“Intersezione e rabbia”: un dibattito per capire presente e passato

Un commento al dibatto tenutosi a Sherbooks Winter Festival con Franco Palazzi, Ilaria Leccardi e Mackda Ghebremariam Tesfaù

10 / 2 / 2022

Allo Sherbooks Winter Festival ’22, il 29 Gennaio, ho assistito al dibattito dal titolo “Intersezioni e rabbia” tra Franco Palazzi (ricercatore di Filosofia all’Università di Essex), Ilaria Leccardi (giornalista, autrice e fondatrice di Capovolte Edizioni) e Mackda Ghebremariam Tesfaù (docente presso Stanford Florence e presso lo IUAV di Venezia, traduttrice ed autrice). Moderatrice: Rossella Puca.

Sembrava azzardato riunire sullo stesso palco relatori così eterogenei per affrontare un tema come quello suggerito dal titolo del dibattito, partendo da due libri - il primo La politica della rabbia: per una balistica filosofica scritto da Franco Palazzi ed il secondo Memorie della piantagione di Grada Kilomba e tradotto da Mackda Ghebremariam Tesfaù e Marie Moïse - che hanno solo in parte punti d'incontro. Invece è inutile negare che il dialogo tra figure diverse quali un filosofo, un'editrice e una traduttrice, sia stato stimolante e mi abbia permesso di guardare fenomeni complessi da prospettive differenti.

“Memorie della piantagione” racconta di episodi di razzismo quotidiani inquadrati in una prospettiva inusuale: quella psicologica. Tale testo infatti prende vita da una tesi di dottorato in psicologia che spiega il razzismo con gli strumenti della psicanalisi. La tesi parte dall’assunto che il razzismo sia un trauma che ha la sua origine nel colonialismo, di cui la piantagione è una delle espressioni tipiche. In particolare determinate relazioni di potere che sono nate nella piantagione continuano a riprodursi ancora oggi. Infatti i meccanismi che portarono a razzializzare le persone sono ancora molto presenti nella società contemporanea. La memoria della piantagione ha una doppia accezione: la prima andare all’origine di un trauma per poterlo decostruire; la seconda è una rivendicazione di connessione dell’esperienza attuale delle “vite nere” che storicamente sono state unite nell’essere schiavizzate. 

Passando al secondo libro, un saggio filosofico, è interessante notare come nel titolo vengano affiancati due saperi: la filosofia, disciplina teorica per eccellenza con una nobile tradizione del pensiero (elemento teorico); e la balistica, una tecnica che studia la fisica del movimento dei proiettili e che non sembra avere nessuna dignità nel campo del sapere (elemento tecnico). L’accostamento rispecchia la convinzione dell’autore che per esserci una buona teoria politica bisogna partire da una buona prassi politica. Contrariamente il discorso politico rimarrebbe astratto e inconcludente. L’obiettivo è di far dialogare discipline che sembrano distanti per affrontare il tema della rabbia, affermando il primato della prassi sulla teoria. Bisogna partire dalla prassi politica per arrivare ad un elemento teorico. Dalle singole istanze pratiche si ricavano delle lezioni che potranno essere applicate in altri contesti, creando alleanze tra lotte che sembrano distanti ma hanno in realtà elementi in comune.

I libri, singolarmente considerati, chiaramente aprono di per sé la porta a questioni complesse e degne di ore di discussioni e lezioni ad esse dedicate. Ma partendo dal fil rouge dell’intersezione, che lega i due libri, ci si è chiesti se i soggetti subalterni possano prendere parola e mediante il linguaggio liberarsi dalle oppressioni. Una domanda già posta nel famoso saggio di Gayatri Chakravorty Spivak Can the subaltern speak?, alla quale la filosofa dava una risposta negativa.

Secondo il pensiero di Grada Kilomba i subalterni invece possono parlare, ma il problema è che non vengono ascoltati. Ciò succede perché non vi è una relazione duale tra la parola e la non parola, ma ci si trova davanti ad una tripartizione: parola, ascolto e silenzio. Senza l’ascolto la parola non si può dare. E dunque le subalterne possono parlare, ma chi si trova in una situazione di egemonia non ascolta ed anzi silenzia attivamente tali voci. Ed è un enorme problema perché ritrovarsi in spazi che non permettono di essere ascoltati ed anzi depotenziano le voci delle subalterne porta all’eliminazione di spazi di enunciazione.

Franco Palazzi ritiene che l’affermazione di Spivak non si debba intendere come un’impossibilità degli oppressi di parlare, quanto che quel discorso non verrà compreso. Anzi verrà derubricato perché la voce dei subalterni non è riconosciuta alla pari degli oppressori. Per scardinare questo impasse una delle strade percorribili è quella ipotizzata da Audrey Lorde: la rabbia, ovvero una dichiarazione di rottura la quale porta ad un'azione che mette in discussione lo status quo. Costringe gli oppressori a comprendere, volenti o nolenti, quello che è il messaggio dei subalterni che non potrebbe essere compreso nella normale dialettica.

E dunque si arriva al secondo caposaldo del dibattito: la rabbia. È stato molto interessante capire come un sentimento solipsistico possa e debba divenire collettivo e trovare uno spazio sociale dove riversarsi. Partendo dall’esempio dalla performance femminista Un violador en tu camino, ideata dal collettivo cileno Las Tesis e diventata virale in tutto il mondo, Ilaria Leccardi spiega come si possa dar vita a movimenti che abbiano al loro interno una radicalità, ma anche una dimensione di massa. L’inno in questione, nato in una piazza cilena, è poi stato riprodotto in altre centinaia di piazze nel mondo ed ha dato voce a una rabbia comune contro la violenza patriarcale e l’invisibilizzazione che le donne subiscono. A dimostrazione di come partendo da un piccolo evento, che ha avuto la capacità di interpretare un sentimento di rabbia condiviso, si riesca ad ottenere una risonanza enorme.

Credo che il punto più importante sia stato toccato quando ci si è interrogati sulla delegittimazione dello strumento della rabbia, e più specificatamente se ciò possa minare dall’interno questi movimenti o al contrario finisca per rafforzarli proprio per il fatto che c’è una contrapposizione chiara con il potere istituzionale. Mackda Ghebremariam Tesfaù fa notare come il diritto alla rabbia sia sempre stato negato alle donne e alle persone razzializzate, le quali non possono esprimere il dolore per le discriminazioni con violenza per non risultare devianti rispetto una normativitá razziale e di genere.

L'emblema del mettere un freno alla rabbia legittima è la "politica della rispettabilità”. Si tratta di una pratica sorta tra gli afroamerciani negli anni '60, durante i movimenti per i diritti civili in America, in base alla quale si chiedeva di agire ed apparire senza violenza ed esagerazioni per far passare il messaggio di normalità e dignità delle proprio pretese. Ancora oggi, se le rivendicazioni dei propri diritti o la denuncia di soprusi subiti avvengono con modalità non pacifica, il potere tende a strumentalizzare e offuscare il messaggio di giustizia sociale che queste contengono. Ad esempio nel 2018, a seguito dell’omicidio di Idy Diene a Firenze e delle dichiarazioni in merito del sindaco Nardella che escluse il movente razzista, la comunità Senegalese e i movimenti Black Lives Matter scesero in piazza per protestare contro l’ennesima svalutazione della discriminazione razzista. Durante la manifestazione vennero rovesciate un paio di fiorire. Il sindaco Nardella paragonò la violenza sulle fioriere a quella subita da Idy Diene.

Questa “politica della rispettabilità" porta quindi a far subire ai subalterni non solo le quotidiane violenze razziste, ma anche le conseguenze degli atti di ribellione che si esprimono con rabbia. La rabbia fa paura ai “moderati”, ma storicamente questa rabbia dal basso è stata efficace. Si pensi ai movimenti per i diritti civili degli afroamericani. Vi era una contrapposizione tra la figura  Malcom X, definito dal Fbi l’uomo nero più arrabbiato d’America, disposto a tutto per vincere le proprie battaglie, e quella di Martin Luther King, il quale aveva un approccio moderato ed estraneo alla violenza. Studi recenti hanno dimostrato come molte vittorie per i diritti civili e il successo di tali movimenti sia dovuta all’azione combinata di tali diverse strategie. La rispettabilità può essere tatticamente necessaria, ma non bisogna perdere l’orizzonte strategico radicale.

Il dibattito termina senza la pretesa di dare soluzione a problematiche così radicate e complesse. Mi ha lasciato invece con più domande di quante ne avessi all’inizio. E credo che di fronte ad argomenti come l'intersezionalità, di cui ci si è focalizzati sui problemi del razzismo e del sessismo, ma che comprende altre ingiustizie sociali (l’omofobia e l’abilismo per esempio), non si possa sperare di alzarsi, dopo un’ora di discussione, appagati e con le risposte desiderate. È giusto rimanere incompleti e arrabbiati, con la voglia di continuare a informarsi e capire le varie sfaccettature del problema. Il senso di ingiustizia che proviamo per determinate condizioni sociali deve restare sempre vivo per guidare le nostre azioni e le nostre scelte.