Il nuovo libro di Cristina Morini

Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo

12 / 7 / 2010

Con il cortese consenso di Ombre Corte pubblichiamo la Prefazione di Judith Revel

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Qual è oggi la rete di rapporti di potere, di pratiche e di discorsi che attraversa le donne? A questa domanda, il femminismo “storico” ha tentato di rispondere allo stesso tempo con la diagnosi di una situazione – nel tempo e nel mondo – di cui si trattava di produrre la critica, e con la sperimentazione di spazi di autodeterminazione, di soggettivazione individuale e collettiva e di invenzione di modi di vita altri. Spesso tuttavia, più di quarant’anni dopo quel ’68 che ha effettivamente visto la presa di parola (per usare la bella espressione di Michel de Certeau) di tutta una serie di soggetti che ne erano finora rimasti privi, di quella tripla esperienza di diagnosi, critica e soggettivazione è rimasta solo il ricordo. Nei casi migliori, ci si ricorda il periodo eroico con una certa nostalgia e/o con la consapevolezza dovuta dell’enorme debito che le generazioni successive – la mia, per esempio – possiedono nei confronti di quelle che hanno lottato per strappare conquiste grazie alle quali figlie e nipoti hanno costruito il loro supplemento di libertà. Nei casi migliori, dunque, si ha memoria. Eppure, in molti casi, la memoria è stata persa; o per dirlo in modo più preciso, sembra che il senso del tempo, la consapevolezza storica che tanto era stata importante nelle lotte delle donne, sia svanita. Questa progressiva dimenticanza della radice diagnostica del femminismo – vale a dire: del fatto che non si può produrre critica se non a partire da un lavoro di indagine, di storicizzazione, di periodizzazione, e di messa in situazione della propria attualità – ha partorito strani discorsi: essenzialismi a-storici, discorsi di genere privi di ogni riferimenti all’attualità, ripiegamenti identitari, separatismi di principio senza scopo strategico, esaltazioni della sfera del privato o di quello che si percepiva come tale (gli affetti, le relazioni), o al contrario del pubblico (parità legale, stato di diritto) come unico orizzonte possibile di pratiche ormai senza luogo e senza tempo. Non si tratta ovviamente di dire che nulla è valso la pena, né di bollare la cartografia odierna dei femminismi, in Italia come altrove. Si tratta semplicemente di individuare un problema che hanno più generalmente i movimenti in questo inizio di nuovo millennio: la strana tendenza a ridurre le lotte alla riproduzione (o alla mera reificazione) di un passato che non passa più; oppure – ed è forse questa la difficoltà maggiore – l’impossibilità a riprendere al contempo il lavoro della critica e quello della sperimentazione, l’analisi dell’oggi e la volontà di cambiamento, le lotte e la soggettivazione.

Ci si arena. Ci si blocca. Le rincorse – per farsi coraggio, più che per reale necessità di acquisire forza cinetica – si fanno sempre più lunghe: se non riusciamo più a fare politica e a cambiare ciò che ormai ci spetta, e che ovviamente non è molto, è senz’altro perché l’immaginario stesso che abbiamo del cambiamento va cambiato! Come a dire: il problema non è la paralisi, il problema è il colore o il taglio del pigiama che vestiamo da paralitiche. Si potrà così risalire all’infinito, in un crescendo di ansia (legittima) e di immobilità (politicamente meno facile da ammettere): e se, per cambiare, cambiassimo l’immaginario dell’immaginario del cambiamento? Insomma non se ne esce. Intanto il mondo, lui, cambia davvero, e pure molto in fretta, e noi ne siamo doppiamente tagliate fuori: da una parte perché non vi abbiamo autonomia né autodeterminazione, e perfino le conquiste delle nostre madri sono oggi pesantemente rimesse in discussione; dall’altra perché non siamo neanche più in grado di leggerlo. Prima ancora di essere estranee al mondo, è il mondo che molto spesso ci è diventato estraneo.

In quel contesto non proprio ridente – ci sarà perdonato il pessimismo di fondo: esistono certo situazioni, gruppi e sperimentazioni formidabili oggi, in Italia come altrove, e non vogliamo sottovalutarlo; ma la tendenza ci sembra generalmente un’incapacità a stare all’altezza dei tempi –, il libro di Cristina Morini, che riprende, concentra e presenta il risultato di un decennio di sperimentazioni, pratiche e analisi, e che prospetta altrettante inchieste a venire, è una vera e propria boccata di ossigeno. Perché parla sì il linguaggio delle donne, ma, per poterlo fare, parla innanzitutto il linguaggio della politica. Forse questa è la prima specificità che va riconosciuta all’insieme dei testi, che spazia dalla biopolitica alla bioeconomia, dalla precarietà al care, dall’intercultura alla sessualità, dai corpi al tempo, dalla produzione alla riproduzione, dal mutamento del paradigma del lavoro al problema della misura del valore-lavoro, dallo sfruttamento della vita alle esperienze di riappropriazione di tutto quello di cui si è precisamente stati/e espropriati/e.

