Verso una "politica della cura": le trasformazioni dei movimenti sociali

Femminismi, Covid e Comunità. Riflessioni di cambiamento

29 / 3 / 2024

Si sta assistendo a un momento di particolare cambiamento nei luoghi di militanza, di cui è difficile fare un’analisi sistemica. Proveremo a esaminare alcune componenti, in particolare partendo dalla relazione tra l’impatto che ha avuto la quarta ondata femminista sui movimenti sociali e la crisi che il Covid-19 ha portato con sé.

Ci troviamo in un momento storico in cui non solo è presente una forte instabilità percepita sui piani più disparati dell’esistenza umana, ma in cui questa instabilità è sempre più evidenziata e “sentita” all’interno dell’interazione individuo-comunità-ambiente. Partendo dalla crisi climatica, l’imperversare di totalitarismi (più o meno nascosti) e tutte quelle disequità intrinseche al modello neoliberista (marginalizzazione economica, psicologica, fisica, etnica, di genere, etc.), oltre che gli effetti ancora evidenti della crisi pandemica, fanno emergere la necessità di ricostruire una pratica sociale di solidarietà e cura collettiva. La linea tra soggettività[1] a rischio e quelle fuori dalla zona di rischio si è infatti assottigliata ampiamente. Il virus[2] senza collaborazione reciproca si diffonde in modo esponenziale e rischia di arrivare ad un “tipping point”[3] da cui difficilmente si può fare marcia indietro, a cui probabilmente siamo già ben oltre, ma dove risulta necessario comprenderne le caratteristiche che lo hanno determinato, per destrutturarle e ricostruirle.

Fabienne Brugère nella prefazione del testo "L'etica della cura", sottolinea l'importanza vitale (e sempre più evidente) del "prendersi cura", non solo a livello relazionale e individuale, ma di una vera e propria trasformazione etica e politica che va oltre la struttura di esclusività che i livelli sopracitati portano con sé.

Il concetto del senso comune di disagio[4] è fortemente strutturato e sommerso sotto categorizzazioni individuali che raccolgono l’eredità delle politiche Tatcheriane e Reganiane degli anni 80. La performatività è anti-vulnerabilità, ma ciò che è vulnerabile è umano, le vittimizzazioni servono a "giustificare" le disparità, i giochi di potere e tutto ciò che è sintomo del complesso socio-culturale in cui orbitiamo, e da cui nemmeno le bolle di attivismo sono avulse, ma in cui il processo sta prendendo (lentamente) forma.

Come già riportato, ma con qualche appunto sui luoghi di militanza, il Covid-19 ha determinato una acutizzazione della crisi su un piano sistemico in cui si è osservata un’obbligatorietà nella ri-organizzazione degli spazi non solo statali e trans-statali, ma anche nelle pratiche sociali di lotta che costituiscono il fulcro degli ambienti di militanza.

È stato necessario (e continua ad esserlo) individuare le dinamiche di squilibri di potere che hanno determinato (e determinano) condizioni di prevaricazione e disuguaglianza, in cui difficilmente trovano spazio le individualità non canoniche[5]. Dinamiche che continuano a essere intrinseche di uno sfondo machista che si esemplifica, ad esempio, nell’idealizzazione del “militante di serie A” come quello con una struttura valoriale sicura, tipica di un indottrinamento superegoico verticalizzato.

Queste costituzioni rischiano di rimanere legate a pratiche che affondano nel tradizionalismo, in un'ottica di militanza che potremmo ritenere ormai fuori dalla storia, o comunque poco funzionale ai processi di soggettivazione e organizzazione contemporanei. Questa idea “tradizionalista” di militanza spesso si basa su un completo sbilanciamento valoriale, predeterminato e imposto da una fascia che detiene più potere all’interno delle bolle. Da questo scaturisce un’etica che obbliga alla moralità, al coraggio, alla disciplina, a subordinare la propria individualità (e collettività) per un’esigenza superiore, utilizzando come mezzo di relazione l’aggressività e la giustizia (tipiche della socializzazione maschile), l’opposto delle politiche dal basso.

Faccio un’altra precisazione: con questo non si vuole intendere che c’è una detenzione del potere scelta e perpetuata. In questi anni stiamo assistendo a una profonda messa in discussione di questo modello di lotta - chi si trova in posizioni di micropotere spesso è perché ha dedicato la propria essenza alla militanza -, è fondamentale che però questo potere venga condiviso, e così si costituisca una nuova idea di comunità. Sta nella dialettica tra le differenti forme di militanza il luogo dove creare le basi per nuovi modelli organizzativi, capaci di essere complessivi al loro interno e di comunicare in modo costante con il mondo esterno, al fine di influenzarlo e trasformarlo.

