Dal Venice Climate Camp 2023 alle Olimpiadi Milano-Cortina 2026

Il documento di lancio dell’assemblea pubblica che si terrà domenica 10 settembre alle 10, nella giornata conclusiva della quarta edizione del Venice Climate Camp.

8 / 8 / 2023

Il mese di luglio del 2023 è stato segnato da un susseguirsi di record battuti per quanto riguarda le temperature terrestri. Nella prima decade per ben tre volte, di cui due consecutive, la colonnina di mercurio ha registrato “il giorno più caldo di sempre”, stando ai dati sia del Servizio meteorologico del governo degli Stati Uniti che di Copernicus, programma di osservazione della Terra dell'Unione europea. In tutta l’area mediterranea più volte sono stati superati i 50°C e i cosiddetti "eventi estremi” continuano a impazzare senza soluzione di continuità. Sempre a luglio la rivista Nature ha pubblicato i tragici dati relativi al numero dei decessi della lunghissima ondata di calore che ha avvolto l’Europa la scorsa estate: si parla di quasi 62 mila morti, di cui solo 18 mila in Italia, a cui spetta il terribile scettro di Paese più colpito.

Basterebbe commentare o solo osservare questi dati per cogliere l’essenza della devastazione in atto, anche in quel Nord globale che fino a pochi anni fa era abituato a sentirsi quasi dentro a una bolla che lo schermava dagli impatti peggiori dei cambiamenti climatici. L’Onu parla di “ebollizione climatica”, ma ormai la crisi ecologica è penetrata a tal punto nelle dinamiche sociali e culturali, che anche le notizie più allarmanti e drammatiche sono sempre più percepite come “normalità”. E – si sa – la normalità è lo status in cui emergono maggiormente tutte le contraddizioni, soprattutto se questa normalità è la sedimentazione di una pluralità di emergenze che si intrecciano.

L’Europa di oggi: tra negazionismo e greenwashing

E accade così che quello che doveva essere un provvedimento quasi di routine in una fase storica come questa – il ripristino della biodiversità – non solo viene rimaneggiato a tal punto da diventare quasi una farsa, ma diventa il più grande terreno di scontro politico a livello istituzionale che si è dato in Europa sulla questione ambientale. Stiamo evidentemente parlando del Nature restoration law, approvato dal Parlamento europeo lo scorso 12 luglio per poche decine di voti. La legge europea ha come obiettivo quello di rendere vincolante l’adozione di misure volte a ripristinare entro il 2030 il 20% del territorio terrestre e marino dell’Unione Europea, per poi estendere le misure di tutela a tutti gli ecosistemi che necessitano di ripristino entro il 2050. Un passaggio per certi versi storico, che sarebbe stato impensabile senza la pressione esercitata a vari livelli dai movimenti climatici nel Vecchio Continente. Ma il punto non è questo, almeno per ora.

Ci sono due considerazioni urgenti che l’approvazione del Nature restoration law si porta con sé. La prima è che assistiamo a una spaccatura nel quadro politico europeo, con il blocco conservatore e reazionario che assume l’impianto “negazionista” come uno dei principali terreni di strategia politica comune. E questo non è proprio indifferente, visto che l’alleanza tra estrema destra e liberal-conservatori sta già governando in diversi Paesi dell’Unione Europea e potrebbe farlo in altrettanti, nel breve e medio periodo. La seconda è che la legge spiana la strada all’intero pacchetto di norme denominato Green Deal, vera e propria milestone di quella transizione ecologica dall’alto che la governance globale ricerca ormai da oltre 30 anni.

La questione non è ovviamente quella di rigettare in termini di principio tutto ciò che proviene dagli ambiti istituzionali, tutto ciò che può far intravedere una strategia minimamente riformista e mitigatrice attorno alla crisi ecologica. Ma è fondamentale comprendere che questa strategia si regge su un assunto di base: trasformare il limite ambientale nel fondamento di un nuovo ciclo di accumulazione, finanziarizzazione e valorizzazione della forza lavoro. Se ancorata agli attuali rapporti socio-ecologici che regolano il capitale solo in funzione di un modello di “crescita infinita”, il Green Deal – come gli altri piani strategici sul clima varati in questi anni – rischia di diventare la più grande operazione di greenwashing che il mondo abbia mai conosciuto. Anzi, rischia di far diventare il greenwashing fondativo di una nuova fase storica del capitalismo, nella quale la stessa dialettica tra economia verde ed economia fossile si sfumerà fino ad annientarsi, come già abbiamo visto in Europa a proposito della tassonomia sulle cosiddette “attività eco-compatibili”.

