Dopo il rischio di catastrofe e il sostegno pubblico le banche ricominciano a speculare

Prendi i soldi e scappa

Il G20 di Pittsburgh e le regole per la finanza “malata”

24 / 9 / 2009

In questi giorni si apre il secondo atto del G20 dopo il primo atto svoltosi a Londra nella primavera scorsa. In quell’occasione, era stato riscoperto e riverniciato a nuovo, il Financial Stability Forum, fondato nel 1999 e oggi capitanato da Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia. Scopo dell’istituzione: operare a favore della regolamentazione dei mercati finanziari per porre fine a quell’anarchia speculativa che era stata una delle cause della più grave crisi economica dal 1929. Tempo previsto per le proposte di risanamento: proprio l’odierno G20 di Pittsburgh, deciso a Londra a questo scopo. Sempre in pompa magna e con grande clamore mediatico era stata presentata una lista nera dei cosiddetti paradisi fiscali, a dimostrazione che le intenzioni erano serie e le decisioni immediate. La proposta aveva ottenuto l’entusiastico sostegno dal nostro ministro dell’economia Tremonti (noto paladino della trasparenza economica): con un tempismo non casuale, si era precipitato a proporre lo scudo fiscale per i capitali illecitamente esportati all’estero, guarda caso propri nei paradisi fiscali (e oggi allargato anche al falso bilancio e al riciclaggio). Ma, dopo neppure una settimana il colore della lista dei paesi incriminati da nero era mutato in grigio, alcuni paradisi fiscali (quelli sostenuti dalla Cina, ad esempio) scomparsi del tutto. In men che non si dica, insomma, la lista divenne desolatamente vuota e non se ne fece più nulla.

Non c'era da temere, tuttavia: proprio al G20 di Pittsburgh sarebbero state prese tutte le misure adeguate per procedere a una sana e reale regolamentazione della finanza, estirpando le male erbacce e i comportamenti egoisti e truffaldini. Da quel che si riesce a leggere sulla stampa (le anticipazioni al riguardo non sono molte), il pilastro portante della regolamentazione sarebbe la fissazione di un limite massimo ai bonus dei dirigenti delle società finanziarie. Misura che nulla ha a che fare con la loro regolamentazione. In cambio, i governi interessati garantirebbero la non fallibilità delle stesse, nel caso di eccessivo indebitamento. Non si può infatti ripetere il caso della Lehmann Brother di un anno fa, il cui non salvataggio, nel nome del fondamentalismo liberista, ebbe ripercussioni drammatiche sugli indici delle borse di tutto il mondo.

Certo, alcuni paesi, come la Svezia e addirittura l’autorevole Financial Service Authority della Gran Bretagna, hanno proposto come strumento decisamente più appropriato l’introduzione di una Tobin tax sulla transazioni finanziarie a livello globale. Ma è già chiaro che tale proposta non verrà neanche presa in considerazione a Pittsburgh.

Appare piuttosto scontato che anche questo G20 non sarà in grado di avviare nessun processo di regolamentazione finanziaria. Non si tratterà di un fallimento, ma piuttosto del risultato cercato. Il motivo è semplice. Nel secondo trimestre dell'anno le grosse banche americane hanno registrato ricavi (e profitti) in forte crescita: 32 miliardi di dollari Bank of America, 29,9 Citigroup, 25 JP Morgan per citarne solo alcune. Il punto è che gran parte di questi ricavi non sono derivati dalla tradizionale attività bancaria, ma sono stati conseguenza diretta del rally sui mercati: secondo i calcoli di «Analisi mercati finanziari» del Sole 24 Ore, che ha passato in rassegna 12 tra le principali banche europee e americane, il 59% dei ricavi sono arrivati da attività di trading, da dividendi e da commissioni. Insomma: le banche mondiali continuano ad assomigliare più a fondi che a istituzioni creditizie. Più che finanziare imprese e famiglie, speculano sui mercati, e in questo modo, realizzano utili a palate. Non stupisce quindi che il volume dei derivati, anche dopo il tracollo dell’ultimo anno, sia ancora ragguardevole, intorno ai 53 trilioni di dollari, una cifra cinque-sei volte superiore alla liquidità immessa nel sistema economico dai governi e dalle Banche Centrali per turare le falle della crisi. Regolamentare i derivati o limitarne la circolazione tramite l’imposizione di una Tobin tax equivarrebbe incidere sui ricavi delle principali società finanziarie, quelle stesse i cui rappresentanti condizionano pesantemente (oltre a sedere nei consigli di amministrazione) le istituzioni internazionali, in primo luogo il Financial Stability Forum: quis custodiet custodes?

E’ necessario che al potere finanziario (che non è in grado di auto-regolarsi, né può essere ridotto ritornando all’economia reale del Fordismo) si contrapponga una sorta di contro-potere che ne condizioni l’operato. Tale contropotere, oltre a promuovere interventi legislativi, quali appunto la Tobin Tax, dovrebbe introdurre vincoli all’indebitamento delle banche con il fine di favorire una ripulitura dei bilanci delle stesse banche. Inoltre, occorre riappropriarsi delle funzioni di welfare oggi demandate agli stessi mercati finanziari. Interessante in proposito, è il tentativo di Obama di introdurre un’opzione pubblica che limiti lo strapotere delle assicurazioni finanziarie nel sistema sanitario statunitense. Ma il tentativo non sembra destinato al successo. In ogni caso, qualsiasi intervento che riduca la quota di reddito diretto o differito incanalato verso i mercati finanziari per fini di assicurazione sociale (tfr, previdenza, istruzione, sanità, ecc.) è più che mai auspicabile. Si tratta di ridurre il potere di ricatto biopolitico della finanza sulla vita delle persone, a partire dagli effetti distributivi. Da qui l’esigenza di avviare una politica economica dell’istituzione del comune.