La militanza non è solo lotta pragmatica, è costruire un pensiero comune e comunitario, è fiducia reciproca, è vicinanza affettiva, è un movimento, e i movimenti sono: «l’emblema di quel processo rivoluzionario continuo attraverso il quale il capitale ha voluto imporre il proprio potere sulla vita – ma dove la vita ha violentemente espresso il suo rifiuto». E come tali i movimenti non possono rimanere ancorati al passato, devono compiere trasformazioni continue utili al carattere sistemico e di situazionarietà che le lotte portano con sé.

In tutto questo il concetto di “cura” è fondamentale quanto fondativo.

La cura è una politica di riconoscimento delle differenze e come tale i movimenti politici devono muoversi perché diventi il linguaggio quotidiano, i femminismi, se adottati nella loro totalità, servono a scardinare la zona più latente degli ambienti di militanza, quella che viene imposta come componente valoriate pre-esistente, perché strutturata su filosofie date per assolute e irremovibili. Il processo femminista parte proprio dalla necessità espressiva di tutte quelle voci soppresse dal dominio maschile, aggressivo ed escludente, difficilmente un luogo di lotta può definirsi come tale se reitera determinate caratteristiche della società moderna (senza strutturare e farne costituzione un linguaggio di critica costante a queste dinamiche).

La cura, inoltre, come i femminismi (anche se le due istanze sono direttamente sovrapponibili), risultano l'unico strumento per costruire una interdipendenza di lotte sempre più globalizzate, che come già detto, è uno dei caratteri che più risultano fondamentali nella politica moderna. Il Covid-19 ha velocizzato tutti i processi, le bolle di attivismo si sono dovute scontrare con le loro caratteristiche più strutturali e hanno attivato percorsi di mutualismo e solidarietà, sportelli di supporto e un sistema integrato a livello territoriale[6]. La cura è lo strumento che permette di disobbedire alla violenza del potere intersecandosi alla costruzione di spazi di libertà.

Trovando continuità nei processi di lotta possiamo fare un parallelismo «C’è la consapevolezza che la battaglia non si vince più solo in fabbrica: consapevolezza di enorme importanza quando spinge quei militanti operai che hanno conquistato prestigio e autorità nelle lotte a impegnarsi nel lavoro dei comitati dopo le otto ore di lavoro in fabbrica, a occupare i giorni di riposo nell’organizzazione» e allora sono proprio le donne che hanno il “privilegio” di avere questa consapevolezza a dover compiere continui processi di critica ai movimenti stessi, sono i "nuovi", la composizione giovanile che attraversa le lotte (cioè quella che ha più fluente il linguaggio tipico dell'emotività) deve prendersi carico di rifiutare e criticare attivamente tutto ciò che non è cura reciproca, perché “le idee non possono nascere dalla quiete della concordia” (Vassallo) e la cura "auspica la fine dell'idealizzazione di una morale maggioritaria imposta dal potere patriarcale" (Brugére).

Attenzione al prossimo, responsabilità, mutuo-aiuto; sono componenti permettono di ripensare agli spazi collettivi, in un'ottica relazionale e intersezionale, fuori da ogni ricerca e teorizzazione di oggettivizzare la morale, e fuori dalle dinamiche distruttive e alienanti che la struttura societaria ci impone.

Sostenere i bisogni reciproci, partendo proprio dalle relazioni tra persone, permette di rivedere e unificare le complessità della mutua dipendenza, permettendo la libera espressione dei linguaggi individuali e, quindi, facilitandone la co-costruzione di quelli collettivi, adoperando un pluralismo dei valori (Gilligan) veramente strutturati nel complesso sistemico in cui esistiamo.



[1]Intese anche come componenti collettive, ma “esclusive”

[2]E non intendo solo il Covid-19, intendo virus come il complesso sopracitato di rischio derivante dal sistema socio-economico in cui viviamo

[3]Utilizzo non a caso una parola derivante dal gergo delle scienze climatiche

[4]Componente che intrinsecamente costituisce sbilanciamenti di potere, perché determina un ambiente dove ci sono complessi di soggettività potenzialmente a rischio e altre non a rischio. I modelli valoriali e di vita della società capitalista e neoliberista, invece, determinano un rischio globalizzato, da cui nessun3 è avulso.

[5]Evidenze, ad esempio, nella svalutazione di persone che provano disagio, o impedenze, in luoghi di folla (abilismo) o l’esclusività riservata alle figure più “mascoline” delle prime linee nei conflitti più accesi

[6]Alcuni interventi del Nord-Est nel periodo di crisi Covid-19 consultabili qui