Taser e sgomberi, il bastone e il bastone. Perché dobbiamo difendere i centri sociali

5 / 9 / 2018

Il bastone e il bastone, questo – come prevedibile – è il metodo di governo dei pur sempre celoduristi della Lega e dei manettari pentastellati. Che fosse un incrocio devastante nella ricerca spasmodica e giustizialista della legalità formale, in fondo, lo sapevamo già. Così, anche stavolta, sul terreno preparato accuratamente dal precedente esecutivo, il governo del cambiamento non cambia niente. Anzi, prosegue dritto sulla strada della repressione. A tutta forza. Centri sociali e occupazioni abitative sono indubbiamente tra i bersagli preferiti. Le “zecche parassite”, in questo lunghissimo autunno, dovranno vedersela con Taser e sgomberi a tutta forza.

Se i reazionari al governo minacciano apertamente ogni spazio di dissidenza e democrazia, che si fa? Certo il perbenismo che ha sedotto non pochi democratici, anno dopo anno, ha permesso la criminalizzazione di una parte. Il tutto motivato solo ed esclusivamente da pregiudizi e forzature. I centri sociali no, non sono covi di terroristi. E no, non sono luoghi pericolosi, non bisognerebbe affatto averne paura. I centro sociali, poi, non sono una parte residuale avanzata dagli anni Novanta. Anche se in qualche caso – e questo è innegabile – hanno finito per esserlo.

La lunga tradizione dei centri sociali in Europa e, in particolare, in Italia coincide con una lenta ma decisa azione di riappropriazione dell’abbandono. A partire dagli anni Settanta, alcuni spazi pubblici ed edifici vuoti diventano luoghi in cui i movimenti trovano “casa”, in cui si cerca la soluzione auto organizzata davanti alle diseguaglianze che la società industriale produce. Davanti alla crisi dei partiti politici, che non è certo cominciata oggi.

Che fossero di ispirazione anarchica o prossimi al movimento dell’autonomia, in questi anni, i centri sociali hanno saputo trasformare l’abbandono in attivismo politico. Riappropriazione, difesa, resistenza e persino fenomeno di massa negli anni Novanta. Fino a giungere ai più vicini Duemila, al movimento no global, e a quello che oggi ci ritroviamo sotto gli occhi: isolamento, ripiegamento su sé, istituzionalizzazione. Nel 1994 la polizia stimava duemila aderenti, nel 2001 – apice del movimento No Global – se ne calcolavano almeno 5 o 6mila per circa 200 centri sociali sparsi per tutta Italia, metà riconosciuti e metà ritenuti abusivi. L’Antiterrorismo – nientemeno sì, l’antiterrorismo – un anno fa stimava in migliaia gli spazi occupati e stilava una black list di 200 “covi”: 11 in Lombardia, 7 in Piemonte, 4 nelle Marche, 12 in Veneto e in Emilia, 10 in Toscana, 4 in Puglia, 8 in Liguria, 4 in Trentino, oltre 20 in Campania, 6 in Calabria e 3 in Sicilia.

«Occupare significa prendere il controllo invece di rimanere in balia di burocrati», scrive Paul Chatterton in Squatting is Still Legal, Necessary and Free: «Questa è una pratica necessaria e libera che celebra il potere della dimensione locale e dell’immediato». Ecco cos’è un centro sociale, uno spazio liberato dalle logiche capitalistiche, dove il diritto di proprietà è sospeso in favore della riappropriazione collettiva. Occupare, quindi, corrisponde a una denuncia visibile dello spreco di risorse pubbliche, della sottrazione di servizi sociali e della speculazione immobiliare. Ma cosa si fa in questi centri sociali? Solidarietà internazionale, per esempio. Ma anche assistenza legale e sanitaria, ai lavoratori e ai migranti, ricerca per la difesa del territorio e dell’ambiente, pratiche per la sovranità alimentare e il diritto sacrosanto alla conoscenza. E ancora si soffia sulla fiamma che qualcuno tenta sempre di spegnere dell’antifascismo, antirazzismo, la libertà del copyright e dei media indipendenti.

«Anacronistici ma violenti. Devastano le città, le vetrine dei negozi e quelle delle banche. Picchiano duro, infieriscono sui “nemici”, impediscono di parlare. Scendono in piazza rabbiosi, lanciano molotov e bombe-carta. Imbracciano mazze e danno fuoco alle auto. Picchiano i poliziotti nascondendo il volto dietro il passamontagna.Finiscono spesso sotto processo, ma non mollano. Riscendendo per le vie con la loro brutalità. Sono i “centri sociali” più pericolosi sparsi in tutta Italia che negli ultimi anni si sono resi protagonisti di inaudite violenze». Questo capolavoro di denigrazione è opera del quotidiano Il Tempo. Esempio perfetto di quanto in questi anni le mazze chiodate siano state usate – più che dai – sui centri sociali.

Oltre le campagne mediatiche e diffamatorie che da anni si sono intensificate, occorre adesso difendere gli spazi sociali di questo Paese, e non solo di questo Paese. «Loro li chiamano occupati, noi li chiamiamo liberati», ripete spesso il sindaco di Napoli che, al netto di ogni benaltrismo, su questo tema è riuscito a non trasformarsi in uno sceriffo, nonostante governi una grande città. Napoli è forse l’unica grande città d’Italia in cui gli spazi sociali non hanno subito persecuzione ma riconoscimento.

Rivendicare il diritto di esistenza dei centri sociali significa sì difendere uno o più luoghi fisici, ma anche e soprattutto difendere la possibilità di agire in modo alternativo e non subalterno al sistema dominante. Non subalterno allo stato di cose esistenti. Antagonista al sistema.

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