Scriviamo volontariamente “di cui si è precisamente stati/e espropriati/e”, mantenendo la doppia desinenza. Perché anche questo è assolutamente rimarchevole in Cristina Morini, fin dalle prime righe dell’introduzione: la condizione delle donne non può essere interpretata che all’interno di quello che è oggi l’insieme dei dispositivi di assoggettamento e di sfruttamento, di controllo e di espropriazione in atto, vale a dire nel quadro generale di una razionalità politica che caratterizza la nostra epoca. Questo non significa che non vi sia una differente condizione fatta alle donne. Significa semplicemente che se non ci poniamo il problema della descrizione e della comprensione di tale razionalità, non possiamo pretendere di rendere conto dei suoi effetti, anche nelle modalità con le quali si applica alle donne. Ora, precisamente perché Cristina Morini analizza questa nuova razionalità – una nuova economia politica fondata non solo sulla messa al lavoro della vita in generale (una “bioeconomia”, per riprendere il termine coniato con estrema giustezza in lavori precedenti insieme ad Andrea Fumagalli) ma sullo spostamento del baricentro della produzione dall’economia dei beni materiali alla sempre più centrale mobilitazione delle risorse cognitive, linguistiche, affettive, cooperative, sociali nella produzione stessa –, si rende conto di un fenomeno allo stesso tempo banale e nuovo. La femminilizzazione del lavoro, e più generalmente la femminilizzazione di una bioeconomia fondata sull’espropriazione della produttività della vita che eccede di gran lunga la mera sfera del lavoro, non è solo (e a volte non è per affatto) il nome di un fenomeno che implicherebbe l’ingresso massiccio delle donne sul mercato del lavoro o più generalmente nella sfera della produzione. Lo è stato storicamente, e forse lo è ancora in parte; ma è anche il nome di una estensione paurosa delle condizioni di sfruttamento e di assoggettamento storicamente fatte alle donne all’intera sfera della produzione. In altre parole: laddove, storicamente, la condizione delle donne era quella di una esclusione (dalle forme della decisione politica, dalla quella che si considerava la produzione economica, dalle figure del lavoro salariato); laddove, dunque, le lotte delle donne hanno cercato (e spesso, alla fine, ottenuto) una inclusione – ovviamente spesso parziale, discriminante, instabile – percepita come rivalsa; laddove, insomma, si è trattato di entrare in un mondo di cui si faceva parte solo ai margini, oggi sembra, al contrario, che la condizione fatta storicamente alle donne sia diventata la misura di sfruttamento di tutti, il paradigma generale della messa al lavoro della vita, uomini compresi. In quella estensione, ovviamente, la donna è votata a una “doppia pena”: se prima era discriminata come donna, oggi – che perfino i maschi vengono “amministrati”, gestiti e sfruttati come lo sono state le donne – lo è due volte di più, come quella sotto-figura che viene respinta ai margini della propria condizione. Se una volta le donne erano escluse come donne, oggi vengono escluse perfino dalle figure storiche del loro sfruttamento.

Di questa femminilizzazione diventata paradigma generale (corredata, ancora una volta, da un relativo declassamento delle donne al suo interno, essendoe la donna diventata la “variante” più bassa del divenire-donna del lavoro), Cristina Morini elenca le caratteristiche a partire da una dimensione d’inchiesta che riappare in permanenza dietro al testo, e che permette alla lettura sociologica e economica della realtà di essere sempre, comunque, intrecciata con una lettura politica. Sovrapposizione ormai totale tra tempo di lavoro e tempo di vita, indistinzione tra produzione e riproduzione, centralità sempre più accertata del lavoro di cura, precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro salariato, integrazione dentro il lavoro salariato di forme di produzione non retribuite e che eccedono ovviamente il tempo di lavoro, difficoltà a mantenere spazi di autodeterminazione, di soggettivazione e di messa in comune delle esperienze, impossibilità quasi totale a mantenere un senso prospettico, aperto, del proprio tempo di vita, ecc. Ognuno/a riconoscerà in questo elenco non esaustivo frammenti di vita, grumi di sofferenza, nodi irrisolti.

