40 anni di Ezln. Metamorfosi della rebeldía

17 / 11 / 2023

Oggi l’EZLN compie quarant’anni. Il 17 novembre del 1983 in uno sperduto e selvaggio angolo della Selva Lacandona in Messico, cinque uomini e una donna, fondarono l’Ejército Zapatista de Liberación Nacional. Non fu un accadimento estemporaneo ma l’eruzione in superficie di un flusso storico che, come un corso d’acqua sotterraneo, ha costruito il suo cammino sottotraccia sino a trovare le condizioni per palesarsi e cambiare definitivamente la storia e il destino di migliaia di persone in Chiapas.  

Il Messico che tra la seconda metà degli anni ’70 e il decennio successivo si affaccia zelante alla globalizzazione è in realtà un paese pieno di contraddizioni ed al contempo segnato da una forte continuità con il passato. Un paese governato sin dal 1929 dal partito-stato Partido Revolucionario Intitucional (PRI) che rimarrà al potere sino al 2000, un paese segnato dalla corruzione e dalle diseguaglianze sociali che si rispecchiano nella composizione dell’élite di potere politico economica. 

La componente indigena della popolazione messicana è la più numerosa, in termini assoluti, rispetto alle altre nazioni del continente americano e questa composizione sociale è molto accentuata negli stati del sud del Messico, in particolare in Chiapas.

Il Chiapas è collocato all’estremo sud-est del paese, al confine con il Guatemala, un’area strategica per l’abbondanza di legname, per le risorse idriche ed i giacimenti di idrocarburi. Una ricchezza materiale che stride parecchio con l’indice di povertà più elevato dello stato federale messicano, che è ovviamente correlato alla popolazione indigena. 

Le comunità indigene del Chiapas, come nel resto del paese, sono rimaste di fatto completamente escluse dai pochi successi della rivoluzione messicana in termini di diritti, di miglioramento delle condizioni di vita, di redistribuzione e accesso alla terra. 

La rivoluzione ha completamente sorvolato questo stato senza intaccare minimamente l’oligarchia terriera che ha potuto aumentare progressivamente l’estensione dei propri latifondi sottraendo aree alle terre comunitarie. La carenza di terre da coltivare ha trasformato così migliaia di contadini indigeni in lavoratori salariati schiavizzati all’interno delle fincas (latifondi), legati al padrone ed alla terra a vita attraverso meccanismi di debito. Un giogo reso ancora più pesante dalla continuità tra la casta di latifondisti, il potere politico e le formazioni paramilitari utilizzate per la repressione.

Di fatto la popolazione indigena subiva il razzismo sistemico dello stato messicano. Questo si esprimeva materialmente attraverso l’assenza di alcun tipo di infrastruttura basilare come quella scolastica o sanitaria, e l’abbandono totale delle comunità e dei lavoratori indigeni ai soprusi ed alle violenze della classe dirigente, nella totale impunità giuridica.

Si può davvero, senza timore di esagerare, trovare una notevole continuità con l’epoca della “Conquista”. Il Chiapas tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 assomiglia a tutti gli effetti ad una finestra spazio-temporale sul XVI secolo.

Da parte sua la popolazione indigena e contadina del Chiapas iniziava negli stessi anni a sperimentare diverse forme di organizzazione e proliferarono così collettivi e leghe contadine sotto il benevolo appoggio della diocesi di San Cristobal, dove il vescovo Samuel Ruiz promuoveva la teologia della liberazione.

In questo contesto socioeconomico e culturale si inserì l’ultimo elemento che concorse alla formazione di quella particolare creatura sincretica che è l’EZLN. Giunsero infatti in Chiapas alcuni militanti appartenenti alle Fuerzas de Liberación Naciónal (FLN). Le FLN sono una formazione politico-militare di ispirazione marxista-leninista fondata nel 1969 a seguito del massacro di Tlatelolco compiuto dallo stato messicano.

Le FLN sono un’organizzazione nata in ambito urbano che si ispirava alle guerriglie di liberazione nazionale del Centro e Sudamerica e teorizzava l’ineluttabile abbandono della via pacifica in favore della lotta armata, che avrebbe condotto al sollevamento popolare, alla presa del potere e all’instaurazione di un governo socialista in Messico. Il nucleo iniziale era piuttosto ridotto, 15-20 individui, principalmente di classe media con una buona istruzione, con pochi operai e contadini e nessun indigeno. Il gruppo non si poneva l’obbiettivo di avviare l’insurrezione ma di strutturarsi con vari livelli e continuare a crescere in clandestinità, sviluppando la propria organizzazione militare per poter esser pronti ad agire una volta che l’occasione della sollevazione popolare si sarebbe presentata.

