Guerre per il petrolio e petrolio per le guerre

16 / 12 / 2016

I cambiamenti climatici generano guerre. E le guerre generano i cambiamenti climatici. Facciamo le guerre per i combustibili fossili e consumiamo combustibili fossili per fare le guerre. Ci siamo mai chiesti quanto costa un carro armato in termini di emissioni di Co2? Quante emissioni serra porta con sé un bombardamento? 

D’accordo, di fronte a tragedie come quella di Aleppo, tentare di valutare la questione in termini di riscaldamento globale, sembra una bestemmia. Ma non dimentichiamoci che la guerra in Siria è stata causata anche dai cambiamenti climatici. 

Uno studio pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” e riportato in italiano dalla celebre rivista Le Scienze (versione nostrana di Scientific America) ha spiegato come la guerra civile che sta insanguinando il Paese mediorientale sia imputabile, tra le altre cause, ad una tremenda siccità. La peggiore mai registrata in quell’angolo di medio oriente che ha visto nascere la civiltà. Tra il 2006 e il 2011, la siccità ha messo in ginocchio l’agricoltura, costringendo decine di migliaia di contadini a spostarsi verso le città. Un flusso migratorio che si è mescolato con quello dei profughi provenienti dal vicino Iraq in guerra – altro conflitto che ha radici profonde nel riscaldamento globale – causando un forte aumento dei prezzi, scarsità di generi alimentari e tensioni sociali. “Non stiamo sostenendo che la siccità abbia causato la guerra – scrive il climatologo Richard Seager – ma che, aggiunta a tutti gli altri fattori di tensione, ha contribuito a spingere la situazione oltre il limite, fino al conflitto aperto. E una siccità di tale entità è stata facilitata dalle attività umane in corso in quella regione”.

“I cambiamenti climatici mettono sotto stress le risorse idriche e l’agricoltura e probabilmente aumenteranno ancor più il rischio di conflitti – ha spiegato Seager su Scientific America – La guerra siriana vive ormai di vita propria, tuttavia, l’aggravamento della siccità per i cambiamenti climatici è stato un fattore importante nell’innescare la disgregazione sociale.”

Il caso della Siria non è certo l’unico. Altri studi scientifici hanno messo in relazione l’aumento di temperatura con lo scoppio di conflitti in tutto il mondo, dall’africa sub sahariana allo stesso Egitto, dove la rivoluzione è stata preceduta da una impennata dei prezzi del cibo causata dalla siccità. 

Non è quindi una questione secondaria chiedersi quanto ci costa in termini di emissioni di Co2 quelle guerre causate proprio dalle emissioni di Co2. 

Più difficile dare una risposta esauriente. 

Il primo in Italia a fare i conti in tasca ai… carri armati è stato, a quanto ci risulta, il meteorologo Luca Mercalli. In un suo articolo del 2003 (quando ancora i negazionisti contestavano la teoria dei cambiamenti climatici), consultabile nel sito della società meteorologica italiana, l’ambientalista si domandava, riferendosi a Desert Storm: quanto petrolio ci costa la guerra per il petrolio? 

Partiamo intanto dai dati che abbiamo. 

·       Un carro armato consuma in media 200 o 300 litri ogni 100 chilometri. Poi ci sono le “eccellenze”: l’Abrams M1, ad esempio, soprannominato “l’ingozzatore di benzina”, ne brucia almeno 450. 

·       Un aereo tipo F-15 Strike o un F16 Falcon consumano 16 mila e 200 litri all’ora. (Non mi lamenterò più della mia Kawasaki 750Z!)

·       Un bombardiere B52, 12 mila litri all’ora.

·       Un elicottero da combattimento Apache, 500 litri all’ora. 

·       I mezzi di appoggio sono assai più parchi, e possiamo stimare, sempre lavorando di difetto, il consumo medio in un litro a chilometro. 

Limitandoci solo alle forze dell’esercito statunitense e dei loro alleati, Desert Storm ha messo in campo 42 F17 che volarono per 6900 ore in 38 giorni, 2400 aerei, 1848 carri Abrams, più di 50 mila veicoli d’appoggio. Solo i rifornimenti in volo che tutti i telegiornali mandarono in onda in quanto “spettacolari”, costarono 675 milioni di litri di carburante sufficienti a riempire i serbatoi di 17 milioni di auto. 

“Assegnando un parco mezzi più o meno di questa consistenza – scrive Mercalli – e applicando un coefficiente di utilizzo molto prudente di una sola ora al giorno per mezzo, si ottiene un consumo giornaliero di 45 milioni di litri di carburante”. E parliamo solo delle forze alleate di terra. Senza considerare le navi, le portaerei che vanno col nucleare e sulle quali bisognerebbe fare tutto un altro discorso, i consumi dell’esercito iracheno e i pozzi di petrolio dati alle fiamme. 

Facciamo adesso due conti della serva: 45 milioni di litri di carburante bruciati si traducono con emissioni pari a 112.400 tonnellate di Co2. Come dire che 10 giorni di guerra inquinano – e, ripetiamolo, la cifra è calcolata per difetto – come per una anno una città di oltre 110 mila abitanti. 

