Il referendum proposto dalla Fiom: discutiamone

di Luca Casarini

7 / 9 / 2012

Come aveva annunciato dal palco dello Sherwood Festival a Luglio il suo segretario generale, la Fiom ha lanciato la proposta del referendum sul lavoro. O meglio, su due articoli di legge che hanno concretizzato le politiche di austerity imposte dalla Banca Centrale Europea a cavallo della crisi dell’Eurozona: l’articolo 8 della finanziaria dell’Agosto 2010, varata dall’allora governo Berlusconi, e lo stravolgimento dell’articolo 18 operato dal ministro Fornero e dal governo Monti. Il referendum, come si sa, nel nostro paese ha carattere abrogativo, cioè può essere utilizzato per chiedere la cancellazione di leggi o articoli di legge e ripristinare de facto ciò che c’era prima. Nel nostro caso non si tratta però di cavilli. Il carattere politico della consultazione, non sfugge, ed appare in tutta la sua potenziale forza se guardiamo a questi due provvedimenti all’interno del quadro delle politiche europee sul lavoro e sui diritti, che con il fiscal compact e il pareggio di bilancio nelle costituzioni nazionali, hanno marcato i contorni di quella che abbiamo più volte definita come la “dittatura commissaria” operata dai board della finanza sulla sovranità politica. Nella discussione estiva con Landini emergeva il grande problema che tutti noi abbiamo difronte: la crisi economica e la recessione, diretto prodotto del modello di capitalismo finanziarizzato a cui si inchinano le economie globali, non aveva e non ha, per ora, aperto grandi varchi alle alternative: la casa brucia, ma è come se per salvare i piani alti, quelli dove vengono accumulati i grandi capitali, si sia scelto di alimentare le fiamme in basso, per offrire combustibile ad un fuoco che in questo modo si espande in orizzontale piuttosto che salire. I 116 milioni di europei che sono sulla soglia della povertà, come i 400.000 bambini greci denutriti, sono una fotografia reale di questa scelta scellerata di quelli che, camuffati da pompieri, sono in realtà piromani criminali. Il prezzo perché la crisi di sistema non produca il suo crollo, lo stiamo pagando noi, e non coloro che l’hanno provocata, consapevolmente o meno. La scelta di operare in questo modo è divenuta in questi anni così decisiva da costruire attorno ad essa una nuova narrazione capitalistica: la colpa collettiva del debito ha dato un nuovo significato al termine “pubblico” che da sempre lo accompagna. Ciò che è pubblico può essere solo fonte di rinuncia, di sacrificio, di taglio. Invece la ricchezza, anche quella collettiva, non può mai dirsi pubblica: essa è solo la somma delle ricchezze private, dell’accumulazione individuale di pochi che in virtù di tale privilegio, definiscono anche i contorni della nuova democrazia, o se preferiamo, della post democrazia. Le decisioni, al di là dei meccanismi di registrazione del consenso legati all’elezione di parlamenti e governi, sono prese a prescindere e a priori. Sono legate ad istituti di controllo finanziario e monetario che impongono direttamente le politiche economiche al di là di qualsivoglia differenza di impostazione della governance temporanra formale di uno stato o dell’intera europa. I parlamenti, a cominciare da quello europeo, non contano più nulla. I governi invece sono commissariati, e possono ritagliarsi un protagonismo politico, solo ed unicamente in un quadro di compatibilità con il board postdemocratico che è in grado di reggere il gioco al massacro della speculazione finanziaria. La notizia del referendum non può non essere accostata a ciò che sta accadendo in queste ore ad opera della BCE. Alla fine, come era abbastanza prevedibile, il compratore di ultima istanza di titoli di stato europei sarà la Banca Centrale. Come lo è la Fed negli Usa. Non ci sono limiti, e questo dimostra l’assoluta astrattezza, virtualità di ciò che chiamiamo denaro, e del suo rapporto con la produzione di merci. L’euro è carta stampata, e se si decide se ne stampa quanta si vuole. Anche i meccanismi inflattivi, tanto temuti dalla Germania per via della sua supremazia commerciale, da cui deriva anche quella produttiva, sono ampiamente consigliati dai fondamentali dell’economia di mercato in tempi di recessione. Ma la questione è un’altra. L’accordo prevede infatti che la BCE diventi anche una sorta di mega agenzia di rating nel caso in cui un paese non rispetti la road map imposta da Francoforte in cambio dell’acquisto massiccio di debito. Cioè se la Bce non compra più, perchè un paese non rispetta ciò che è stato deciso dagli organismi bancari e finanziari sovranazionali ed eletti dal mercato, non dalle persone, automaticamente è come se il downgrouding raggiungesse il livello massimo possibile: i suoi titoli sarebbero carta straccia, e gli speculatori potrebbero così sbranarlo come fanno le iene in branco attorno ad un cadavere. Non è un caso che la BCE abbia chiarito che queste decisioni, comprare o non comprare, le prenderà previa consultazione con il FMI. Che cosa se ne deduce? Che la post democrazia è al livello più esplicito che mai si era raggiunto. Il tentativo, all’indomani di quella che viene definita la grande vittoria di Draghi sulla Merkel, operato da Napolitano da Venezia e da Monti da Fiesole, di riparlare di unità politica europea, è una maniera ipocrita di sottolineare quanto invece la sovranità non stia più nelle mani di alcuna forma politica classica legata alle procedure della democrazia liberale.
