tutti questi mesi da una parte alla strumentalizzazione del corpo femminile, del dramma degli stupri, e dall’altra alla messa in condizione di invisibilità della donna, all’interno di politiche che non parlano né di lei, né delle sue esigenze né tantomeno del suo diritto di autodeterminazione. Soprattutto quando, lo sappiamo e decenni di femminismo lo hanno ribadito, la sicurezza delle donne è visibilità è circolazione ed è autonomia delle donne stesse.
Non c’è dubbio, è proprio così. C’è stata una declinazione della questione della sicurezza in maniera femminilizzata in due sensi: da un lato perché tutti e tutte siamo stati ricostruiti come probabili, possibili vittime, o vittime potenziali e quindi tutti e tutte ridotti al ruolo tradizionale che si assegna al femminile (debolezza, fragilità, eccetera). E dall’altra, ancora peggio naturalmente (e non è una cosa nuova) si sono utilizzate le questioni che riguardano più direttamente le donne – alcune violenze che riguardano quasi esclusivamente le donne, come gi stupri – per costruire una campagna volta alla caccia allo straniero, alla caccia al nemico. E questa non è una cosa nuova. Invece la questione della sicurezza, e in particolare della sicurezza in città, è stata presentata come neutra, come se la città non fosse abitata da uomini e donne, oltre che da persone di tutti i colori e da persone di tutti i ceti sociali. E dunque si è più o meno consapevolmente trascurato il fatto che i pericoli per le donne non vengono dal pubblico, dall’attraversare la città, ma, come noi sappiamo, dal subire violenza all’interno delle “sicure” mura di casa, dai loro cosiddetti protettori, nei luoghi di lavoro e così via. E quindi in questa costruzione c’è di nuovo una doppia vittimizzazione delle donne, perché si trascura la loro effettiva situazione e poi si ribadisce invece che devono stare molto attente quando girano e attraversano il mondo da sole e libere. Allora si dice: no, dovete stare attente. Questo di più di attenzione che è richiesto alle donne nell’attraversare il mondo si muta in autodisciplina, in autocensura rispetto al fare, ad andare, a frequentare i tempi e i luoghi della città e del mondo in generale. Quindi c’è una doppia vittimizzazione attraverso, da un lato, la neutralizzazione della questione sicurezza nella città e, dall’altro invece, una sottile ricostruzione della sicurezza intesa come questione al femminile, perché riduce tutti e tutte al ruolo, che si attribuisce alle donne, di debolezza e vulnerabilità eccetera. E tutte e tutti siamo ricostruiti come potenziali vittime della criminalità di strada.
C’è un aspetto strettamente intrinseco a questa fase cosiddetta di crisi, che delinea una situazione nel quale la sicurezza è neutralizzata o declinata al femminile da una parte, ma dall’altra ripropone stereotipi di genere, fortemente connotati come maschili, primordiali e violenti (penso alla questione delle ronde). E ci sembra che gli stessi profili delle città vengano poi ridisegnati anche sulla base di questi stereotipi fortemente polarizzati
Stereotipi razzisti e machisti. L’idea è la solita: del resto a Roma abbiamo visto molto bene tutta una serie di manifesti usciti qualche tempo fa in cui si diceva: dobbiamo difendere le nostre donne dagli stranieri brutti e cattivi. E le politiche dei governi di adesso e tutte le politiche e le retoriche in generale sono state improntate a questo: difendiamo le nostre donne dagli altri, dagli stranieri. Perché è anche questa una cosa molto nota: lo stupratore è sempre quell’altro, lo stupro segna il confine tra il dentro e il fuori. Dentro non si può stuprare, soltanto fuori si stupra, lo stupratore è un nemico e il nemico è stupratore: vanno sempre insieme le due cose.
Dopodiché “noi uomini” siamo i protettori delle nostre donne. C’è una retorica machista che è allo stesso tempo una retorica razzista, come è sempre stato del resto. E la figura di “noi uomini” è la figura dei protettori, ma anche dei “padroni delle donne”, delle “nostre donne”, per l’appunto. Ed è sul corpo delle donne che adesso si giocano moltissime battaglie, soprattutto battaglie culturali. Basta vedere e sentire la retorica del “celodurismo”, le barzellette del nostro presidente del consiglio, la promessa di un soldato accanto ad ogni bella donna e così via. Sono tutti parte dello stesso clima culturale.
Lei dice che la libertà di movimento nelle città è connotata diversamente per uomini e donne. Per quale motivo?
Dico che la percezione è connotata in maniera diversa perché alle donne si dice che loro in città corrono dei rischi, corrono dei pericoli, devono prendere precauzioni, devono stare attente perché possono sempre essere prede e vittime. Agli uomini questo non si dice: si è sempre detto che la città invece offre agli uomini – soprattutto agli uomini giovani naturalmente – opportunità e che queste opportunità si devono cogliere. La città moderna è costruita così nell’immaginario corrente e le donne naturalmente l’hanno ben interiorizzato questo, nel senso che più o meno consapevolmente ci autocensuriamo, prendiamo tutta una serie di precauzioni che gli uomini non prendono o prendono molto meno. Anche se poi, andando a interrogare gli uomini, loro dicono che non hanno paura per se stessi, ma per le loro donne. Anche perché loro non ammettono la possibilità di avere paura per sé. D’altra parte, quando hanno paura, hanno paura di altri uomini non di donne.
E’ particolarmente interessante quanto scrive in un articolo del 1996 in cui lei parla della disposizione che hanno le donne di “correre dei rischi” a delle condizioni: condizioni che allo stato attuale mi sembra vengano a mancare. In che senso lei intende questo concetto di “correre dei rischi”?
Si può dimostrare attraverso le ricerche che ciò che noi sociologi chiamiamo “fiducia generalizzata”, cioè una fiducia non rivolta a una singola persona o a un gruppo di persone, ma la sensazione di poter fare delle cose, questa è strettamente connessa al correre i rischi. È il correre dei rischi che produce questa fiducia generalizzata, ma al tempo stesso si possono correre dei rischi solo se si è messi in grado di farli e se, correndoli e incorrendo in qualche problema o danno, si può trovare una soluzione ad essi. Il che vuol dire che per correre rischi bisogna avere le risorse sociali, economiche e culturali per poterli correre. Allora questo io credo che sia dimostrato dal fatto che le donne, che hanno maggiori risorse, sono quelle che corrono maggiori rischi e quelle che dimostrano nei fatti di avere meno paura, di prender meno precauzioni, e così via. Quindi direi che il dire alle donne: state attente chiudetevi in casa, non fate questo, non fate quest’altro è esattamente il contrario della produzione di fiducia generalizzata laddove invece quello che diceva lei è assolutamente condivisibile, nel senso che quello che il femminismo ha sempre detto è che maggiore possibilità di autonomia e autodeterminazione creano non soltanto maggiore libertà, ma maggiore possibilità di correre rischi e dunque di sentirsi sicure.
Lei mette l’accento su un aspetto importate: la percezione. Nei suoi scritti mi è sembrato rivolgesse un invito alle donne a vivere attivamente questa sicurezza, questa libertà.
Allo stesso tempo tutto questo è possibile soltanto se ci si sono anche da parte delle istituzioni delle politiche tali che rendano questo agevole. E ritorno alla questione delle risorse: piuttosto che fare politiche dirette alla scurezza e mettere soldi lì, fare politiche dirette alla fiducia generalizzata, che poi sono le vecchie politiche sociali.

*Docente di sociologia all'Università di Perugia e autrice del libro "Che genere di sicurezza. Donne e uomini in città" edizioni Franco Angeli