Sicurezza sul lavoro, sicurezza dei territori: verso il presidio per Mattia Battistetti

Da tempo, in provincia di Treviso, è aperta una campagna che chiede giustizia e verità per Mattia Battistetti, schiacciato a 23 anni dal carico di una gru in un cantiere dell’azienda Bordignon a Montebelluna.

26 / 1 / 2024

Solo tra il 17 e il 18 gennaio ci sono stati dieci morti sul lavoro in Italia. L’ha annunciato la pagina Skatenati Electrolux, i cui delegati sindacali da tempo si impegnano per maggiore salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Su questo fronte, la principale vertenza aperta nella provincia di Treviso è la campagna che chiede giustizia e verità per Mattia Battistetti, schiacciato a 23 anni dal carico di una gru in un cantiere dell’azienda Bordignon a Montebelluna. Il prossimo appuntamento è il presidio del 29 gennaio 2024 davanti al tribunale di Treviso, in occasione della settima udienza del processo.

Gabriele Zanella, per l’Associazione in memoria di Mattia Battistetti, commenta: “Troppo spesso la strage continua di lavoratrici e lavoratori cade nella rimozione, nell’assuefazione, nel dimenticatoio mediatico dopo il clamore dei primi giorni. La lotta per Mattia Battistetti ha trovato relazioni significative con rappresentanze operaie nel territorio e soprattutto una costanza di azione mediatica e di iniziativa. Siamo consapevoli dell’importanza di far passare un concetto basilare, non scontato nel senso comune. Non esiste alcuna fatalità nella strage sul lavoro. Esistono rapporti causali ben precisi: di ordine specifico (assenza di controlli, irrisorietà di sanzioni, impunità…) e generale (ritmi, condizioni, ricattabilità, debolezza nei rapporti di forza)”.

Di fronte alle denunce della strage continua, alcuni commentatori sono soliti mettere in guardia dagli “allarmismi”, evidenziando come gli incidenti e i decessi dovuti al lavoro siano nettamente diminuiti dagli anni ’60 a oggi. Questo dato è fattualmente ineccepibile, ma viene inserito all’interno di una narrazione “minimizzante” alla quale ci sono almeno due ordini di obiezioni da muovere.

In primo luogo, per quanto riguarda l’interpretazione dei dati, l’andamento delle cifre non è così confortante. Nel 1963, le morti sul lavoro denunciate sono state 4.644. Se avanziamo fino al 1994, troviamo una cifra assai inferiore: 1.328. Tuttavia, dalla metà degli anni ’90 ad oggi, la tendenza declinante di infortuni e decessi ha subito un drastico rallentamento. Gli infortuni mortali sul lavoro denunciati nel 2022 sono stati 1.208 (l’INAIL deve ancora pubblicare la relazione finale per il 2023) e il tasso di decessi denunciati per 100.000 occupati non ha avuto un netto trend di miglioramento dal 1995 a oggi. I dati dell’INAIL si basano su criteri volti a determinare chi ha diritto alle indennità stabilite dalla legge. Questo fa sì che le sue stime si attestino a livelli più bassi di quelle fornite da altre entità. Per esempio, l’Osservatorio Nazionale di Bologna Morti sul Lavoro stima che le “morti bianche” siano state oltre 1.400 sia nel 2022 che nel 2023. Inoltre, il declino degli infortuni rispetto agli anni ‘60 è in parte dovuto al calo del tasso d’occupazione nell’industria e all’aumento di quello nel terziario, in media meno rischioso. Infine, il tasso standardizzato di incidenza delle morti sul lavoro in Italia (2,66 per 100.000 occupati nel 2021) è nettamente superiore alla media europea (1,76) e oltre il triplo rispetto alla Germania (0,84). Questo dimostra che sarebbe in linea di principio possibile, e quindi urgentemente doveroso, non rassegnarsi ad avere una media di oltre tre morti sul lavoro al giorno.

In secondo luogo, in termini di prospettiva politica, la narrazione “minimizzante” dimentica il ruolo della conflittualità nei luoghi di lavoro, negli anni ‘60 e ’70, nell’innescare questo processo migliorativo. In Italia, l’opposizione alla nocività è cominciata nei primi anni ’60 con le ricerche e vertenze promosse dalla Camera del lavoro di Torino in collaborazione con gli operai stessi – soprattutto metalmeccanici e chimici – e con esperti esterni alle fabbriche ma mossi da una profonda determinazione etica e politica. Si ricordi in particolare la figura dell’ex partigiano Ivar Oddone. Questa esperienza pioneristica mise in primo piano la partecipazione diretta dei lavoratori e delle lavoratrici nell’individuare fattori di rischio e sviluppò una critica alla monetizzazione della salute – ovvero l’accettazione sistematica di compensi monetari per i danni alla salute e i rischi subiti. Il rifiuto della monetizzazione si estese su scala nazionale nel biennio 1968-69, con slogan quali “La salute non è in vendita”. La lotta per la salute prese diverse direzioni, come i Comitati di base – per esempio l’esperienza radicale di Porto Marghera guidata da Augusto Finzi –, le Commissioni ambiente dei Consigli di fabbrica, o il lungo viaggio di Medicina Democratica. Nel loro complesso, questi percorsi hanno portato alla conquista di diritti dati oggi per scontati, al sistema di prevenzione territoriale delle Ulss e a un capillare cambiamento culturale rispetto al valore della salute e dell’ambiente, in un paese che era stato originalmente destinato a una produzione industriale basata sul basso costo del lavoro.

