Il Sofitel di Berlusconi

17 / 5 / 2011

E’ stato il Sofitel di Berlusconi, ma non ancora la piazza Tahrir delle opposizioni. Cerchiamo di capire, più ancora che di spiegare o pronosticare.

Il Caro Leader è incappato in una rovinosa caduta, simile a quella di Dominique Strauss-Kahn alla suite 2806 del New York Sofitel Hotel. Stessa arroganza sessuale e finanziaria, stessa cieca fiducia nel potere incontrollato –e meno male per Berlusconi che l’accanimento giudiziario italiano in certe materie è molto minore che nel puritanesimo americano, così che la punizione più immediata è arrivata (fortunatamente) sul terreno politico. Del resto, i peggiori delitti di DSK e del Fmi da lui diretto erano stati compiuti sul piano del macello economico mondiale più che in camera da letto e nel bagno e per quelli non si parla di sanzione politica e tanto meno penale.

D’altra parte, siamo ben lontani da una riscossa dell’opposizione all’altezza dei sommovimenti nordafricani. Constatiamo piuttosto indici cospicui di insofferenza, che potremmo così elencare: sconfitta delle molto insistite pretese plebiscitarie sul nome di Berlusconi (il flop delle preferenze milanesi è sintomatico), consistente declino del voto al PdL senza recupero da parte della Lega, che anzi è spesso associata nel crollo (impressionanti sono i risultati delle piccole e medie città del Nord che stanno lentamente pervenendo), fallimento delle speranze quantitative del Terzo Polo (con dati imbarazzanti per i finiani di Futuro e Libertà), successi parziali per i riformisti del Pd (Torino e assai più faticosamente Bologna), vittorie clamorose per i candidati di sinistra che si erano imposti nelle primarie su quelli ufficiali del Pd, Pisapia in primo luogo a Milano, o che si presentavano direttamente in alternativa, De Magistris a Napoli. Aggiungiamo, dato sottovalutato nelle rassegne stampa correnti, il trionfo incredibile del referendum (consultivo) antinucleare in Sardegna, che ha superato il quorum con il 60% dei votanti e la quasi unanimità del rigetto fra i voti espressi. Un eccellente presagio per i referendum nazionali, se non saranno illegalmente scippati.

In generale, potremmo dire, il moderatismo è stato battuto sia nella componente urlata e demagogica sia in quella pacata e centrista, sui tacchi della Santanché e con l’accattivante sale e pepe di Casini, mentre l’opposizione ha registrato gli esiti migliori e strategicamente più incisivi laddove si è presentata in forma radicale e autonoma da vincoli di partito e da logiche di autosufficienza veltroniana. Insomma, la voglia di cambiamento (o almeno il fastidio di andare avanti così) ci sta e rispecchia, nella vischiosa mediazione elettorale e di opinione, le grandi scosse inferte dalle manifestazioni studentesche, femminili e sindacali del 14 dicembre 2010 e del 13 febbraio e 6 maggio 2011 –tanto per fare tre date che non esauriscono certo il potenziale di mobilitazione autonoma di questi ultimi mesi e la risonanza con le battaglie analoghe di Londra, Parigi, Lione, Atene, Madrid.

Ci confermiamo nell’idea di stare sulla strada giusta per uscire dalla paralisi politica e sociale. La crisi comincia a rovesciarsi in resistenza e contrattacco, con tutte le incertezze dei loro riflessi politici, stante il totale scollamento delle rappresentanze parlamentari sedicenti di opposizione (non crediate che l’IdV sia tanto meglio del Pd, per tacere caritatevolmente dei grillini), l’incauto ammucchiamento della Cgil intorno alla linea Camusso e contro la Fiom (ma scommettiamo che il vento del Nord indurrà maggiore prudenza?), l’ancor insufficiente espressività politica e tenuta organizzativa dei movimenti. Ma il fiume ha cominciato a scorrere e sarà difficile imbrigliarlo. Certo, la grandi manovre cominciano. Non tanto le prevedibili iniziative delle destre, oggi disorientate, in vista dei ballottaggi e gli espedienti per evitare una per loro disastrosa tornata referendaria, quanto le operazioni moderate del Pd, volte a normalizzare sotto ricatto i candidati troppo radicali o comunque indipendenti e a proporre concessioni eccessive a forze centriste residuali ma determinanti per il 50,1%. Scontiamo, perfino in condizioni tecnicamente e mediaticamente favorevoli, la riluttanza della “sinistra” a scatenare quella battaglia generale che potrebbe, nel medio periodo, portare alla caduta dell’attuale egemonia politica e culturale (non solo parlamentare) del centro-destra. Questo compito, anzi, non può proprio spettare al Pd e l’unica cosa auspicabile è che non frapponga ostacoli. Per esempio, che abbandoni le pregiudiziali sul referendum per l’acqua pubblica, che si impegni al raggiungimento del quorum, che accetti le primarie.

Per il resto solo una pressione dal basso e una logica di movimento, che già hanno rimesso in moto la situazione, possono indirizzarla verso sbocchi interlocutori di apertura, cioè essenzialmente verso una caduta dell’attuale governo che non si traduca in una gestione Tremonti-Casini della crisi. L’indebolimento della Lega, il discredito bi-partisan del ceto politico, la persistenza della crisi (di cui la ripresa dell’inflazione e lo stallo occupazionale sono indici purtroppo evidenti), l’impopolarità della guerra libica –fiore all’occhiello del riformismo atlantico di Napolitano– non favoriscono, per fortuna, soluzioni di tranquillo e duro ricambio alla pagliacciata berlusconiana. E neppure il diretto interessato darà una mano a suicidarsi. Anche il Pdl, con la sua coda di “responsabili”, si è spinto talmente avanti nella solidarietà al capo, che non si vede come potrebbe dissociarsene a basso costo –gioco molto più facile per Bossi e Maroni. Si è dunque aperta una fase molto interessante di instabilità, che metterà alla prova la maturità di quanto di nuovo è emerso in Italia all’interno e contro il duplice fallimento della politica rappresentativa e degli esperimenti populistici.

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