Il boom dei combustibili in Iraq peggiora la crisi idrica nel sud del Paese

L’inquinamento causato dalla pratica del gas flaring è un’altra fonte di preoccupazione nel sud del paese, estremamente ricco di petrolio ma anche colpito da una grave siccità

22 / 7 / 2023

L’inquinamento causato dalla pratica del gas flaring – la combustione di gas fossile associata all’estrazione di petrolio – è un’altra fonte di preoccupazione nel sud del paese, estremamente ricco di petrolio ma anche colpito da una grave siccità. Articolo di Sara Manisera e Daniela Sala, pubblicato su The Guardian; traduzione Miriam Viscusi.

Le compagnie petrolifere occidentali stanno esacerbando la crisi idrica e l’inquinamento in Iraq nella corsa al profitto dopo l’aumento dei prezzi dei combustibili causato dall’invasione russa in Ucraina.

La scarsità d’acqua ha già sfollato migliaia di persone e aumentato l’instabilità, secondo molti esperti internazionali, mentre l’Iraq si trova al quinto posto tra le nazioni più vulnerabili al cambiamento climatico secondo l’ONU. Nel sud del Paese, ricco di petrolio ma altrettanto colpito dalla siccità, le paludi che un tempo nutrivano intere comunità adesso sono solo dei canali fangosi.

Mahdi Mutir, 57 anni, è stato un pescatore per tutta la vita. Per anni lui e sua moglie si svegliavano al crepuscolo e salpavano su un sottile percorso fatto di canali ad Al Khora, qualche chilometro al nord di Basra. Il raccolto era povero, ma ancora abbastanza per nutrire una famiglia di sette persone.

Tutto questo è cambiato l’anno scorso. Adesso, nel picco della stagione delle piogge, la barca di Mutir giace incagliata nel fango.

«È la water station acquistata dalla compagnia italiana: hanno bisogno di acqua per i loro giacimenti» dice Mutir, indicando la nera colonna di fumo che sale nell’orizzonte, da Zubayr.

Per supportare l’estrazione del petrolio, le compagnie devono pompare grandi quantità d’acqua nel terreno. Per ogni barile di petrolio, molti dei quali sono poi esportati in Europa, vengono pompati fino a tre barili d’acqua nel terreno. E mentre le esportazioni di petrolio iracheno aumentano, le sue risorse d’acqua calano drasticamente.

La compagnia italiana a cui si riferisce Mutir è ENI, la multinazionale presente in Iraq dal 2009. Analisi delle immagini satellitari mostrano come negli anni, una piccola diga, costruita proprio da Eni per direzionare l’acqua dal canale di Basra ai suoi impianti di trattamento dell’acqua, sta impedendo le inondazioni stagionali nella zona dove Mutir svolgeva la sua attività di pesca.

Un altro impianto nei pressi è utilizzato da compagnie come BP e ExxonMobil e costituisce il 25% del consumo giornaliero di acqua in una regione dove vivono circa 5 milioni di persone.

L’impianto di Qarmat Ali, a cinque miglia a sud di quello di Eni, è gestito da Rumaila Operating Organisation (ROO), formata da BP, PetroChina e la South Oil Company of Iraq. L’acqua arriva agli impianti direttamente dal canale di Abd Abdullah, che direziona l’acqua da un fiume prima che arrivi a Shatt al-Arab, il fiume originato dalla confluenza di Tigri ed Eufrate e la maggiore fonte di acqua per Basra.

In una dichiarazione Eni ha affermato di non utilizzare acqua fresca, ma solo acqua salata e inquinata e quindi non utilizzabile per altri scopi. Ma il Guardian ha visto sul campo e attraverso immagini satellitari come l’acqua che dai canali arriva a Qarmat Ali e all’impianto in costruzione di Al Khora si unisce a un paio di chilometri a sud dai due impianti in un impianto di trattamento dell’acqua che fornisce il 35% dell’acqua delle case di Basra.