Al livello internazionale, un’ampia letteratura rintraccia le origini dell’ambientalismo come forza politica di massa anche nelle lotte della classe lavoratrice contro la nocività. Queste strabordarono infatti oltre i luoghi di lavoro, per porre la questione della sicurezza dei territori e limitare così anche la nocività esterna. Per esempio, Chad Montrie ha ricostruito il contesto storico in cui è emerso il libro Silent Spring di Rachel Carson – considerato il testo fondante del movimento ambientalista –, mostrando come le lotte per la salute dei lavoratori agricoli esposti ai pesticidi abbiano dato un contributo determinante al cambiamento di prospettiva. Dalle vertenze per la prevenzione degli incidenti alle campagne contro silicosi, asbestosi e tumori occupazionali, c’è una lunga storia di forme di ambientalismo che si sono evolute a partire da rivendicazioni di salute e sicurezza sul lavoro. Queste epopee hanno prodotto i loro eroi – personaggi come Alice Hamilton, Chico Mendes o, più vicino a noi, Gabriele Bortolozzo – le cui storie vale la pena di studiare.

Non sempre queste mobilitazioni si sono esplicitamente presentate come ambientaliste. Tuttavia, come nota l’autrice canadese Katrin MacPhee, “tracciare una netta linea di separazione tra movimenti ambientalisti e lotte per salute e sicurezza sul lavoro significa accettare concezioni borghesi dell’ambientalismo”, ovvero basate su un dualismo tra “ambiente naturale” e “società umana” e su una politica incentrata unilateralmente sugli stili di vita individuali e un disinteressato “post-materialismo”, che fa presa soprattutto sulla classe media. L’ambientalismo working class emerso dalle lotte contro la nocività – come anche i movimenti antirazzisti per la giustizia ambientale – è invece mosso dall’interesse collettivo dei gruppi non privilegiati a proteggersi dagli impatti del degrado ambientale, che li colpiscono con particolare forza.

La provincia di Treviso è notoriamente caratterizzata da un tessuto economico di piccola e media impresa. Il principale centro operaio ad aver espresso un’opposizione di una certa risonanza pubblica alla nocività è stato l’eccezione alla regola, la grande fabbrica di elettrodomestici Zoppas-Zanussi-Electrolux, situata prima a Conegliano e oggi a Susegana. C’è però una lunga storia sotterranea di contrasto ai tossici nei luoghi di lavoro: il benzene e l’esano nel distretto calzaturiero di Montebelluna, le polveri e il rumore nell’industria ceramica trevigiana, il cromo e il nickel nella saldatura dell’acciaio nella “Inox Valley” coneglianese, i pesticidi anticrittogamici nei vigneti della monocultura del Prosecco.

In linea con la tendenza nazionale, i settori più rischiosi per quanto riguarda gli infortuni mortali sono edilizia e agricoltura. “Nelle fabbriche le morti per elettrocuzione sono diminuite grazie a sistemi salvavita sempre più efficaci. E sono calate anche le morti per intossicazione, perché oggi la gente si ribella alla presenza di vapori puzzolenti o irritanti” spiega Giovanni Moro, ex direttore dello SPISAL del Distretto Pieve di Soligo dell’ULSS 2. “Avvengono però ancora incidenti legati alla circolazione dei muletti e alla caduta di carichi sospesi. Inoltre le fabbriche metalmeccaniche e quelle del legno hanno tassi relativamente alti di incidenti gravi alle mani”.

La natura diffusa del rapporto di lavoro in provincia aumenta la necessità di un servizio pubblico in grado di lavorare con i Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza per migliorare la prevenzione. Tuttavia, la politica regionale va in tutt’altra direzione. “Le risorse dedicate al personale per la prevenzione dei rischi sul lavoro in Provincia di Treviso sono del tutto inadeguate” afferma Moro. “Nel 2017, c’erano otto medici specialisti negli SPISAL delle tre ULSS provinciali. Oggi ce ne sono due in tutto, cosicché la Provincia di Treviso è quella nella situazione peggiore rispetto alle provincie circostanti. Ma, in generale, il Veneto consacra meno fondi e personale alla sicurezza sul lavoro rispetto a Emilia-Romagna e Toscana – che storicamente hanno più operatori – ma anche rispetto alla Lombardia. Di conseguenza, il lavoratore che contesta la situazione ambientale in fabbrica o il giudizio del medico aziendale trova insufficiente supporto dallo SPISAL. Questo è dovuto alla disattenzione per la salute sul lavoro da parte della giunta regionale, in particolare il nostro ‘Doge’ Luca Zaia.”