I militanti delle FLN, dunque, cominciarono ad interagire e stringere legami con il ridotto numero di indigeni “politicizzati” che storicamente aveva animato le organizzazioni contadine del Chiapas. Questo gruppo piuttosto esiguo, segnato dai fallimenti delle precedenti esperienze politiche e dalle numerose incarcerazioni, si era radicalizzato nella convinzione che non vi fosse ormai altra via che la lotta armata[1].

Iniziarono così assieme a pianificare la formazione di un esercito regolare, con la sua struttura di comando, le varie unità e reparti. Già in questa fase primordiale si manifesta una sostanziale diversità dalle altre guerriglie latinoamericane impostate sulla “teoria del focolaio”, che presupponeva l’impiego di formazioni guerrigliere di poche decine di uomini per dare avvio ad una sollevazione più ampia. Il riferimento militare più vicino dal punto di vista della sua struttura è piuttosto il Frente Sandinista de Liberación Nacional, quando portò a compimento la presa di numerose grandi città del Nicaragua verso la fine del ‘79.

Era necessario individuare un luogo dove avrebbero potuto addestrarsi di nascosto e dare avvio a questo ambizioso progetto, non vi era posto più indicato in Chiapas della Selva Lacandona. 

Un’estesa area di intricatissima e impenetrabile foresta pluviale dove non vi erano strade e all’interno della quale non vi accedevano né i funzionari del governo, né i paramilitari, né tantomeno l’esercito, nemmeno gli indigeni, a dirla tutta, vi si addentravano troppo a lungo considerandolo un territorio molto duro ed inospitale. 

Così, il 17 novembre di quarant’anni fa, il ristretto gruppo di sei persone, di cui tre indigeni e tre “meticci”, raccolse la sfida e si addentrò nella foresta. Protetto dalla fitta vegetazione il gruppo stabilì la propria base nell’accampamento dal nome emblematico “La Pesadilla” (L’Incubo) e fondò l’EZLN. 

La prima fase tra il 1983 ed il 1985 fu molto dura, il gruppo dovette apprendere a sopravvivere in totale autonomia nella foresta e rimase quasi completamente isolato, senza contatti con le comunità indigene e senza riceverne supporto logistico, anzi spesso venendo osteggiati poiché scambiati per ladri o contrabbandieri. Si attendeva che la rivoluzione scoppiasse in Messico per potervisi unire e dare il proprio contributo. La quotidianità trascorreva tra le necessità della sopravvivenza e l’auto-addestramento militare che avveniva su manuali di guerriglia e controguerriglia statunitensi e della Nato e attraverso lo studio dell’Ejército Libertador del Sur di Emiliano Zapata e della División del Norte di Pancho Villa. Da questi modelli venne mutuato l’organigramma del futuro esercito zapatista che prevedeva compagnie, brigate, battaglioni ma risultava quantomeno paradossale in relazione all’esiguo numero di dieci membri raggiunto dal gruppo nel gennaio del 1985, a poco più di un anno dalla sua formazione.

Furono anni di solitudine materiale e politica e le poche notizie che giungevano all’accampamento via radio descrivevano una realtà, a livello nazionale e a livello internazionale, che sembrava rendere sempre più complessa l’attuazione della rivoluzione accentuando così la percezione di isolamento.

Dopo il 1985 si aprì un nuovo capitolo. L’acutizzarsi della repressione governativa e delle violenze dei gruppi paramilitari, nonché l’aumento degli espropri, aggravarono ulteriormente la miseria delle comunità indigene che divennero sempre più propense ad intraprendere la via armata. I membri dell’EZLN, grazie all’intermediazione del gruppo indigeno “politicizzato”, poterono prendere i primi contatti con i capi delle comunità.

Grazie al rispetto guadagnato con gli anni di sopravvivenza nell’inospitale foresta, l’EZLN sviluppa quindi un tacito accordo con le comunità ed in cambio di addestramento militare e armi riceve finalmente supporto nella logistica e nell’approvvigionamento.

In breve tempo sempre più giovani indigeni si inoltrano nella Selva Lacandona salendo sulle montagne per diventare guerriglieri così, quando l’EZLN entra in contatto con le comunità, la componente indigena è già maggioritaria e agevola la comunicazione ed il dialogo fra i due mondi. La relazione tra i guerriglieri ed i villaggi si trasforma ben presto in un rapporto politico che darà avvio alla metamorfosi dell’EZLN. 

Inizia un processo di assorbimento e digestione del bagaglio politico militare marxista-leninista ortodosso che viene tradotto e adattato al portato storico ed alla realtà indigena contadina del Chiapas. È un cambiamento radicale nel segno della continuità, un ossimoro che descrive il processo di rieducazione vissuto inconsapevolmente dai primi membri dell’EZLN.

La convinzione dei guerriglieri di poter illuminare il fosco orizzonte delle vite dei contadini indigeni organizzandoli e guidandoli alla rivoluzione ed al fulgido avvenire, lasciò ben presto posto allo smarrimento ed alla consapevolezza che i propri schemi interpretativi non si adattavano alla realtà che stavano via via conoscendo. Non vi era un popolo inerme che languiva oppresso e silenzioso in attesa di un evento salvifico ma piuttosto dei popoli originari con un retaggio di resistenza secolare ai quali l’EZLN poteva fungere da braccio armato.

Andava ribaltata la prospettiva del maestro, si trattava di riconoscere la propria impreparazione, di mettersi in ascolto e di predisporsi ad apprendere piuttosto che ad insegnare. Questo cammino trasformerà in pochi anni l’EZLN da avanguardia rivoluzionaria ad esercito delle comunità indigene. Sarà questa la prima sconfitta subita dall’EZLN, come la definì l’allora Subcomandante Marcos. Una sconfitta che ne permise però la sopravvivenza e lo sviluppo evitando l’isolamento e la dissoluzione al punto che, tra l’89 ed il ’90, il numero di insurgentes (combattenti zapatisti) passò da poche centinaia a migliaia riempendo l’utopico organigramma ideato dai sei sognatori pochi anni prima. La lotta armata venne incorporata dal movimento indigeno in resistenza che prevedeva anche altre forme di azione e che ora aveva fatto proprio questo nascente esercito, lo aveva contaminato e posto sotto l’autorità delle comunità. 

Non si insorgeva per la presa del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato ma per l’abbattimento del sistema Partito-Stato, per la costruzione di una nazione realmente democratica dove vi fosse uno spazio politico per tutte le componenti sociali ed affinché i popoli originari potessero vedere riconosciute libertà, giustizia e democrazia.

L’EZLN diviene il “prodotto di 500 anni di lotta” poiché assorbe la secolare resistenza indigena alla colonizzazione e si fa carico delle storiche rivendicazioni agrarie della rivoluzione tradita di Emiliano Zapata. Nel gennaio 1993 si verifica l’ultimo passaggio formale di questo processo di assimilazione. Una consultazione avvenuta l’anno precedente in più di 400 comunità aveva decretato la volontà della maggioranza della popolazione di dare il via all’insurrezione ma aveva incontrato lo scetticismo dell’EZLN e le contrarietà dei membri cittadini delle FLN. Si stabilì che l’autorità decisionale che sino ad allora risiedeva nell’organizzazione politico-militare venisse ora sottoposta al processo democratico interno alle comunità indigene. Venne così creato il Comité Clandestino Revolucionario Indígena (CCRI), composto dai rappresentanti delle diverse zone ed etnie, al quale viene affidato ufficialmente il comando politico e militare dell’EZLN.

Le comunità avevano stabilito che la misura era colma, che la guerra era ormai l’unica alternativa ad un destino di morte e sofferenza. L’unico cammino rimasto per ottenere un’esistenza dignitosa. Avevano ribaltato completamente la prospettiva avanguardista del primo gruppo di guerriglieri e con un poetico capovolgimento di ruoli sono esse ad imporre la scelta delle armi a coloro che giunsero nella Selva Lacandona per guidarli alla rivoluzione e che ora sono titubanti.

C’era un anno per preparare un esercito popolare, pensato ed organizzato per operazioni in ambienti rurali dal carattere difensivo e di protezione, ad un’offensiva militare che mirava all’occupazione di centri urbani.

Così alle prime luci dell’alba del 1° gennaio 1994, proprio mentre il Messico celebrava il suo ingresso nel NAFTA (North American Free Trade Agreement) e il conseguente progresso che avrebbe lanciato il paese nell’olimpo del primo mondo, l’esercito zapatista insorge e occupa militarmente le quattro principali città del Chiapas dando avvio ad una fase di combattimenti che durerà per dodici giorni.

