Perché siamo nell'era della giustizia climatica

Recensione del libro "L’era della giustizia climatica: Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso" (Orthotes, 2023) di Paola Imperatore ed Emanuele Leonardi.

20 / 11 / 2023

Il 26 novembre, Paola Imperatore sarà al Centro sociale Django di Treviso per una doppia presentazione: Territori in lotta: Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica (Meltemi, 2023) e L’era della giustizia climatica: Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso (Orthotes, 2023). In vista dell’appuntamento, proponiamo una recensione del secondo titolo, firmato da Paola ed Emanuele Leonardi. A questo proposito, ricordiamo che è ancora aperta la campagna di azionariato popolare per la cooperativa GKN For Future (GFF), un progetto del Collettivo di Fabbrica Ex GKN di Firenze mirante alla conversione ecologica dal basso dello stabilimento di Campi Bisenzio. Teniamoci libere e liberi per le scadenze invernali lanciate dal Collettivo “verso l’ora x”.

2019 e 2020, strana coppia. Un biennio forse ancora più ricco di paradossi di quello rosso, che l’ha preceduto esattamente di un secolo. Il crash finanziario del 2007-08 aveva generato un ciclo di mobilitazioni culminate nel 2011 con la cosiddetta Primavera araba e il movimento Occupy. L’arretramento di queste lotte di fronte a guerre civili, colpi di stato e austerità dilagante – il caso spettacolare della Grecia fu emblema di un fenomeno molto più ampio – aprì la strada all’opzione di estrema destra, esemplificata dalla vittoria di Trump. Tuttavia, naturalmente, nemmeno la “alt right” fu in grado di risolvere le contraddizioni alla radice di quel malessere diffuso che continua a far sì che l’egemonia del buon senso liberale e centrista resti una reliquia degli anni ’90.

Il 2019 riaprì i giochi, dimostrò che la svolta a destra – per quanto devastante su tutti i fronti – era tutt’altro che irresistibile. Fu un anno memorabile: dal Cile al Sudan alla Francia, milioni di persone scesero in strada per una vita degna, con rivendicazioni di giustizia sociale che, con tutte le ambiguità che necessariamente caratterizzano i grandi processi storici, rappresentavano una sfida sia al “normalismo” liberale che all’identitarismo escludente. In questo contesto, i movimenti transfemministi e ambientalisti erano in piena mobilitazione e gli scioperi climatici riempivano le piazze di mezzo mondo.

Il 2020, fu un contrappunto brutale: piazze vuote e ospedali pieni. La ripresa di Black Lives Matter che mise un punto finale alla campagna Trump 2020 (purtroppo non alla campagna Trump 2024) può essere letta come una continuazione del 2019 nel 2020. Ma la composizione di classe alla base delle mobilitazioni (e non solo) scivolava già inesorabilmente nel cul de sac dei litigi online su vaccini e pass sanitari, mentre maturavano le esplosioni delle guerre odierne.

Sarà lavoro degli storici proporre linee interpretative più profonde, ma per i movimenti sociali di oggi è necessario fare un bilancio per orientare l’azione nell’immediato. È proprio così che i movimenti attivi sul fronte ecologico possono leggere L’era della giustizia climatica: Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso di Paola Imperatore ed Emanuele Leonardi. Il libro, infatti, si assume il difficile ma importante onere di fornire un quadro di lettura storicamente contestualizzato del 2019 per quanto riguarda la giustizia climatica, giungendo a proposte sulle prospettive attuali.

Il libro si apre con una critica della transizione ecologica “dall’alto”. Quest’ultima non è un processo reale – non c’è purtroppo una transizione ecologica in atto, di alcun tipo – ma un discorso volto di fatto a perpetuare l’assenza di una transizione. Tale narrazione è emersa dal sistema delle COP inaugurato nel 1992 con il Summit della Terra di Rio de Janeiro. In breve, si tratta della promessa di decarbonizzare l’economia attraverso trasformazioni tecnologiche incoraggiate da incentivi e disincentivi di mercato, all’interno della crescita capitalista. Negli ultimi tre decenni, moltissime critiche hanno preso di mira la transizione dall’alto. In un certo senso, quella più potente è semplicemente il grafico raffigurante la serie storica delle emissioni di gas climalteranti dal 1992 ai nostri giorni, che mostra come queste non abbiano mai smesso di aumentare. Quanto accaduto finora non è una transizione ma un’espansione energetica, in cui fonti rinnovabili e fossili sono cresciute in parallelo, con gli effetti che conosciamo.

Nell’interpretazione di Imperatore e Leonardi, il 2019 ha rappresentato la rottura tra le ONG ambientaliste e il sistema delle COP e l’allineamento, perlomeno tattico, delle prime con i movimenti anti-sistemici. La figura di Greta Thunberg è emblematica proprio di questa saldatura. Il 2019 rappresenta anche la conferma della tesi dell’intersezionalità[1], ovvero il riconoscimento che diverse forme di stratificazione sociale (classe, colonialità, genere, razza…) sono parte di una totalità interconnessa. Una prospettiva di giustizia climatica degna di questo nome deve aspirare ad affrontarle in modo complessivo.