Naturalmente, l’ambientalismo di classe è sempre soggetto alle pressioni del ricatto occupazionale e non si dà quindi in modo automatico. Dev’essere piuttosto costruito politicamente attraverso piattaforme rivendicative in grado di collegare sicurezza nei luoghi di lavoro e sicurezza dei territori. Nell’Italia odierna­, la vertenza dell’Ex GKN – con la sua richiesta di convertire una fabbrica dell’automotive alla produzione per il trasporto pubblico sostenibile – è senza dubbio il caso più significativo.

Nel mettere allo scoperto i fili che collegano la sicurezza nei luoghi di lavoro e quella dei territori, i trasporti costituiscono oggi un nodo cruciale. Gli incidenti sul lavoro sono infatti categorizzati su due dimensioni: gli infortuni “in occasione di lavoro” e quelli “in itinere” da un lato, gli infortuni “con mezzo di trasporto” e quelli senza dall’altro lato. Gli incidenti in itinere sono quelli che avvengono da o verso il luogo di lavoro. A certe condizioni, anch’essi possono comportare un’indennità da parte dell’INAIL. Gli infortuni con mezzo di trasporto non avvengono però tutti in itinere. Per esempio, un camionista coinvolto in un incidente quando in servizio sarà considerato come infortunato in occasione di lavoro. Nel complesso, una parte importante degli incidenti mortali sul lavoro sono legati al trasporto.

Per quanto riguarda i territori, i trasporti sono responsabili del 23% delle emissioni di CO2 mondiali, nonché di una parte importante dell’elevatissimo inquinamento atmosferico della Pianura Padana. Sono inoltre la prima causa di morte tra i giovani in Italia. Proprio per questo, Cina, Europa e Stati Uniti stanno portando avanti un tentativo di decarbonizzazione della mobilità. Tuttavia, il modo in cui tale transizione avverrà, se avverrà, è tutt’altro che neutrale e costituisce un importante terreno di conflitto. Da un lato, è già in corso una profonda ristrutturazione della forza lavoro dell’automotive. Dall’altro lato, anche l’elettromobilità presenta le sue criticità ecologiche: la produzione dei veicoli elettrici è meno intensiva a lavoro ma più intensiva a energia rispetto ai veicoli tradizionali, le batterie ricaricabili sono difficili da riciclare e il tutto richiede l’estrazione di immense quantità di minerali. Inoltre, se le tendenze attuali continuano nei prossimi decenni, il numero di veicoli privati in circolazione nel mondo aumenterà copiosamente, di conseguenza più che una sostituzione della mobilità fossile con quella rinnovabile si profila un’espansione del parco auto in tutte le sue forme.

La multinazionale americana Tesla è un perfetto esempio di tutti i problemi dell’elettromobilità nella sua forma attuale. La promessa di decarbonizzare i trasporti ha contribuito a rendere il provocatore di destra Elon Musk l’uomo più ricco del mondo. Eppure, la produzione di auto private di lusso non farà granché né per mitigare la crisi ecologica né per garantire un accesso più egualitario alla mobilità. Come hanno scritto i movimenti tedeschi: “Musk si oppone al trasporto pubblico (di corto e ampio raggio) e allo spazio per biciclette e pedoni proprio con la stessa veemenza con cui reprime i sindacati nelle sue fabbriche”. Non a caso, la mancanza di sicurezza sul lavoro è stata denunciata anche quest’anno nelle modernissime fabbriche Tesla.

Purtroppo, il trasporto pubblico non è automaticamente sicuro né per i passeggeri né per i lavoratori. Gli incidenti avvenuti pochi mesi fa a Marghera e Brandizzo ce lo ricordano. Resta però il fatto che la grande maggioranza degli incidenti con mezzo di trasporto, sul lavoro e no, avvengono su veicoli privati. La battaglia per un sistema di mobilità che dia molto più spazio al trasporto pubblico multimodale e sicuro è quindi attraversata da diversi obiettivi interconnessi: riduzione degli infortuni sul lavoro legati al trasporto e degli incidenti stradali in generale, abbattimento delle emissioni di CO2 e dell’inquinamento atmosferico, contenimento del fabbisogno di materie prime. Come per tutte le scelte tra sistemi tecnologici complessi, l’alternativa tra una mobilità che dà priorità ai veicoli privati e di lusso e una mobilità incentrata sul trasporto pubblico e accessibile è anche una differenza tra due modelli sociali e politici diversi.

Quello dei trasporti è solo un esempio di come sicurezza sul lavoro e sicurezza dei territori siano legate. Nell’immediato, una vittoria della causa legale per Mattia Battistetti costituirebbe un importante precedente per una più efficace regolamentazione e sorveglianza delle aziende operanti nel nostro territorio. A questo proposito, conclude Gabriele Zanella: “Sono essenziali la partecipazione diretta di lavoratrici, lavoratori, student*, cittadin*; la vicinanza a questa coraggiosa e determinata famiglia; la rivendicazione di cambiamento di una soggettività collettiva, contro chi ci vuole relegare a oggetti di una condizione ineludibile e fatale. Saremo in tante e tanti, il 29 gennaio, per la settima udienza di un processo che entra nel vivo degli interrogatori”.