Questi indigeni incappucciati e la loro rivoluzione sembrerebbero ormai fuori tempo massimo, la caduta del Muro di Berlino ha ormai decretato la “fine della storia” ed il capitalismo neoliberista vittorioso segnerà il nuovo ed univoco corso per l’umanità. Ma come un rigurgito della colonizzazione che irrompe nella storia e ne stravolge il cammino, il levantamiento (insurrezione zapatista) sconvolge il Messico che riscopre una parte di paese dimenticato e ridotto all’oblio e restituisce un nuovo orizzonte al resto del mondo che languiva intorpidito.

Lo zapatismo che emerge nel gennaio del ’94, riflesso nella Primera Declaración de la Selva Lacandona, è un movimento che non è possibile categorizzare e che trae la propria forza dalla capacità di trovare una sintesi tra i valori patriottici, l’eredità della sinistra clandestina messicana degli anni ’60, la cultura indigena, le guerriglie centro e sudamericane ed i movimenti di liberazione nazionale. 

Il processo di rielaborazione di questi elementi non è tuttavia compiuto alla data dell’insurrezione ma prosegue e accompagna tutta l’esperienza zapatista sino ad oggi.

Dopo dodici giorni di combattimenti aperti le armi tacquero. Da allora l’EZLN non ha più combattuto formalmente contro le forze governative ma questo non significa che la violenza dello stato non si sia sistematicamente abbattuta sulle comunità zapatiste. La “fase del dialogo”, così denominata, si protrasse sino al 2001 quando venne votata una riforma costituzionale che tradiva gli accordi presi dalla commissione incaricata di mediare il dialogo con gli zapatisti (Accordi di San Andrés, 1996). Da allora l’EZLN prende atto che non vi sia alcuna possibilità di ottenere diritti per i popoli originari all’interno del sistema di potere corrotto messicano, il mal gobierno, come lo definiscono gli zapatisti. Nessun cambio reale per le comunità indigene sarebbe stato possibile se promosso dall’alto. Nel 2003 quindi inizia a strutturarsi la costruzione di una autonomia civile de facto e viene annunciata la nascita di cinque Caracoles (centri politico-amministrativi) presieduti dalle relative Giunte di Buon Governo che coordineranno i municipi autonomi costituiti dopo l’insurrezione. Queste svolte rispondono alla necessità di “iniziare a separare le questioni politico-militari dalle forme di organizzazione autonome e democratiche delle comunità zapatiste” poiché ci si era “…resi conto che l’EZLN con la sua componente politico-militare si stava arrogando decisioni che spettavano alle autorità democratiche o dette anche civili”[2]. In questi trent’anni dall’insurrezione, infatti, l’EZLN ha concentrato inenarrabili sforzi nella costruzione e sviluppo dell’organizzazione civile cercando di diminuire progressivamente l’ingerenza militare nel processo decisionale comunitario. Un cammino impervio, segnato da successi e fallimenti, costantemente ostacolato da carenze materiali e violenze sistemiche di esercito e paramilitari, che ha richiesto un immane dispiegamento di risorse ed energie a tutti gli aderenti all’organizzazione. Un cammino che però ha consentito di sviluppare un’amministrazione civile autonoma, una giustizia autonoma, un sistema educativo e di salute autonomi che garantiscono alle comunità zapatiste quanto viene negato loro dallo stato. Le pressanti contingenze della quotidianità non hanno mai spinto però l’EZLN a ripiegare in sé stesso, a restringere la propria prospettiva di lotta in termini nazionali o ancora peggio etnici. 

Questo viene espresso chiaramente nella Sexta Declaración de la Selva Lacandona, pubblicata nel 2005, con la quale si definiscono l’anticapitalismo e l’abbandono della via politica istituzionale e dei partiti, quali requisiti imprescindibili per tutte quelle organizzazioni che a livello nazionale ed internazionale vogliono creare rete dal basso e a sinistra. Con questo obiettivo sono stati organizzati negli anni a seguire numerosi incontri internazionali e seminari di riflessione critica che hanno favorito un continuo aggiornamento nell’analisi del sistema mondo contemporaneo, definendo una prospettiva di lotta comune per le resistenze nelle differenti geografie del mondo. L’idra capitalista, che ha molti volti ma un’unica anima predatrice, opera con modalità differenti ma lascia dietro di sé la medesima scia di morte, espropri, migrazioni, pandemie, ecosistemi distrutti, disuguaglianze, criminalità organizzata e corruzione. Una formula valida dal nord al sud globale che si applica a territori e comunità abbandonati agli interessi del capitale transnazionale. A questo proposito nel 2021 l’EZLN promulga la Declaración por la Vida annunciando per il medesimo anno il primo capitolo della relativa Gira por la Vida. Un viaggio attraverso i continenti, partendo dall’Europa, nel quale una delegazione di 177 delegate e delegati zapatisti ha incontrato i collettivi e le organizzazioni europee che condividono la prospettiva anticapitalista e l’impostazione internazionalista della lotta contro il capitalismo e per la vita.