“Da ciò si constata come, oltre ai problemi di ordine etico che difficilmente giustificano un tale sperpero di risorse volto a danno di una nazione (quindi si preparano altri costi energetici per ricostruire quanto distrutto) – scrive Mercalli – un tale volume di emissioni gassose in atmosfera vanifica in pochi giorni gli sforzi di intere nazioni per ridurre i consumi e risparmiare energia, alla faccia del Protocollo di Kyoto”. Tanto per fare un esempio, l’emissione giornaliera derivante dal conflitto iracheno equivaleva almeno alla metà del carico di emissioni che il nostro Paese avrebbe dovuto ridurre per mettersi in regola con gli allora accordi di Kyoto. 

A questo punto vien da chiedersi come mai, durante la Cop parigina, le attività militari siano state esonerate dall’obbligo di ridurre le emissioni. Anzi, le cosiddette “spese per la difesa” non hanno neppure fatto parte degli argomenti messi nelle agende di discussione. Quella guerra che secondo Gino Strada dovrebbe diventare un tabù come l’incesto, è stata invece esonerata da ogni rendicontazione climatica. Come fosse welfare cui l’umanità non può rinunciare. 

Eppure la guerra ammazza. Prima ammazza con le bombe, poi ammazza ancora di più con l’inquinamento climalterante e le conseguenti guerre innescate all’inquinamento climalterante. 

Marinella Correggia giornalista di Altreconomia in un suo interessante articolo si chiede provocatoriamente “quanto carburante fossile ha consumato il 3 ottobre 2015 l’aereo AC-130 della United States Air Force per i 45 minuti di bombardamenti sull’ospedale di Medici senza Frontiere a Kunduz”.

Mike Berners-Lee, autore di “How Bad are Bananas? The Carbon Footprint of Everything” scrive: “I costi umani diretti delle guerre sono così tragici che pensare agli impatti ambientali e climatici pare quasi frivolo o insolente. Ma le moderne forze armate e le loro operazioni belliche sono voraci divoratrici di energia ed emettendo carbonio riscaldano il clima, condannando gli umani anche oltre e dopo la fase della guerra”. 

Opinione condivisa anche da Barry Sanders, autore di “Green Zone. The environmental costs of militarism”: “Il settore militare non solo inquina ma contamina, trasfigura, rade al suolo. Scrivendo il mio libro mi sono accorto che il destino della Terra e del mondo è nelle mani delle armi”. Una prospettiva davvero inquietante. 

Nel 2005, l’associazione ecologista Friends of the Earth ha stimato che solo il mantenimento dell’apparato militare mondiale – senza contare il suo uso – produce due miliardi di tonnellate di Co2 all’anno. Oggi, più di dieci anni dopo, il bilancio è peggiorato. 

E la fetta più grossa della torta militare mondiale, è quella che si mangiano gli Usa. “Da quanto ne so – scrive sul suo Facebook il meteorologo Luca Lombroso – il solo Pentagono ci costa in emissioni quanto la Svizzera“. Il sopracitato Sanders è ancora più esplicito. “L’esercito degli Stati Uniti è il principale produttore istituzionale di gas serra al mondo: oltre il 5% del totale. E la percentuale sarebbe molto più alta, se si comprendessero i costi energetici di produzione delle armi, il consumo di combustibili fossili e di materiali da parte dei privati contractors e infine l’enorme peso della ricostruzione di quanto distrutto dalle guerre”. 

Vien da chiedersi se si possa pensare di contenere l’aumento di temperature entro i due gradi, come prevede Cop 21, mantenendo questo mostruoso apparato inquinante capace solo di generare altre occasioni di inquinamento climatico. 

L’ultimo rapporto dell’International Peace Bureau spiega che ciò non è possibile: “Ridurre il complesso militar-industriale e ripudiare la guerra è una condizione necessaria per salvare il clima, destinando le risorse risparmiate all’economia post-estrattiva e alla creazione di comunità resilienti. Le spese militari rubano alla comunità internazionale i fondi di cui ha disperatamente bisogno per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica”.

Destinare alle iniziative di contenimento dell’inevitabile aumento della temperatura globale le risorse che oggi vengono spese per finanziare le guerre che sono la principale causa dell’impennata della temperatura globale, sarebbe probabilmente la sola speranza dell’umanità di vivere su questo pianeta così come ha vissuto sino ad oggi. Ed è quanto ha chiesto l’appello “Stop the Wars, Stop the Warming” lanciato da scienziati climatici e ambientalisti Usa nel luglio del 2014. Appello inascoltato dall’allora presidente Barack Obama. E possiamo azzardarci a prevedere che non avrà miglior fortuna con Donald Trump!

“È un circolo vizioso infernale – si legge nel documento -: l’uso esorbitante di petrolio da parte del settore militare statunitense per condurre guerre per il petrolio e le risorse, guerre che rilasciano gas climalteranti e provocano il riscaldamento globale. È tempo di spezzare questo circolo: farla finita non solo con le guerre per il petrolio, ma con l’uso di petrolio per fare le guerre”.

*** Riccardo Bottazzo, giornalista professionista di Venezia. Si occupa principalmente di tematiche ambientali e sociali. Ha lavorato per i quotidiani del Gruppo Espresso, il settimanale Carta e il quotidiano Terra. Per questi editori, ha scritto alcuni libri tra i quali ”Caccia sporca“, “Il parco che verrà”, “Liberalaparola”, “Il porto dei destini sospesi”, “Cemento Arricchito”. Collabora a varie testate giornalistiche come Manifesto, Query, FrontiereNews, e con la campagna LasciateCiEntrare. Cura la rubrica “Voci dal sud” sul sito Meeting Pot ed è direttore di EcoMagazine.

Tratto da: