Verso il day after

12 / 7 / 2011

Come nella geniale invenzione di Ariadne auf Naxos di Hugo von Hofmannstahl e Richard Strauss due compagnie concorrenti recitano in simultanea, per venire incontro al pubblico, la tragedia di Arianna abbandonata e la farsa libertina di Zerbinetta, così sulla scena italiana attuale si esibisce una compagnia di guitti e allo stesso tempo si svolge il dramma della crisi globale e dei suoi effetti devastanti sulle politiche e le economie nazionali. Con tutti gli equivoci e le dissonanze che ne seguono. Prendiamo l’intervista di Pisanu al Corsera del 7 luglio, che si propone, niente meno, che di delineare il futuro dell’Italia e lo fa in modo non banale, definendo curiosamente il combinato delle recenti elezioni e dei referendum «un piccolo Sessantotto». Il suo problema è quello di «garantire la governabilità e afferrare il nuovo che avanza», senza di che «il Pdl è finito e ad Alfano non resterà che calare il sipario». Per tale obbiettivo, anzi per governare tout court l’Italia con o senza Pdl, occorre –sentite, sentite– «cogliere il "piccolo Sessantotto" delle urne e governare il cambiamento con un patto di fine legislatura per il bene del Paese». Cioè, fare insieme all’opposizione la manovra quadriennale da 50 miliardi, completare le riforme, tracciare le linee fondamentali del futuro d’Italia, dopo di che «tornare a essere avversari su posizioni alternative, secondo le naturali vocazioni».


Insomma, governo tecnico subito e poi di unità nazionale, associando la sinistra alla gestione di una crisi lunga e dolorosa, anzi offrendo così ad essa la possibilità di legittimarsi definitivamente sulla linea della responsabilità nazionale, in stile Togliatti e Berlinguer non Scilipoti e Romano. Anche il neo-moderato Di Pietro ci rientrerebbe bene, mentre Berlusconi o Bossi appaiono troppo bolliti. Il modello è quello offerto da sindacati e Confindustria con la firma dell’accordo “coraggioso” sulla rappresentanza e l’esigibilità dei contratti. Se ci sono riusciti loro, che rappresentano interessi di parte, perché non ci riuscirebbero anche i partiti, che dovrebbero rappresentare solo interessi generali? E tornando sul «piccolo Sessantotto», spiega che il centrosinistra ha vinto «a sua insaputa» (come le case gratuite di Scajola e Tremonti!), dato che il vento rinnovatore, come lo spirito, ha soffiato dove ha voluto, «sorprendendo tutti i partiti e travolgendo le stesse, vecchie nozioni di destra e sinistra», parole morte ormai. «La campagna elettorale l’hanno dominata altri soggetti, con altri mezzi e altri colori: i giovani, le donne, le associazioni, i gruppi occasionali, i social network, le parrocchie... Sono loro che hanno alzato il vento, ma non è stato un fenomeno improvviso, come una perturbazione meteorologica, una tromba d’aria. No, prima c’è stata una lenta accumulazione di sentimenti, idee e pulsioni nel seno della società civile e poi, al momento opportuno, si è scatenata la loro energia».


Perfetto. Il problema allora è come captare quel vento, quei giovani volenterosi e sprovveduti («rondini che annunciano la primavera»), soggetti da non deludere per non lasciarli scivolare «in una protesta violenta». Mettere quel vento nelle vele di una fuoriuscita borghese dalla crisi attuale. In termini classici: una rivoluzione passiva.


Nella formulazione gramsciana essa unisce analisi e strategia risolvendolo in un “rapporto di forze” sempre in movimento, ma in cui prevale l’egemonia di una di esse e produce trasformazione. La rivoluzione passiva surdetermina il conflitto sociale, lo mette al lavoro per la conservazione dell’egemonia borghese, producendo sviluppo, ma in modo che le classi subalterne trovino costantemente sbarrato il passaggio dal livello sociale dello scontro a quello politico. Formula la cui validità oltrepassa le connesse e in parte datate considerazioni sul passaggio della rivoluzione proletaria dalla guerra di movimento e quella di posizione, insomma tutta la problematica degli anni ’30, per arrivare a descrivere ogni situazione in cui il rinvio dello scontro frontale e l’assimilazione di segmenti dell’avversario consente, facendone proprie alcune rivendicazioni, di annientare politicamente l’antitesi, salvaguardandone certe ragioni sociali e rendendole subalterne, passive. Una strategia la cui forza consiste nel non essere compresa dall’antagonista. Il «piccolo Sessantotto» di Pisanu, all’insaputa della sinistra.