La necessità di uno spazio politico di movimento

Ed è in questo quadro che scorgiamo per i movimenti una prima grande necessità e opportunità: quella di costruire in maniera corale una narrazione altra, in grado di opporre visioni e forme di vita oltre il greenwashing e il negazionismo. Questo, in particolare in una fase in cui lo stesso capitalismo si scontra con la contraddizione del limite e della scarsità che esso stesso ha nel contempo generato e internalizzato dal punto di vista del valore. Da un lato è vero ciò che dice Emanuele Leonardi in Lavoro Natura Valore: André Gorz tra marxismo e decrescita (2017), ossia che l’economia di mercato svolge – e svolgerà sempre di più – il doppio ruolo di carnefice della natura e sua ancora di salvataggio, nel momento in cui dà un prezzo alla natura stessa. Dall’altro lato è vero che la costante tendenza in questi anni a considerare il limite ambientale non più come vincolo allo sviluppo, ma come nuovo motore di crescita, si scontra inevitabilmente con l’incapacità della natura di rigenerarsi allo stesso ritmo con cui si rigenera il capitalismo. Questo corto circuito va anche oltre la natura intesa (erroneamente) in senso stretto, ma va esteso anche alla dimensione del lavoro. Come interpretare il fenomeno delle “grandi dimissioni” a cui stiamo assistendo se non come una sottrazione consapevole di tempo e manodopera dalla piena disponibilità capitalista?

E allora che sta succedendo? Natura e lavoro si stanno ribellando al capitalismo? Non sta accadendo questo, o quantomeno non ancora. Ma sicuramente la “dimensione materiale e sociale delle condizioni di produzione”, per dirla alla O’ Connor sta incontrando delle faglie inedite che è necessario entrino a far parte quantomeno di una discussione collettiva di movimento e tra movimenti.

Negli ultimi anni abbiamo assistito in Italia – e non solo – a diversi generosi tentativi di dare uno sbocco più ampio alle lotte che quotidianamente ci impegnano su vari fronti, spesso distinti: l’ambiente, il reddito, il welfare, il lavoro, il transfemminismo, l’antirazzismo, la salute. Abbiamo provato a sperimentare convergenze più o meno riuscite, ma soprattutto siamo stati in grado di superare uno steccato ideologico ancestrale, quello che vedeva ancora una netta separazione, se non aperta ostilità, tra movimenti climatici e mondo del lavoro. Quello che è sicuramente mancata è stata la continuità degli spazi politici di discussione, elaborazione e iniziativa. E questo si traduce con un’ancora scarsa capacità di costruire una relazione virtuosa tra soggettività organizzate “di movimento” e contesti di mobilitazione sociale diffusa e di massa.

Dal Venice Climate Camp verso Milano-Cortina 2026

Se questa è “l’analisi dei bisogni”, che immaginiamo condividere con tanti e tante, quello che vogliamo mettere sul piatto in termini di proposta è un’ipotesi di lavoro politico che vuole impegnarci nel lungo periodo, perché guarda alle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026. Questo sarà il tema su cui si concentrerà il prossimo Venice Climate Camp, in programma dall’8 al 10 settembre 2023 e che, in particolare, vogliamo porre all’attenzione nel corso dell’assemblea conclusiva fissando già da ora una scadenza: costruire collettivamente l’edizione 2024 del Climate Camp a Cortina.

Le Olimpiadi di Cortina rappresentano allo stesso tempo una sfida e una necessità politica per svariate ragioni. In primo luogo l’ampiezza dei territori coinvolti – quasi tutto il Nord Italia – delinea un impatto ambientale e sociale che si intreccia con una geografia estremamente ricca e variegata. Una geografia, non solo fisica, dominata da relazioni tanto fragili quanto intense, che ci parlano in primo luogo della relazione tre una montagna già estremamente turisticizzata e una pianura, quella Padana, tra le più inquinate d’Europa. Ci parla inoltre di un rapporto, anche questo che affonda le radici nello sviluppo del capitalismo, tra un ambiente alpino/rurale che da sempre vive di spopolamento e razionamento delle risorse e contesti urbani modellati dalle esigenze di vecchi e nuovi rentiers che hanno sempre sfruttato indiscriminatamente il territorio circostante.

A Milano-Cortina, stando ai pomposi proclami contenuti nel dossier di candidatura, si sarebbe dovuto compiere il “miracolo” del primo grande evento sportivo a impatto zero. A distanza di oltre quattro anni dalla compilazione di questo dossier nessuna Valutazione ambientale strategica è stata ancora presentata. Come ha scritto Duccio Facchini su Altraeconomia lo scorso 3 maggio «ci si ritrova quindi impelagati nella fase di “scoping”: mancano ancora l’elaborazione della documentazione, la consultazione, la valutazione ambientale, la revisione, l’approvazione, l’attuazione e il monitoraggio. Il tutto assume i contorni della farsa perché nel frattempo le “vere” opere olimpiche, quelle cioè in mano alla Società Infrastrutture Milano Cortina 2020-2026 (Simico Spa, di cui il governo è il primo azionista con il 70% del capitale), vanno avanti a tappe forzate».

