L'economia dei commons e delle reti, che popolano la Terra di Mezzo tra mercato e piano

5 / 11 / 2009

1. Una svolta annunciata: era ora

Il Nobel per l’economia è stato dato quest’anno, a pari merito, a Elinor Ostrom e a Oliver E. Williamson. Due economisti americani che sono stati premiati per i loro contributi in tema di “governance economica”. Con due specificazioni importanti: per la Ostrom la governance segnalata dal premio è quella che riguarda i “beni comuni” (commons”), come il territorio, l’ambiente, la cultura, la conoscenza condivisa da una certa società; per Williamson, invece, la motivazione si riferisce alla questione dei “confini dell’impresa”, ossia delle reti che estendono o restringono lo spazio di azione delle imprese. E’ una buona notizia, che conferma l’inversione di tendenza inaugurata da poco con il premio dato a Paul Krugman l’anno scorso. In passato l’Accademia svedese aveva manifestato una netta preferenza per la main stream economica che dissolve il problema della governance, delegando la questione a due automatismi che lavorano al di sopra dei soggetti direttamente interessati: il mercato e lo Stato. Due semplificazioni che – con i loro annessi e connessi - possono essere comode dal punto di vista teorico, perché rendono calcolabili i comportamenti, ma che sono lontane dall’economia reale, specialmente in un mondo postfordista dove le forme organizzative nascono dalle idee e dalle capacità di relazione dei soggetti in campo, e solo in parte sono delegate a meccanismi esterni, lontani dal punto di vista dei protagonisti. In effetti, nella diarchia mercato/Stato i soggetti finiscono per scomparire o per essere schiacciati su un modello che ne sopprime la reale differenzazione e complessità. Nel caso del mercato, diventano individui razionali ed egoisti, “condannati” ad agire nel campo di battaglia della concorrenza che non ammette legami, comunicazioni, condivisione tra competitors. Nel caso dello Stato si delegano le scelte al comando di una razionalità politica che risulta esogena rispetto all’economia: una razionalità legittimata dal voto e posta a presidio di interessi pubblici, rivolti all’universo di tutti i soggetti possibili. Per cui, a selezionare i comportamenti ammessi, non è il prezzo che i diversi soggetti sono disposti a pagare, ma è il piano del decisore pubblico. Oppure, in certi casi, è una norma astratta e generale che prescrive che cosa si deve o si può fare/non fare. Delegando al mercato o allo Stato, però, la singola comunità o la singola rete di attori che sono direttamente interessati alla gestione di un certo bene comune o al funzionamento di una certa rete possono scomparire nell’irrilevanza. E comunque non hanno spazi per auto-organizzare ed auto-regolare il loro comportamento collettivo. Il tema della governance, proposto dal Nobel del 2009, è di per sé interessante, perché va oltre questi due archetipi tradizionali di organizzazione delle scelte economiche. Si parte infatti dall’assunto che il governo della mano invisibile del mercato, che seleziona le convenienze individuali attraverso il prezzo, non sia in certi casi (commons e reti) una soluzione efficiente. E che la sua alternativa classica, la mano visibile della gerarchia (privata o pubblica) lo sia ancor meno, nel momento in cui delega il governo di questi rapporti a norme universali o ad un piano che discende dal  comando, esercitato dall’alto, invece che dalla volontà intelligente delle parti in causa. La governance riguarda appunto la Terra di Mezzo che sta tra mercato e piano. Non un caso anomalo, eccezionale, ma un continente grande e inesplorato, ricco di situazioni intermedie. Uno spazio in cui sia l’automatismo di mercato che il comando del piano dall’alto sono inefficienti e insufficienti, richiedendo così soluzioni differenti e in qualche misura sperimentali, diverse da caso a caso.

2. Beni comuni: personaggi in cerca di autore

La Ostrom ha messo in evidenza la possibilità che i beni comuni, condivisi tra gli appartenenti a certe comunità, siano gestiti meglio utilizzando l’intelligenza autoorganizzatrice dei diretti interessati, invece di delegare le scelte all’anonima selezione del mercato o alla impersonale burocrazia dello Stato. La critica tradizionale verso la gestione comune di certi beni (ad esempio certe proprietà indivise del territorio o certi beni ambientali) era che – rendendo libero l’uso del bene a favore degli appartenenti alla comunità - essa avrebbe portato ad una overexplotation del bene, consigliando alla fine di privatizzarlo (in modo da farne pagare l’uso) o di pubblicizzarlo (in modo da imporre quote o tariffe per l’uso o tasse per il suo mantenimento). Invece, come dimostrano le ricerche empiriche compiute da Elinor Ostrom, le comunità possono generare esse stesse le regole e i limiti, formali e informali, rispettati da tutti per l’uso del bene comune, arrivando a risultati migliori di quelli che – a confronto – potrebbero raggiungere il mercato o lo Stato.

3. Reti che rendono complessi e mobili i confini dell’impresa estesa

Williamson, a sua volta, ha mostrato come la maggior parte dei mercati, per funzionare, richiede dei costi di transazione che sono particolarmente elevati in certe situazioni (elevato rischio di interdipendenza, possesso di beni “specifici” che non possono essere trasferiti senza perdite attraverso il mercato). Questo spiega perché, in certi casi, il “piano” gerarchico delle grandi imprese, che sostituiscono il mercato con la loro organizzazione interna, può risultare più efficiente del mercato tra tanti piccoli concorrenti, che operano ciascuno per sé. Il risultato ottenuto con la teoria dei costi di transazione era per Williamson politicamente pregnante perché consentiva di allentare l’avversione dell’antitrust americana – per cui lavorava - verso le fusioni e concentrazioni, nei casi in cui queste potevano aumentare l’efficienza del sistema rispetto alla soluzione di pura difesa del mercato. Ma questo riconoscimento dei meriti della gerarchia, negli anni settanta, arrivava fuori tempo massimo, perché il fordismo che era stato il motore dello sviluppo dei precedenti cinquanta anni (nonostante l’antitrust) era ormai arrivato al crepuscolo, se non al tramonto. Il risultato è che – in quegli anni – la tardiva legittimazione della gerarchia, accanto al mercato, non poteva essere il punto di arrivo di questa scoperta delle forme organizzative delle imprese, da parte della teoria economica. Si capisce abbastanza bene che il piano dell’impresa manageriale non è la risposta alle situazioni complesse che le imprese si trovano a fronteggiare, in epoca postfordista, dalla crisi degli anni settanta in poi. Il frutto migliore della teoria di Williamson è infatti quello di aprire la via allo studio non tanto della gerarchia, quanto delle forme “intermedie” tra mercato e gerarchia: alleanze, cooperazioni, outsourcing, e, all’interno delle grandi imprese, incentivi che allineano gli interessi dei diversi soggetti presenti (manager, dipendenti, azionisti, stakeholders di varia natura). I costi di transazione offrono una traccia per esaminare la geografia delle reti, esterne ed interne, che rendono l’organizzazione e il governo delle grandi imprese meno monolitiche di quelle immaginate dalla precedente visione del governo e del piano, gestito semplicemente col comando dall’alto. Possiamo discutere se i costi di transazione – ossia i costi del collante che tiene insieme le mille unità “tecnicamente indivisibili” di una organizzazione, come dice Williamson – sia il metro corretto per capire come funzionano i legami di reti. Probabilmente ci sono collanti più vivaci e vitali, che vanno considerati. Ma non è qui il caso di discuterne: quello che conta è che la teoria di Williamson ha reso visibile la Terra di Mezzo. E questo gli viene oggi riconosciuto, sia pure parlando dei “confini” dell’impresa, invece che – direttamente – del suo sistema complesso di relazioni.

4. L’economia della Terra di Mezzo: soggetti che prendono coscienza di sè

Dunque, sommando nello stesso premio la governance dei beni comuni e quella delle reti inter-soggettive, l’Accademia del Nobel ha registrato la nuova attenzione che oggi abbiamo per tutto ciò che va al di là dell’automatismo del mercato e del governo di piano, calato dall’alto. La crisi ha fatto da detonatore a questa presa di coscienza della complessità inerente all’economia postfordista, di cui in passato si è sentita la mancanza. Solo alcuni filoni di studio, nettamente minoritari, hanno preso in considerazione la complessità delle relazioni e dei processi generativi di valore che avvengono con l’uso dei commons e delle reti, ossia con la gestione intelligente di una condizione di condivisione che può essere una risorsa, prima che un problema, per i soggetti interessati. La teoria dei distretti, da noi. O l’ambientalismo, per i beni comuni. Lo studio delle filiere e delle reti, a scala internazionale. La riflessione sulle trasformazioni organizzative e sulle strategie di relazione delle imprese, che hanno messo a fuoco l’idea di impresa estesa o di impresa sistema, entro un quadro di unicità e di evoluzione che supera l’approccio razionalistico “puro”. Pur essendo minoritari, questo approcci hanno mantenuto vivo il rapporto tra la teoria (di minoranza) e l’economia reale, consentendo il ricongiungimento che oggi si profila. Beni comuni e reti stanno infatti ridisegnando, in termini nuovi, quella sconfinata Terra di Mezzo in cui la governance non viene delegata ad automatismi esterni (selezione di mercato, comando del piano) ma assunta dai soggetti direttamente interessati che – superando un orizzonte di scelta puramente individuale – possono generare legami fiduciari o di empatia, da cui scaturiscono regole condivise e traggono forza i meccanismi di monitoraggio che le fanno rispettare. Naturalmente l’auto-organizzazione che nasce dal basso non si presta ad essere semplificata in poche regole e men che meno in processi lineari di causa-effetto, calcolabili a tavolino. I processi di auto-organizzazione sono sempre, in qualche misura, sperimentali e la loro valutazione rimane comunque problematica, avendo a che fare con i diversi punti di vista degli users. Due caratteristiche che contrastano con la semplificazione deterministica che, nella main stream, rende facile il calcolo e rispettabile la teoria. Come dire: avevamo bisogno di capire meglio come funzionano quegli oggetti misteriosi (commons, reti) che la teoria economica ha in passato messo in ombra,  privilegiando le rappresentazioni nette, prive di sfumature. E che oggi invece devono essere posti sotto i riflettori della teoria, se vogliamo che i protagonisti di questa trama di relazioni, di avventure e di racconti prendano coscienza di sé, collocando i propri progetti nella cornice reale a cui appartengono da tempo: quella della società imprenditoriale, capace di valorizzare idee e legami che nascono dal basso e da un approccio sperimentale, aperto a nuove possibilità. E’ una condizione non di adesso, ma che persiste almeno dagli anni settanta in poi, un po’ in tutti i paesi, e in Italia soprattutto: piccole imprese, distretti, filiere, società locali fanno integralmente parte di questa storia. Sono infatti rimasti per decenni nel cono d’ombra gettato su di essi dalla teoria prevalente, e, pur essendo diventati da qualche tempo nuovamente visibili, non sanno bene come auto-definirsi. Il deficit di teoria è infatti anche deficit di auto-comprensione. E’ su questo che la “svolta” della teoria, che oggi presta maggiore attenzione verso commons e le reti, può avere un impatto immediato.