La crisi idrica dell’Iraq è stata ben documentata. Nel 2012, la statunitense EIA (Energy Information Administration), riportava che il bisogno di acqua legato allo sfruttamento petrolifero nel Paese sarebbe aumentato di dieci volte. Senza alternative, affermava EIA, «l’acqua verrà presa dagli acquedotti locali, in competizione con le necessità dell’agricoltura e del consumo domestico».

Nonostante questi avvertimenti, poco è stato fatto. Nel 2018, un’acuta crisi idrica ha portato a proteste violente e 118mila persone sono state finite in ospedale. I dimostranti hanno tirato bombe agli edifici governativi e le forze di sicurezza hanno risposto con munizioni, provocando almeno cinque morti.

«Nel complesso il volume di acqua richiesto non è enorme, ma in zone già al limite può causare dei problemi» ha detto Robert Mills, capo esecutivo di Qamar Energy, un organo di consulenza indipendente, autore di un report del 2018 sui bisogni idrici dell’Iraq. «In Basra, che ha dei terribili problemi di questo tipo, le compagnie petrolifere devono trovare alternative all’acqua corrente».

Le alternative esistono. In Arabia Saudita, un Paese vicino dell’Iraq e con simili problemi, ma anche la terza riserva petrolifera del mondo, l’acqua per i pompaggi nel terreno è prelevata dal mare. In Iraq si discute da diversi anni di progetti simili, ma niente finora è stato fatto: «Il ministero del petrolio non ha abbastanza budget, e le compagnie esterne non vogliono pagarlo» dice Mills.

Iraq ha più che duplicato la sua produzione di greggio nel decennio 2009-2019, e la sua produzione è ancora aumentata dall’invasione russa in Ucraina nel 2022. Quell’anno, le esportazioni dall’Iraq all’Europa sono aumentate di quasi il 40%.

L’anno scorso, le compagnie petrolifere hanno registrato profitti inauditi. Eni ha raddoppiato i risultati del 2021, raggiungendo 17.9 miliardi di sterline, mentre BP, Exxon e Total Energies hanno registrato i più alti profitti degli ultimi anni.

L’Iraq, però, non ha visto una crescita simile. «Gli indici di sviluppo del paese sembrano quelli di una nazione a basso reddito» affermava la Banca Mondiale in un report del 2022.

«Contrariamente ad altri Paesi in cui operano, in Iraq le compagnie petrolifere non fanno nulla per limitare i danni ambientali: per loro è semplicemente più economico continuare a inquinare», dice Walid al-Hamid, capo dell’agenzia ambientale nel sud dell’Iraq. Il suo dipartimento ispeziona i giacimenti e impone sanzioni per i danni ambientali.

In un documento visionato dal The Guardian, Eni e BP risultano tra le compagnie multate. Eppure molte di queste sanzioni, dice Hamid, non sono mai state pagate.

Il gas flaring – la pratica di bruciare il gas naturale associata all’estrazione del petrolio – è un’altra grossa fonte di preoccupazione. Nel 2018, il gas bruciato nel raggio di 70 chilometri da Basra ha superato il totale del volume di gas di Arabia Saudita, Cina, Canada e India.

Solo a Zubair, lo scorso anno sono stati bruciati 2.5 miliardi cubi di gas, secondo dati della Banca Mondiale, nonostante le dichiarazioni di Eni nel suo report annuale del 2021 di essere responsabile di meno della metà dei dati mondiali.

Eni ha dichiarato che, anche se è a capo del consorzio di compagnie operanti a Zubair, non è l’operatore e «non ha il controllo delle strategie messe in campo, o non è responsabile del flaring, di cui è a capo la Basra Oil Company». Eni ha anche dichiarato che non è responsabile delle multe riscosse dall’agenzia ambientale, e che queste devono essere pagate da Basra Oil Company che opera sul campo in questione.

I termini del contratto, ha aggiunto la compagnia italiana, «rimuovono esplicitamente ogni responsabilità per il flaring, per la riduzione di progetti di flaring e per meccanismi di compensazione alle comunità locali».

Anche BP ha affermato di non essere responsabile per le multe, e che le operazioni sul campo erano gestite dalla Rumaila Operating Organisation, una compagnia di cui detiene il 47,6%.

Immagine di copertina: GregReese.