Sulla base delle preesistenti critiche all’ambientalismo mainstream, hanno preso forma un discorso e una progettualità alternativi: la transizione ecologica dal basso[2]. Affondando le proprie radici nell’ambientalismo operaio del Lungo ’68, quello delle lotte contro la nocività e la monetizzazione della salute, la transizione ecologica dal basso si caratterizza per la contrapposizione ai parametri sistemici esistenti di mercificazione, produttivismo e disuguaglianze estreme. Solo così è possibile rompere il ricatto reddito-ambiente e costruire convergenza tra territori e luoghi di lavoro, dando un nuovo impulso al movimento climatico.

L’ondata degli scioperi climatici è andata inevitabilmente perdendo la dirompenza iniziale. Ma i climate strike sono arrivati direttamente nei luoghi di lavoro assieme all’ondata di calore dell’estate scorsa, quando i lavoratori e le lavoratrici più esposti hanno incrociato le braccia in diversi settori per proteggersi dai rischi legati allo stress termico. In quell’occasione, hanno interrotto il lavoro anche le operaie e gli operai Electrolux di Susegana (Tv)[3], che da tempo portano avanti una campagna per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Le vertenze contro il lavoro in condizioni di calore estremo rimettono in luce la stretta connessione tra salute dei territori e salute nei luoghi di lavoro, scoperta dalle lotte contro la nocività del Lungo ’68. L’attualità di questo nodo ci viene purtroppo continuamente confermata dall’infinta serie di morti sul lavoro, come quella di Anila Grishaj, operaia di 26 anni schiacciata da un macchinario sempre in provincia di Treviso.

In Italia, la prospettiva della transizione ecologica dal basso è emersa e si è concretizzata soprattutto attraverso la vertenza portata avanti dal Collettivo di Fabbrica Ex GKN di Firenze, analizzata proprio nell’ultimo capitolo del libro. L’intelligenza e la rapidità d’azione del Collettivo hanno reso realtà quello che fino a poco prima sembrava impossibile: manifestazioni di massa guidate da organizzazioni di lavoratori e del movimento climatico. Moltissimo è stato già scritto su questa vertenza ancora aperta, mi limito solo a ribadire che la sua grande intuizione è stata quella di andare oltre la mera difesa del posto di lavoro per spingere verso la trasformazione della produzione e delle relazioni sociali che la plasmano[4]. Questo la rende una lotta molto più difficile ma – vada come vada – infinitamente più significativa di una contrattazione sul quantum della buonuscita.

Il 2019 ha cambiato completamente le politiche ambientali, si pensi al Green Deal europeo o all’Inflation Reduction Act di Biden. Queste misure rappresentano un avanzamento rispetto al business as usual del capitale fossile ma restano inadeguate: le battaglie vinte sono sempre accompagnate dalla capacità di recupero del mercato. Dopo la crisi del 2020, la ristrutturazione “verde” del capitalismo ha infatti trovato un nuovo slancio, energizzata dallo sviluppo di rinnovabili, automobili elettriche e tecnologie digitali avanzate. Tuttavia, questi tentativi di transizione ecologica incentrati sul mercato – sebbene sempre più coordinati dagli stati – rischiano di approfondire in modo tutt’altro che sostenibile la mercificazione della natura, il produttivismo e l’aumento delle disuguaglianze. La transizione ecologica dall’alto resta in realtà un’espansione energetica: ai gas climalteranti dei combustibili fossili si aggiunge la nocività dell’estrattivismo “verde”, generata da una produzione di rinnovabili subordinata al profitto. Il risultato concreto della lotta tra le due transizioni, quella dall’alto e quella dal basso, non è predeterminato. Dipenderà dai rapporti di forza che gli attori collettivi in gioco riusciranno a costruire. Come dice il Collettivo di Fabbrica Ex GKN: provare e riprovare.


[1] Esistono molte critiche al concetto di intersezionalità, ma spesso si basano su una lettura semplicista o ingenerosa del femminismo afroamericano che ha dato vita a questa prospettiva (si veda Intersectionality as Critical Social Theory di Patricia Hill Collins, Duke University Press, 2019). Per quanto mi riguarda, c’è molto più da guadagnare nel costruire ponti tra l’intersezionalità e altre tradizioni teoriche – in particolare i marxismi – che dal tentare di sostituire il termine con altri ancora meno intelligibili.

[2] Si veda anche “Dall’ambientalismo operaio alla giustizia climatica: La sfida della convergenza, oggi” di Lorenzo Feltrin ed Emanuele Leonardi.

[3] Si veda “Climate strike all’Electrolux: La crisi ecologica vista dalle catene di montaggio. Intervista ad Augustin Breda, delegato RSU FIOM all’Electrolux di Susegana” di Lorenzo Feltrin.

[4] Si veda “Organizzazione e convergenza: La composizione di classe tra sviluppo della tecnologia e crisi ecologica” di Lorenzo Feltrin ed Emanuele Leonardi.