A. voleva fare la stagione estiva in Romagna. Si è rivolta a un’agenzia di intermediazione rumena specializzata nel settore del turismo e dei servizi. Aveva trovato l’indirizzo su un giornale, in calce a un invogliante trafiletto pubblicitario. La proposta sembrava allettante: avrebbe trascorso due mesi in una località di mare della riviera, con alloggio e vitto pagati e la possibilità, nelle ore di riposo, di godersi il mare. Ma arrivata a destinazione ha scoperto che il riposo non era previsto. E che l’organizzazione del lavoro reale era molto diversa da quella che le era stata prospettata: 10/12 ore di lavoro al giorno senza neanche il giorno di riposo, per una paga complessiva che non superava gli 800 euro.
Ma lei era arrivata sin lì, dalla Romania, e non se la sentiva di ritornare indietro a mani vuote. Ha stretto i denti ed è andata avanti. Come lei, molte altre giovani donne. La vicenda di A. infatti non è eccezionale. E’ una delle tante storie di sfruttamento che si possono trovare negli alberghi, nei ristoranti e nelle altre strutture commerciali della riviera romagnola. Storie che hanno come protagoniste, in genere, lavoratrici dell’est europeo ma che, per effetto della crisi, cominciano a toccare anche giovani italiani. Dal 2008 l’associazione Rumori sinistri di Rimini è impegnata in modo sistematico a contrastare questo fenomeno, poco conosciuto e poco trattato dai media, che si configura come un vero e proprio racket. L’associazione ha contribuito a mettere in luce la forte diffusione del lavoro sommerso e illegale nel distretto turistico romagnolo, che basa la propria competitività anche sullo sfruttamento intensivo della forza-lavoro ma anche l’esistenza di intermediari e di reti criminali capaci di organizzare e gestire tipologie di lavoro migrante assimilabili al caporalato. Con Manila Ricci, attivista dell’associazione, approfondiamo la questione.
Quanto sono diffusi il lavoro sommerso e il lavoro nero sulla riviera romagnola?
«La retorica dominante dice che il distretto turistico è sano, che ci
sono sì delle mele marce, ma che si tratta di singoli imprenditori che
non rispettano i contratti. In realtà in questi anni abbiamo visto come
il lavoro sommerso e irregolare sia un fenomeno strutturale in Romagna,
così come sia molto diffusa l’evasione fiscale e contributiva delle
aziende ad esso collegato, come hanno denunciato nell’ultima estate
anche la Guardia di Finanza e l’Ispettorato del lavoro».
Che impatto ha avuto la crisi sulle condizioni e i diritti dei lavoratori, migranti e italiani?
«La crisi non è certo cominciata adesso, perché è da circa dieci anni
che nel lavoro stagionale assistiamo alla diminuzione dei salari reali, e
che vi è minore interesse e controllo sulle condizioni di lavoro, sia
da parte del sindacato sia da parte della politica. La situazione ora è
peggiorata perché anche qui c’è una lieve flessione delle presenze
turistiche. A questa crisi si risponde non con la riconversione
ecologica delle spiagge e la tutela dei beni comuni, o con la
riqualificazione dei servizi e delle strutture ricettive, ma con la
compressione dei costi e la diminuzione dei diritti a danno dei
lavoratori. Quest’anno, attraverso la Campagna per l’emersione del
lavoro gravemente sfruttato, sono arrivate molte telefonate di cittadini
italiani che denunciavano di lavorare a cottimo. E poi c’è la recente
riforma del lavoro, che ha modificato in senso peggiorativo i criteri
per usufruire degli ammortizzatori sociali per i lavoratori stagionali».
In particolare, c’è una vertenza aperta con con un prestigioso complesso turistico della riviera…
«Questa estate, con l’ultima campagna di emersione, è risultato che
diversi lavoratori per fare la stagione in Romagna si rivolgono a
società di mediazione e reclutamento rumene, che lavorano “con appalti”
non regolari di alcuni grossi tour operator. I contatti avvengono di
solito attraverso portali di lavoro su Internet o annunci sui giornali.
Il meccanismo di raggiro funziona attraverso società rumene che fanno
sottoscrivere ai lavoratori contratti ingannevoli e non legali in
Italia, avvalendosi della direttiva comunitaria Bolkestein. Questi
contratti sono in completa deroga ai contratti collettivi italiani, cosa
che permette un notevole abbassamento dei salari: parliamo di 18 euro
giornaliere a tempo pieno, cioè di una paga oraria di due euro!
La vertenza a cui si fa riferimento si inserisce in questo quadro: sono
lavoratori e lavoratrici che lavoravano fino a 84 ore settimanali per
700 euro al mese, senza usufruire del giorno di riposo e che non
ricevevano il salario da mesi. Un piccolo gruppo di lavoratori, dopo
essersi auto-organizzato, si è rivolto a noi attraverso la Campagna per
l’emersione del lavoro sfruttato. Insieme a loro e al Comitato Schiavi
in Riviera abbiamo organizzato alcuni presidi di protesta e la vicenda
ha avuto molta risonanza sui media locali. La vertenza però non è ancora
conclusa, perché a oggi i lavoratori hanno ricevuto solo una parte
degli arretrati, corrispondente ai contratti stipulati in Romania.
L’ispettorato del lavoro dice che è possibile la riscossione forzata di
tutto il salario, ma la procedura avrà tempi lunghi».
E sul piano politico si è mosso qualcosa?
«Sì, abbiamo ottenuto un incontro con il Sindaco di
Riccione e spinto affinché il sindaco si ponesse come garante per la
trattativa con il tour operator, oltre all’apertura di un percorso
politico con alcuni consiglieri comunali. Poi, insieme a Schiavi in
riviera, abbiamo incontrato il Prefetto, con l’obiettivo di contribuire
all’individuazione di linee-guida di intervento sociale e non solo
repressivo per contrastare il lavoro gravemente sfruttato nei vari
settori del distretto turistico/balneare. Tutto questo per stimolare e
sostenere dal basso il protocollo sul lavoro nero che la Prefettura sta
siglando insieme a tutti i soggetti istituzionali interessati e le
associazioni di categoria. C’è stata anche una segnalazione al progetto
regionale anti-tratta “Oltre la strada”, Progetto “Help” a livello
locale, che ha permesso la prima assistenza agli otto lavoratori in
vertenza e la presa in carico dei due lavoratori che attualmente sono
ancora in Italia».
di Andrea Cagioni