Quindi per tornare al referendum proposto dalla Fiom, che ha convinto Di Pietro ad allargare il comitato promotore che sarà formato dai segretari dei tre partiti ( Ferrero, Vendola, Di Pietro ) e dalla Fiom e Cgil, ma si aprirà con un percorso pubblico a comitati territoriali ampi in cui tutti potranno partecipare, esso va letto come una iniziativa che si colloca in questo contesto, drammatico, e maledettamente difficile dal punto di vista sociale. Difficile perchè permangono tutti i nodi critici che avevano fatto da sfondo alla discussione estiva. Se dal punto di vista strutturale non solo non si intravede nessun crollo capitalistico ma anzi la risposta alla crisi è la definizione di un ulteriore stadio del rapporto tra sistema economico e impoverimento sociale, da quello del conflitto sociale, unica risorsa per poter pensare di opporre una alternativa di sistema come soluzione alla crisi, assistiamo ad un grande impasse. E' ovvio che tutto ciò che può contribuire a far crescere movimenti di opposizione a Monti e alla filosofia di obbedienza alle decisioni della dittatura commissaria, è una grande risorsa. E' altrettanto ovvio che tutte le contraddizioni che abbiamo imparato a conoscere in questo periodo, rimangono e non sarebbe nemmeno utile rimuoverle. Dal rapporto tra alternativa come scelta per forza radicale con i soggetti politici che si candidano alle elezioni in termini di dichiarata volontà di discontinuità con berlusconismo e montismo ( uno degli effetti politici della proposta referendaria è certamente quello di porre all'ordine del giorno, per qualsivoglia centrosinistra, questo aspetto ), a quello tra movimenti e Fiom ad esempio sul nodo del rapporto tra lavoro e salute, tra necessità del reddito e ricatto sulla qualità di come si produce e di che cosa, con quali conseguenze ( la vicenda di Taranto è tutta lì a ricordarcelo ). E ancora, le contraddizioni di pensare ai movimenti come ad una forma pre-politica, molto legata all'espressione diretta dell'insoddisfazione o della rabbia, ma assolutamente distante dal proporsi come forza costituente a tutto campo, capace cioè di trasformare in progetto di società, e quindi culturale, economico, politico, di nuova democrazia, il diffondersi di momenti di lotta e di resistenza. Le contraddizioni ci sono, rimangono, ma il modo per affrontarle non è chiudersi sulle torri d'avorio. Il referendum, questa proposta, può essere nei territori e a livello generale, uno dei modi che abbiamo per continuare a costruire significato alla necessità di lottare. Se lo inquadriamo ad esempio, non tanto e non solo collocato sulle vicende italiane, da Marchionne a Sacconi, da Casini a Bersani, ma invece su ciò che sta accadendo in Europa. Se non lo releghiamo al compito di essere veicolo dirimente su due articoli di legge, peraltro nefasti, ma di un dibattito politico culturale sul lavoro nel suo complesso, sulla precarietà, sull'organizzazione dello sfruttamento ai tempi dell'organizzazione produttiva a rete, sulla necessità del reddito e di misure che affrontino la povertà insita nel modello di redistribuzione economica che ha sostituito il welfare state. La campagna referendaria partirà a metà ottobre e accompagnerà tutto l'autunno fino a dicembre: potrebbe essere l'occasione per tornare a pensare forme comuni di mobilitazione, per costruire, al di là delle specificità di ogni piccola e grande lotta, uno spazio di discussione consapevole della necessità di definire obiettivi comuni che affrontino in termini generali alcuni aspetti diventando punti di programma condiviso. Apriamo il dibattito attorno alla proposta della Fiom, assumiamone gli aspetti più importanti e non quelli legati alla semplice gestione delle alleanze che si gioca attorno al rapporto tra sindacato e partiti. Ad esempio, all'interno della discussione sul lavoro che si riapre con la questione del referendum, di certo bisognerà introdurre quello che rischia di essere il grande rimosso, cioè la questione del reddito come misura sociale che sappia contrastare precarietà e diseguaglianza redistributiva. Che attualizzi cioè la questione dei diritti e delle garanzie sulle nuove figure del lavoro sociale, che non hanno nè contratto nazionale da ripristinare nè minimi sindacali a cui appellarsi, nè tantomeno articoli 18 da rivendicare. Discutendo in queste ore con Gianni Rinaldini, lui avanzava l'idea che su questo potesse esserci anche una qualche proposta da affiancare alla proposta referendaria: tipo una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare sul reddito che si integri con la campagna di raccolta firme per i referendum, che diventi cioè a tutti gli effetti parte della stessa campagna. Può essere un'idea, discutiamone.