Si impone allora un problema. Il problema. Significa forse che in quel divenire-donna generale del mondo, le donne hanno perso la loro specificità, che sono dunque diventate – politicamente: è questa l’unica dimensione che vogliamo prendere in considerazione – una delle tante facce dello sfruttamento odierno?

Si e no. La generalizzazione della loro condizione a tutti – a cominciare dall’emergere di questa economia del care oggi centrale, alla quale Cristina Morini dedica pagine appassionanti – significa storicamente un riposizionamento delle lotte delle donne su un orizzonte nuovo: come lottare da precaria se non con i precari? Come rivendicare un reddito di vita se non con tutti quelli la cui vita viene effettivamente saccheggiata e espropriata dal capitale? Come denunciare l’insufficienza della difesa meramente lavorista degli sfruttati, se non insieme a tutti coloro che producono – e che vengono espropriati da tale produzione – al di fuori dalla sfera del lavoro salariato? Insomma: significa non temere di aprire la propria differenza storica ad altre determinazioni, ad altre contraddizioni. O più semplicemente ancora: non temere di ripensare tale differenza, perché non esiste differenza che non sia il prodotto di una storia – e che la storia, per definizione, cambia. A meno di voler fare della differenza femminile un’essenza, un’identità, una foglia di fico per non vedere il mondo che muta, un privilegio esorbitante o un commercio accademico che giustifichi ogni piccolo potentato (e altrettanti piccoli meccanismi di gerarchizzazione, piccole baronie, piccoli assoggettamenti delle “figlie” alle loro grandi “madri”, piccole normatività imposte, ecc. – banalmente: rapporti di potere belli e buoni sulla base di posizioni di sapere, di capitale sociale e di differenza generazionale) – a meno, dunque, di voler fare della differenza un feticcio, dobbiamo ribadirlo: la differenza delle donne – in un primo tempo subita, poi rovesciata come un calzino e agita, strategicamente costruita, politicamente usata – non può essere pensata in generale. Essa deve sempre essere collocata in situazione, all’interno di un contesto di cui non si escludono né le altre contraddizioni (una fra tutte: i rapporti di classe, che a loro volta devono essere ridefiniti in permanenza), nei gli altri nodi. La differenza in sé non esiste: si costruisce a partire dalla cartografia e dalla diagnosi politica di quello che essa è in un dato momento e in un dato luogo. La differenza va prodotta, reinventata.

La domanda diventa a questo punto: nel contesto descritto, quali sono gli spazi di sperimentazione possibili di tale differenza? In quale modo (e in quale misura) le donne possono parlare in quanto donne? Qual è il sapere (dello sfruttamento, dell’assoggettamento, ma anche delle resistenze, delle strategie, della sottrazione o dell’attacco) che le donne sono oggi capaci di offrire a tutti in nome di una storia che le ha viste, prima di ogni altro soggetto, allo stesso tempo espulse e saccheggiate dal potere? E, al contrario, su quali linee di ricomposizione (mutevole, cangiante, ogni volta da ridefinire) le donne possono costruire la propria differenza storica e politica attuale con quella di altri, meticciare la differenza femminile con la differenza di colore o di classe, costruire comune (nelle rivendicazioni, nelle lotte, nell’antagonismo) a partire da singolarità (di esperienze), inventare incroci e incontri, tessere con altri e altre il valore differenziale delle differenze – vale a dire l’idea che il valore politico delle differenze vale solo se le differenze accettano ogni tanto di differire da se stesse?

Il bel capitolo finale del libro – su cura, reddito e istituzioni del comune – da questo punto di vista è l’illustrazione notevole di un tale interrogarsi. Il far valere la propria differenza storica apre prospettive a tutti, perché il generale divenire-donna del lavoro (in particolare attraverso la valorizzazione economica del care e della cooperazione) e la richiesta di considerazione – e di pagamento – della produttività della vita (il reddito) non possono non sfociare in una prospettiva in cui è il comune (il comune delle differenze in quanto differenze) a dare nome e visibilità all’insieme delle lotte e degli spazi di soggettivazione riconquistati.

Come a dire: le donne possiedono un’antica sapienza delle lotte. Devono solo reinvestire nel presente quella memoria, mettendo in gioco le loro certezze, abbandonando le loro pretese identitarie, dandosi all’attività diagnostica nel mondo in generale, lanciando inchieste, individuando punti di forza, linee di frattura, dispositivi di controllo, spazi di soggettivazione, per far valere finalmente una differenza potente – non quella che si ha ma quella che si costruisce, e che, di volta in volta, con o senza altre differenze, nell’accumulo e nella sedimentazione di esperienze di liberazione (necessaria ma non sufficiente) e di libertà (intransitiva), si rilancia più lontano.