Peggio ancora, se quest’ultima assuma programmaticamente il processo passivo di trasformazione come attiva forma di politica. In tal caso, come fenomeno complementare e perdente, emergono anche fughe in avanti (o meglio all’indietro), incongrue citazioni di passate situazioni di scontro, evocazioni arbitrarie che si fondano su illusioni di malleabile passività delle masse, esempi di sovversivismo subalterno, “sporadico e disorganico” –per citare il gramsciano quaderno VIII.


A tale ambizioso progetto ostano due ordini di difficoltà. Gestire una rivoluzione passiva significa avere gli agenti adatti e controllare le condizioni per imbrigliare e dirottare i movimenti sovversivi. Significa possedere capacità egemoniche e confrontarsi con qualcuno che le ha perse.


Per il primo aspetto imbarazza lievemente confrontare i protagonisti delle grandi rivoluzioni passive del passato –Cesare, Napoleone, Giolitti, Ford– con i soggetti contemporanei che dovrebbero corrispondergli: Capezzone con i suoi amici biscazzieri, Brunetta con la sua Titti, il riservato Letta con il loquace Bisignani, Tremonti con il fido attendente Milanese, Casini in Caltagirone, D’Alema con i finanziatori solo “successivamente” inquisiti, Alfano con il partito degli “onesti”, ecc. Non gli regge la pompa. Certo, la sbatacchiata borghesia italiana è sempre pronta a crearsi un nuovo salvatore: rottamato Berlusconi e in palese difficoltà Tremonti da Sondrio, ora si affaccia Mario Monti quale aggancio stellare all’Europa. Come spiega Zerbinetta ad Arianna per consolarla: gli amori sono grandi amori totali, ma il bello è che se ne susseguono molti e ogni nuovo amore viene a me come un Dio, als ein Gott kam jeder gegangen...E vai così!


Il secondo aspetto è quello decisivo. Bisognerebbe accontentare i “subalterni” con concessioni economico-sociali e spogliarli di iniziativa politica. Ahimé, mancano i mezzi per la prima operazione (difficile pescare senza l’esca) e la seconda appare problematica. La precarizzazione ha portato sino in fondo la frammentazione delle classi tradizionali ed è pervenuta al punto in cui comincia a generare un effetto inverso di ricomposizione rabbiosa e consapevole, di indignazione ragionata e produttiva di istituzioni del comune. Elenchiamo semplicemente: lotte dei metalmeccanici e degli studenti, referendum e no-Tav, rivolta delle donne, movimenti sui beni comuni, occupazioni per difendere e diffondere la cultura, prime resistenzealla manovra di luglio.


Popolo e società sono stati dissolti e al loro posto emerge una moltitudine plurale e ribelle, un’illegalità di massa che pone nuove regole, indifferente alle prediche sulla non violenza e agli appelli militari, insorgente e non terrorista –a piazza del Popolo come a piazza Tahrir, in Val di Susa come nell’entroterra tunisino. Ogni distinzione, cara al Pd e al partito-Repubblica, fra simpatici valligiani e torvi black bloc, pimpanti studenti studiosi e agitatori dei centri sociali, ricercatori rampicanti e professionisti dei tumulti, signore per bene e donne indecorose, si rivela una ridicola copertura della violenza poliziesca e soprattutto una sottovalutazione del carattere dirompente dell’insofferenza di massa. L’hanno voluta per risparmiare sui costi di produzione e adesso se la tengano come variabile sociale indipendente, insolvente e minacciosa. Non si illudano che sia una forza mite o un’indignazione meramente correttiva. Chi è indignato vuole cambiare le regole, costruire istituzioni nuove del comune, dunque agisce anche sul terreno istituzionale per stravolgerne le passate compatibilità, visita le sedi del potere per prenderne le misure, usa il referendum e si aggira nei boschi piemontesi, sempre con le peggiori intenzioni, ma con accortezza e respiro lungo. Alla rivoluzione passiva, che è egemonia della finanza internazionale mascherata da sviluppo, imposizione selvaggia di vincoli dal debito sovrano in nome della “stabilità”, opponiamo il rifiuto dell’indebitamento e del peggioramento delle condizioni di vita, la semplice constatazione che la “rivoluzione”neoliberista ha toccato il suo limite e, come ogni marea, è entrata in una fase di riflusso. Non sarà né un piccolo docile Sessantotto né un qualsiasi improbabile revival di scene storiche, ma una dura battaglia per convertire l’apocalittica crisi globale in una catastrofe dei padroni e dei loro dispositivi finanziari di controllo biopolitico.



Leggi tutti gli articoli di Augusto Illuminati