Il nocciolo della notizia è che i dirigenti di Google a processo a Milano per il caso “Vividown” sono condannati per violazione della privacy, ma non per diffamazione aggravata. Entro 90 giorni si leggerà la sentenza. Ma si continua ad ignorare che in questa vicenda, sotto traccia, non è la libertà di Google in gioco ma quella dei singoli.
Scampato pericolo?
Google ora dice che “la sentenza di Milano è un attacco ai principi di
libertà”. Però poteva andare molto peggio. Gli occhi della politica,
della rete e del mondo intero (quello che segue queste vicende) erano
oggi su Milano. E alla sentenza che ne è uscita questa mattina poco dopo
le 9. Ora gli avvocati annunciano un appello, che potrebbe essere
discusso già per fine anno, o al più tardo nella primavera 2011.
Vedrete, questa notizia farà il giro del mondo. Perché comunque è una
condanna, perché apre un dibattito che non è solo giuridico ma
intensamente politico: deve esserci un controllo su quanto esce sui
social network? E chi deve esercitarlo? E perché costringe a riflettere
su come sistemiamo la comunicazione digitale dentro gli apparati di
legge.
E’ d’obbligo un passo indietro.
Il fatto
Nel 2006 tre minorenni abusano con percosse e dileggio di un loro
compagno di scuola, afflitto da sindrome di down. Registrano tutto con
la videocamera del cellulare. Una di loro pubblica su quello che
all’epoca era “Google Video”. Grande scandalo e indignazione,
giustificati dall’atto ma trascinati nella consueta manipolazione
dell’ira collettiva.
Di quel video si parla nei telegiornali. Si delira di chiusura di Google
e di istigazione a delinquere – nasce da qui l’onda che porta al famoso
“emendamento D’Alia”, cioè al principio che la piattaforma che ospita
il contenuto di un utente è direttamente responsabile di quanto
pubblicato da ogni singolo, e che la sola pubblicazione integri, oltre
alle fattispecie di volta in volta presenti, il reato di istigazione a
delinquere. Cosa è istigazione a delinquere? eh…
Intanto la ragazza responsabile della pubblicazione sarà poi processata e
condannata a pene di carattere rieducativo. E la famiglia della vittima
si rifiuta di costituirsi parte civile. Ma si è comunque avanti in un
processo che vede sulle spalle di quattro dirigenti di Google sia
l’accusa di diffamazione che quella di violazione di numerosi articoli
della legge sulla privacy.
Il rischio “politico”
L’emendamento è caduto da tempo, ma i sostenitori di quella dottrina
sono ancora alla ricerca della norma “giusta” da far passare. Lo sono
anche in queste settimane. Alcuni di loro non si rendono conto, altri ne
sono perfettamente consapevoli che stabilire quel principio di
responsabilità – come se You Tube fosse un giornale fatto da
relativamente pochi individui- significa realizzare uno stato pienamente
totalitario, nel quale, per realizzare quelle prescrizioni di legge
sarebbero necessarie strutture tecniche e umane presenti solo in Cina e
paesi consimili.
Il clima: l’antipatico è anche “colpevole”?
Il processo si è accompagnato con la crescita di un sentimento di
“antipatizzazione” verso Google e le piattaforme di social networking in
questo paese. La giustizia civile ha già deciso, in altro e diverso
procedimento, che You Tube debba sapere all’istante quali video
appartengono a contenuti coperti da diritto d’autore. Un’altra causa,
intentata da Mediaset, chiede, con risarcimenti ultramilionari, che per
tutte le clip che gli utenti ritagliano dal Grande Fratello piuttosto
che da Striscia la notizia, la responsabilità per la violazione del
diritto d’autore sia molto stretta e riportabile alla piattaforma.
Aggiungete il procedimento – ma si tratta di vicenda ancora diversa –
che gli editori italiani hanno avviato presso l’autorità per la
concorrenza sulle pratiche di Google in fatto di pubblicità e di uso dei
contenuti editoriali.
Insomma il clima era pesante per Google. E chi scrive qui ha elencato in
un saggio quali sono le ragioni che fanno di Google un soggetto molto
ingombrante per la concorrenza. Ma l’antipatia “economica” non deve
produrre né giurisprudenza né diritto antipatizzante. Invece il
sentimento che si respira nell’aria in questi mesi non ha niente a che
vedere con i principi di equa concorrenza, che in qualche modo si
trovano richiamati nel ricorso degli editori.
La difesa dell’esistente, la riforma “stretta”
Si può dire in due modi, con linguaggio da mass mediologi: Il problema
di questi mesi è la ricerca di un varco per fermare la disgregazione
dell’audience televisiva generalista ad opera dei social network,
utilizzando anche il sogno censorio di una restaurazione dello status
precedente dei media, quello nel quale gli utenti non parlano.
Consumano.
E si può dire con linguaggio politico: che la politica e gli apparati
giudiziari cercano i modi per ricondurre dentro l’esistente la novità di
internet, che è novità umana e sociale prima che tecnologica e non ce
la fa ad “entrare” in quelle norme preesistenti, come il dentifricio
spremuto fuori non rientra nel tubetto.
Saggezze e sintonia di una sentenza
In questa situazione il rischio era che si arrivasse a una sentenza
fortemente punitiva dei social network, facendo dell’Italia il luogo di
un “leading case” repressivo che ci avrebbe rapidamente ridicolizzati di
fronte al mondo e messo ancora più in basso nelle classifica per la
libertà d’espressione.
Ma la sentenza di Milano – che andrà letta e ci sono 90 giorni per la
sua pubblicazione – sembra aver sentito il pericolo giuridico e
culturale che incombeva ed ha evitato il peggio. M ha sentito l’aria.
Purtroppo non un’ottima aria: perché dopo la pubblicazione dei gruppi
Facebook su Tartaglia e le pagine degli imbecilli su vari argomenti
sensibili, si è instaurata una pratica opaca per cui governo e
amministrazione statale colloquiano direttamente con i social network,
sotto l’etichetta della “segnalazione dei siti pericolosi”.
Contemporaneamente, con il decreto intercettazioni e con il decreto
Romani, si preparano forme di deterrenza e di controllo su chiunque
faccia sia blog che televisione amatoriale: insomma su chiunque si
esprima fuori dai ranghi.
Memo e meme per l’appello
Dalla sentenza si vedrà anche cosa, sulla privacy, esattamente si
contesta a Google. Se si vorrà sostenere che Google deve occuparsi della
privacy di tutti coloro che appaiono nei video che vengono pubblicati –
una tesi che è stata sostenuta nella memoria delle parti civili e che è
francamente ridicola sul piano fattuale e tecnologico, prima che
giuridico. O se si dirà solo che Google aveva obbligo di registrarsi
presso l’autorità delle comunicazioni e della privacy (sono due diverse)
come stazione televisiva, assumendone quindi gli obblighi. E siamo, ma
guarda un po’, alla sostanza del decreto Romani.
Tutto ciò che sfugge alle diverse parti in causa (o forse non sfugge
affatto) è che in questa vicenda scorre sotto traccia la questione della
libertà dei singoli di pubblicare e dire i propri pensieri sulla rete.
In piena responsabilità.
La società digitale è una società di liberi, che semmai vanno in galera
se delinquono. Ma non vanno né censurati né costretti all’autocensura
delle “registrazioni” preventive.