Questo ultimo capitolo della storia zapatista è anche il più recente successo dell’organizzazione civile nata dall’EZLN, la quale è ben lungi dall’aver terminato la propria parabola ascendente. Mentre viene redatto questo testo, infatti, sono state pubblicate le prime parti di un comunicato che anticipa alcuni cambiamenti nell’ordinamento dell’amministrazione autonoma. Non è dato sapere quali siano i futuri sviluppi della resistenza zapatista in Messico, l’unica certezza è che questo cammino non si arresterà sino al compimento del destino dell’EZLN, la sua stessa dissoluzione, che potrà darsi quando finalmente non vi sarà più la necessità delle armi per difendere le comunità. 

Oggi, nel frattempo, celebriamo l’anniversario di una svolta storica iniziata quarant’anni fa a migliaia di chilometri dall’Europa. In una periferia dimenticata del mondo la storia muoveva lentamente i suoi ingranaggi per dare avvio ad una rivoluzione che procede al ritmo della lumaca (caracol) ma che, seppur lentamente, avanza inesorabilmente, attraversa gli oceani e invade continenti.

Ma qual è il senso di festeggiare oggi, qui in Italia, nel nord globale, questa ricorrenza? In che modo ci parla la storia dell’EZLN e cosa dovremmo trarre da questa esperienza così distante dalla nostra realtà, dalle nostre istanze, così diversa dalle nostre lotte?

Non si tratta sicuramente di importare un modello, di riprodurre un organigramma o di seguire un manuale della rebeldìa, si tratta piuttosto di cogliere nell’esperienza zapatista gli elementi che ne hanno determinato il successo e la longevità individuando una matrice universale che orienti le diverse pratiche di resistenza.

Uno di questi elementi è la necessità di adottare una prospettiva di lungo termine per le lotte nei nostri territori, di declinare il nostro ruolo come attori di un processo di resistenza che viene costruito oggi ma di cui non vedremo la fine e del cui successo finale non saremo protagonisti. La consapevolezza di stare costruendo un’alternativa migliore per qualcuno che non è ancora nato e che non conosceremo.

Un altro fattore mutuabile è l’importanza conferita all’analisi storica del sistema economico e culturale in cui siamo immersi, dei rapporti di forza da cui è caratterizzato e di come essi si sono costituiti. In questo modo risulta più semplice individuare le responsabilità delle scelte politiche che incidono sulle nostre quotidianità a livello locale, nazionale ed internazionale.

L’autonomia zapatista infine dimostra concretamente, qualora ce ne fosse bisogno, che lo Stato-Nazione non è l’unica forma di organizzazione possibile che una popolazione può darsi. Le comunità possono costruire organizzazione dal basso e a sinistra affrontando sul piano teorico e delle pratiche il superamento del modello di Stato basato su omogeneità linguistica, etnica e culturale all’interno di confini geografici definiti. È ovviamente una sfida che richiede una buona dose di follia e coraggio senza le quali però, come ci insegna la storia dell’EZLN, è impossibile mettersi in cammino verso l’utopia. 

È questa, dunque, l’eredità che ci consegnano questi quarant’anni di EZLN. Da questa parte dell’oceano abbiamo la responsabilità di raccoglierla e di immaginare e costruire nuovi cammini di rebeldia che rompano il giogo che opprime Slumil K’ajxemk’Op (terra indomita)[3]. La storia si muove, si tratta di continuare a spingerla.

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1 Yvon Le Bot, Subcomandante Marcos, El Sueño zapatista, Mexico, Plaza y Janés, 1997.

2 Sexta Declaración de la Selva Lacandona, giugno 2005: http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2005/06/30/sexta-declaracion-de-la-selva-lacandona/

3 Nome con il quale viene ribattezzata l’Europa all’arrivo a Vigo della delegazione marittima zapatista nel Giugno 2021.