Il problema è evidente quanto stringente, perché non riguarda solo l’enorme impatto ambientale e paesaggistico che per forza di cose sarà connesso ad alcuni impianti sportivi (in particolare la ristrutturazione della pista da bob “a Cortina e quella dell’ovale per il pattinaggio a Baselga di Piné), ma riguarda in particolare la questione idrica. Milano-Cortina 2026 seguirà l’esempio di Pechino 2022 sull’utilizzo della neve artificiale e, non essendoci ancora alcuna documentazione ufficiale che attesti la reale impronta idrica dell’evento, è lecito attendersi che la costruzione di bacini artificiali per l’innevamento rischia di avere effetti devastanti nella gestione idrica di gran parte del Nord-Italia, il cui approvvigionamento di acqua deriva in larga parte dall’arco alpino. In una fase in cui la gestione dell’acqua è tornata prepotentemente al centro del dibattito pubblico e stiamo iniziando ad assistere a operazioni di water grabbing anche in Europa, questo tema assume una valenza politica non indifferente.

Ma ci sono altre due questioni che riteniamo cruciali affrontare rispetto alle Olimpiadi 2026 e che ci danno la possibilità di pensarle, in termini politici, all’interno di una cornice che esondi la dimensione territoriale. La prima ci riporta alla parte iniziale di questo testo, quando accennavamo allo sblocco dell’intero piano Green Deal avvenuto con l’approvazione a Strasburgo del Nature Restauration Law. Per la grande appetibilità internazionale dell’evento, la mole di investimenti su impianti e indotti - soprattutto rispetto all’economia ricettiva -, il “marchio green” che ha accompagnato farsescamente tutta la storia di questa Olimpiade, Milano-Cortina 2026 potrebbero rappresentare uno dei primi grandi impieghi di risorse destinate alla “transizione ecologica”. Anzi, per certi versi potrebbero rappresentare addirittura un vero e proprio paradigma di uso di risorse pubbliche per la transizione dell’alto. Un assaggio di questo lo abbiamo avuto già tre anni fa in Veneto, quando – in piena crisi pandemica – il governatore Zaia ha destinato gran parte della quota di risorse regionali del Recovery Fund destinate al settore dello spettacolo alle “opere indotte” delle Olimpiadi, sottraendole a lavoratrici e lavoratori, che in quel momento erano anche in mobilitazione permanente.

L’altro aspetto cruciale riguarda proprio la dimensione transnazionale dell’evento e, in particolare, la possibilità di costruire un ponte tra l’opposizione alle Olimpiadi di Parigi 2024 e quella a Milano-Cortina 2026. Il collettivo "Saccage 2024”, che opera già da alcuni anni, ha costruito la propria credibilità grazie a un’idea complessiva di impatto negativo delle Olimpiadi: oltre a quello ambientale, grandi eventi sportivi come questo hanno fortissime ripercussioni sociali, razziali, poliziesche, di creazione di bolle immobiliari e così via. Il collettivo è cresciuto molto durante l’ultimo ciclo di mobilitazioni in Francia e il tema delle Olimpiadi si appresta a diventare uno dei prossimi fronti caldi, anche perché possono essere l’anello di congiunzione tra le banlieue (costrette dall’evento a subire un grande processo di gentrificazione) e i movimenti della cité. Avere un respiro transnazionale è una condizione preliminare di qualsiasi battaglia sociale e questo legame ci permette non solo di evocare uno spazio europeo delle lotte, ma di renderlo realmente tangibile e praticabile.

Per concludere, torniamo all’inizio della nostra proposta, ma soprattutto agli obiettivi che ci diamo con il prossimo Venice Climate Camp. Mettere a disposizione il lungo periodo che ci separa da questo evento rappresenta per noi una sfida, ma soprattutto la risposta a un’esigenza di continuità che uno spazio politico autonomo di movimento deve avere per poter quantomeno immaginare una fase costituente. Le Olimpiadi 2026 hanno delle caratteristiche intrinseche che ci consentono di ragionare su più livelli: sono un evento che avrà un grande impatto su un territorio ampio e diversificato, sono la rappresentazione plastica di un nuovo modello di estrattivismo “green”, contengono il tema del lavoro e dell’uso delle risorse pubbliche, hanno una vocazione transnazionale. Per funzionare politicamente tutto questo, da solo, non basta: c’è bisogno di soggettività e organizzazione, ma soprattutto di una capacità collettiva di costruire orizzonti comuni e terreni di conflittualità praticabili da tante e tanti.

Come si intreccerà questo percorso con altre campagne che verranno lanciate nei prossimi mesi, con la lotta contro la costruzione del Ponte sullo Stretto e le altre grandi e piccole battaglie territoriali, con le battaglie che stanno attraversando il mondo del lavoro, quelle per il diritto all’abitare e quelle contro l’escalation militare? Sono queste le domande che per noi rappresentano un punto di partenza e che vorremmo discutere con tutte le realtà che parteciperanno all’assemblea conclusiva del Venice Climate Camp, che si terrà la mattina di domenica 10 settembre.

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