«He’s not my president!». Le elezioni americane tra rabbia latente e razzismo

10 / 11 / 2016

«L’altra contraddizione, quella tra il capitalismo e le classi immiserite non contemporanee, […]spinge all’esterno il conflitto e lo rende poco affilato, diretto soltanto contro i sintomi, non contro il fulcro dello sfruttamento: il contenuto del conflitto è romanticamente, più o meno arcaicamente anticapitalista» 

E. Bloch, Non contemporaneità e l’obbligo alla sua dialettica

Al di là delle analisi più o meno concordi sull’interpretazione della vittoria di Trump, una reazione ha accomunato la maggior parte dell’opinione pubblica e dei media mondiale: il profondo stupore per la vittoria dell’Apprentice. Può far facilmente ridere se si pensa al netto distacco che ha segnato nei confronti dell’avversaria democratica Clinton; un segno che la narrazione mediatica mainstream, di concerto alle indicazioni della finanza e al sistema dei sondaggi su cui si basano milioni di dollari di scommesse anche sulle elezioni, è stata frutto di manipolazione, endorsement, ma soprattutto è stata colpevole di distacco dalla realtà. Perché lo sapevano bene quegli americani che l’hanno votato, provenienti da classi e posizioni geografiche differenti, che si stava andando incontro ad una competizione non scontata sui cui erano aperte varie possibilità.

Arrivati quasi al decimo anno di crisi il risultato perturbante delle elezioni americane ci dà uno spaccato della composizione di classe americana, delle sue trasformazioni e delle sue posizioni soggettive. Con una prevalenza del voto bianco (per quanto i cosiddetti Latinos non siano stati indifferenti), la working class delle aree rurali o dei centri urbani deindustrializzati, la classe media  e coloro che detengono un alto titolo della formazione, la maggioranza dei giovani hanno scelto l’immobiliarista newyorkese alla guida della Presidenza per i prossimi quattro anni. Basta vedere le statistiche per notare dove si è data questa pent-up anger, questa rabbia latente radicata nell’impoverimento economico, nella distruzione dei legami sociali e nell’impossibilità di partecipare alla decisionalità politica. Una disposizione soggettiva e collettiva che nasce attorno a questi nodi e all’immaginario legato al Partito Democratico, che soffre la crisi della rappresentanza dopo anni di matrimonio congiunto con il neoliberalismo e la globalizzazione.

I Democratici hanno completamente perso la loro base della working class e si sono completamente affidati al loro diretto soggetto di riferimenti, i liberali bianchi, nonché alla catalizzazione del voto delle minoranze (neri, latini, queer) e femminile. Il totale assorbimento neoliberale ha, difatti, rotto l’incantesimo per il quale si può diventare un Paese ricco ed egualitario semplicemente occupando il posto di locomotiva nel mondo a trazione finanziaria. Il sogno di egemonia americana, già infranto dall’assetto imperiale del mondo, ha perduto qualsiasi appeal scoperchiando all’interno le contraddizioni, il lato oscuro del primo posto in classifica nel mondo. E i cittadini americani se ne sono accorti, andando a contrapporsi anche a una visione della geopolitica mondiale, del ruolo degli Stati Uniti, appartenuta proprio a quella linea di continuità tra Clinton, Bush e Obama a cui ieri si è tolta legittimazione perché ritenuta responsabile della fase attuale che si sta vivendo. Hillary Clinton rappresenta agli occhi di una persona statunitense la linearità politica di chi ha perseverato nell’impoverire il Paese. Era ovvio che Clinton non corrispondeva a un’alternativa plausibile e che non avrebbe in alcun modo garantito la redistribuzione della ricchezza e promosso l’eguaglianza sostanziale. Dubbiosa, se non quasi utopica, l’affidamento a Clinton del voto per sperare di aprire immediatamente dopo una sua elezione spazi di agibilità politica, o di migliore negoziazione con il potere costituito.

Donald Trump, d’altra parte, è quel misto di retorica e carisma, figura popolare e affascinante, mito dell’uomo che si è fatto da solo, in completa rottura con l’apparato che si è succeduto al governo. Un’alternativa a destra alla miseria del presente. L’odio di classe che accoglie un linguaggio fortemente populista e anti-establishment filtrato attraverso le lenti del razzismo e del sessismo. Non è possibile vedere il voto a Trump soltanto in termini di classe o di provenienza geografica (città Vs. periferie); anche perché in molte città il voto è stato dato ai Repubblicani, così come le classi più basse hanno votato perlopiù Clinton. L’immobiliarista è un miscuglio che accomuna diverse classi e che coagula stereotipi e gerarchie che intrecciano tanto il genere quanto la razza; in particolare, per quest’ultimo aspetto, non si possono non considerare gli avvicinamenti ai gruppi organizzati e ai movimenti di estrema destra bianchi suprematisti e nazionalisti. La paura della perdita del privilegio simbolico e sociale, che porta con sé spesso anche quello materiale, produce risposte isolazioniste e che tendono a rivendicare una più equa distribuzione differenziale e ristretta della ricchezza e delle risorse simboliche. Eleggere Trump significa preferire tutto ciò che rappresenta al posto della tutela e della rivendicazione dei diritti delle minoranze etniche e di genere. Ma vuol dire anche chiusura degli spazi di movimento e di riconoscimento di questa soggettività. Vuol dire avere in mente un’idea di società che struttura e posiziona le persone su precise linee e innesca su queste basi lo sfruttamento, l’esclusione, la marginalizzazione.

I risultati delle elezioni del 2016 parlano chiaro: la sfiducia per il sistema economico e sociale deve puntare ad un futuro che, in qualche modo, risale ad un passato mitico. «Make America great again», tuona lo slogan della campagna repubblicana. Per liberarsi dal neoliberalismo bisogna assicurarsi, con nuove personalità e altre direzioni, il sogno americano, renderlo di nuovo vivo proiettandolo nel futuro. Un passato che era possibile perché c’era una ricchezza da condividere con pochi e che si otteneva con la protezione della forza-lavoro. Un futuro che elimina la paura della classe media di impoverirsi, di diventare working class. E’ anche la convergenza dei due immaginari che porta a non verticalizzare la rabbia e l’obiettivo politico per rivolgerli in senso orizzontale, non cogliendo la responsabilità contemporanea dell’oggi da attribuire al capitalismo finanziario. Chi prova a cambiare il presente, come fanno la moltitudine di movimenti statunitensi attivi prima, durante e oltre le elezioni, vedrà nelle condizioni sociali attuali degli ostacoli piuttosto che delle molle per riaprire più facilmente fasi e spazi di conflitto.

Molte cose sono state dette a caldo sulle elezioni. Sappiamo, tuttavia, che questa complessità appena accennata non può essere facilmente riassunta e non può essere esposta in una forma poco esaustiva. In particolare, se pensiamo che questi elementi stanno alla base per comprendere cosa effettivamente cambierà nella società statunitense e negli equilibri globali, su cui non si può fare al momento una previsione certa. Per questo motivo Global Project apre ad una serie di contributi di analisi del presente, al fine di cogliere ciò che è cambiato e ciò che cambierà. Con un punto fisso da mantenere: il segno del cambiamento sta ora più che mai nelle mani dei movimenti, dal BLM e ai movimenti femministi al FightFor15, fino ai comitati ambientalisti e indigeni, per trasformare capillarmente le nostre vite. I movimenti americani l’hanno già capito subito dopo il voto, marciando a New York verso al casa di Trump e occupando le piazze di tantissime città al grido di «He’s not my President!»