5. Vizi e virtù dell’auto-organizzazione

La transizione postfordista resta, infatti, affidata a forme complesse e differenziate di auto-organizzazione, espresse dai soggetti che sono direttamente interessati all’uso del bene comune o che danno forma alla cornice organizzativa delle reti di condivisione. Tali soggetti non sono né gli individui razionali ed egoisti che popolano i mercati, né le rappresentanze e burocrazie della collettività generale, cementate dalla pratica del voto. Si tratta invece di soggetti che, per necessità o per libera scelta, condividono idee e progetti circa l’uso migliore da fare di beni e di relazioni che hanno in comune. Protagonisti di questo genere sono in grado di auto-generare i significati, le regole e i controlli che servono a gestire spazi di condivisione che nel mondo di oggi diventano sempre più importanti: l’ambiente, il territorio, la cultura,il patrimonio generazionale, le reti tra imprese e tra persone, i circuiti della conoscenza sociale. Tutte cose che popolano l’economia reale e che fanno parte della vita di chiunque – imprenditore, lavoratore, consumatore, cittadino – la pratichi un po’. Non potendo far fronte alla complessità usando soltanto mercato e Stato, o un mix tra i due, l’economia reale (postfordista) ricorre all’intelligenza e alla motivazione che ancora caratterizza la Terra di Mezzo, quella in cui gli attori non operano isolatamente ma si danno cura della loro condivisione. Per far fronte al nuovo e all’imprevisto, vengono infatti mobilitati i rapporti a rete (filiere inter-imprenditoriali) e i beni comuni (territori, tradizione, società locali, imprese personali, “capitale sociale” che fornisce conoscenze e relazioni ai singoli individui). L’economia reale postfordista è un sistema che funziona in base all’autoorganizzazione. Un sistema, dunque, che utilizza mercato e Stato come soluzioni estreme, semplificate, solo quando serve e solo se è possibile. Il mercato efficiente serve ai soggetti auto-organizzatori per avere un metro di misura oggettivo, non problematico (i prezzi, i guadagni monetari), da impiegare nella soluzione di problemi semplici, privi di sfumature. Lo Stato efficiente serve quando invece si tratta di standardizzare regole e comportamenti in chiave universale, anche in questo caso semplificando le cose rispetto a regole e comportamenti sfumati, bisognosi di interpretazione. Ma in tutti gli altri casi – che sono la maggioranza – le sfumature non possono essere eliminate con un tratto di penna a vanno gestite, ricorrendo ai processi di condivisione con cui mandare avanti reti e commons. L’auto-organizzazione può dunque essere efficiente, meglio di quanto possano fare mercato e Stato, in tutti i casi in cui l’intelligenza personale e locale vede meglio e di più dei metri di misura impersonali, anonimi, che le verrebbero imposti da questi due automatismi esterni. Ma l’auto-organizzazione, di per sé, non basta a chiudere il cerchio in termini di esplorazione del nuovo e del possibile, cosa che ci interessa assai di più dell’efficienza statica, ad impianti dati. Chi trasforma l’attività economica in un vestito a propria misura, corre un rischio di diventare conservatore, chiudendosi alle idee e alle sfide cheprovengono dall’esterno. E’ quanto in parte accade in tutte le comunità che frenano, in un modo o nell’altro, la forza della concorrenza di mercato e che limitano, con regole proprie, l’universalità delle norme e del welfare presidiato dallo Stato di diritto. La forza della globalizzazione, che condiziona il valore generato dalle comunità alla loro capacità di aprirsi ai grandi moltiplicatori e alle grandi differenze che stanno nell’economia mondiale, è un antidoto abbastanza efficace contro il rischio di chiusura delle comunità o delle filiere su sé stesse. Più problematico è il rapporto con lo Stato di diritto e la forza dell’universalismo che lo caratterizza. Da questo punto di vista, l’autoorganizzazione delle comunità e delle filiere va controbilanciata con lo sviluppo di una doppia cittadinanza, per cui persone, imprese, territori lavorano sulla base di una doppia appartenenza. Ciascuno, in altre parole, appartiene alla comunità o alla rete che ha liberamente scelto, ma non ne deve essere prigioniero. Perché questa condizione di libertà effettiva si realizzi, è necessario anche l’appartenenza ad uno Stato che fornisce loro diritti e welfare su base universale. L’auto-organizzazione delle comunità pre-moderne portava infatti alla chiusura e dunque alla conservazione dell’esistente. Per contrastarla, nelle nuove comunità e reti postfordiste, bisogna che mercato e Stato facciano la loro parte, indirizzando l’intelligenza auto-organizzatrice delle persone verso l’esplorazione del nuovo, in modo da rendere condiviso il futuro possibile e non solo il quadro delle pre-esistenze ereditate dal passato e amministrate nel presente.

6. La complessità del mondo è nuovamente alla nostra portata

Dunque, abbiamo bisogno di nuovi occhi, ossia di una risvegliata attenzione teorica alle forme comunitarie e reticolari, e al paradigma postfordista che esse incarnano. Da questo punto di vista il Nobel di quest’anno apre una strada nuova, da praticare subito. Anzi, ci verrebbe da dire: alla buon ora. Il postfordismo è cominciato quaranta anni fa, e per tutto questo tempo la Terra di Mezzo scoperta dalla Ostrom e da Williamson è rimasta in ombra per gli studi teorici della main stream, nonostante fosse diventata ormai pratica quotidiana per l’economia reale. La porta che era rimasta a lungo chiusa, si sta aprendo: la complessità del mondo è di nuovo alla nostra portata.Diamoci da fare.

* docente di Economia della Conoscenza
presso la Venice International University, Venezia