Google punita, ma qui è la libertà dei singoli che è in gioco

Tre dirigenti di Google accusati di diffamazione e violazione della privacy per non avere impedito nel 2006 la pubblicazione sul motore di ricerca di un video che mostrava un minore affetto da sindrome di Down insultato e picchiato da quattro studenti di un istituto tecnico di Torino.

24 / 2 / 2010

Il nocciolo della notizia è che i dirigenti di Google a processo a Milano per il caso “Vividown” sono condannati per violazione della privacy, ma non per diffamazione aggravata. Entro 90 giorni si leggerà la sentenza. Ma si continua ad ignorare che in questa vicenda, sotto traccia, non è la libertà di Google in gioco ma quella dei singoli.

Scampato pericolo?
Google ora dice che “la sentenza di Milano è un attacco ai principi di libertà”. Però poteva andare molto peggio. Gli occhi della politica, della rete e del mondo intero (quello che segue queste vicende) erano oggi su Milano. E alla sentenza che ne è uscita questa mattina poco dopo le 9. Ora gli avvocati annunciano un appello, che potrebbe essere discusso già per fine anno, o al più tardo nella primavera 2011.
Vedrete, questa notizia farà il giro del mondo. Perché comunque è una condanna, perché apre un dibattito che non è solo giuridico ma intensamente politico: deve esserci un controllo su quanto esce sui social network? E chi deve esercitarlo? E perché costringe a riflettere su come sistemiamo la comunicazione digitale dentro gli apparati di legge.

E’ d’obbligo un passo indietro.

Il fatto
Nel 2006 tre minorenni abusano con percosse e dileggio di un loro compagno di scuola, afflitto da sindrome di down. Registrano tutto con la videocamera del cellulare. Una di loro pubblica su quello che all’epoca era “Google Video”. Grande scandalo e indignazione, giustificati dall’atto ma trascinati nella consueta manipolazione dell’ira collettiva.
Di quel video si parla nei telegiornali. Si delira di chiusura di Google e di istigazione a delinquere – nasce da qui l’onda che porta al famoso “emendamento D’Alia”, cioè al principio che la piattaforma che ospita il contenuto di un utente è direttamente responsabile di quanto pubblicato da ogni singolo, e che la sola pubblicazione integri, oltre alle fattispecie di volta in volta presenti, il reato di istigazione a delinquere. Cosa è istigazione a delinquere? eh…
Intanto la ragazza responsabile della pubblicazione sarà poi processata e condannata a pene di carattere rieducativo. E la famiglia della vittima si rifiuta di costituirsi parte civile. Ma si è comunque avanti in un processo che vede sulle spalle di quattro dirigenti di Google sia l’accusa di diffamazione che quella di violazione di numerosi articoli della legge sulla privacy.

Il rischio “politico”
L’emendamento è caduto da tempo, ma i sostenitori di quella dottrina sono ancora alla ricerca della norma “giusta” da far passare. Lo sono anche in queste settimane. Alcuni di loro non si rendono conto, altri ne sono perfettamente consapevoli che stabilire quel principio di responsabilità – come se You Tube fosse un giornale fatto da relativamente pochi individui- significa realizzare uno stato pienamente totalitario, nel quale, per realizzare quelle prescrizioni di legge sarebbero necessarie strutture tecniche e umane presenti solo in Cina e paesi consimili.

Il clima: l’antipatico è anche “colpevole”?
Il processo si è accompagnato con la crescita di un sentimento di “antipatizzazione” verso Google e le piattaforme di social networking in questo paese. La giustizia civile ha già deciso, in altro e diverso procedimento, che You Tube debba sapere all’istante quali video appartengono a contenuti coperti da diritto d’autore. Un’altra causa, intentata da Mediaset, chiede, con risarcimenti ultramilionari, che per tutte le clip che gli utenti ritagliano dal Grande Fratello piuttosto che da Striscia la notizia, la responsabilità per la violazione del diritto d’autore sia molto stretta e riportabile alla piattaforma.
Aggiungete il procedimento – ma si tratta di vicenda ancora diversa – che gli editori italiani hanno avviato presso l’autorità per la concorrenza sulle pratiche di Google in fatto di pubblicità e di uso dei contenuti editoriali.
Insomma il clima era pesante per Google. E chi scrive qui ha elencato in un saggio quali sono le ragioni che fanno di Google un soggetto molto ingombrante per la concorrenza. Ma l’antipatia “economica” non deve produrre né giurisprudenza né diritto antipatizzante. Invece il sentimento che si respira nell’aria in questi mesi non ha niente a che vedere con i principi di equa concorrenza, che in qualche modo si trovano richiamati nel ricorso degli editori.

La difesa dell’esistente, la riforma “stretta”
Si può dire in due modi, con linguaggio da mass mediologi: Il problema di questi mesi è la ricerca di un varco per fermare la disgregazione dell’audience televisiva generalista ad opera dei social network, utilizzando anche il sogno censorio di una restaurazione dello status precedente dei media, quello nel quale gli utenti non parlano. Consumano.
E si può dire con linguaggio politico: che la politica e gli apparati giudiziari cercano i modi per ricondurre dentro l’esistente la novità di internet, che è novità umana e sociale prima che tecnologica e non ce la fa ad “entrare” in quelle norme preesistenti, come il dentifricio spremuto fuori non rientra nel tubetto.

Saggezze e sintonia di una sentenza
In questa situazione il rischio era che si arrivasse a una sentenza fortemente punitiva dei social network, facendo dell’Italia il luogo di un “leading case” repressivo che ci avrebbe rapidamente ridicolizzati di fronte al mondo e messo ancora più in basso nelle classifica per la libertà d’espressione.
Ma la sentenza di Milano – che andrà letta e ci sono 90 giorni per la sua pubblicazione – sembra aver sentito il pericolo giuridico e culturale che incombeva ed ha evitato il peggio. M ha sentito l’aria. Purtroppo non un’ottima aria: perché dopo la pubblicazione dei gruppi Facebook su Tartaglia e le pagine degli imbecilli su vari argomenti sensibili, si è instaurata una pratica opaca per cui governo e amministrazione statale colloquiano direttamente con i social network, sotto l’etichetta della “segnalazione dei siti pericolosi”.
Contemporaneamente, con il decreto intercettazioni e con il decreto Romani, si preparano forme di deterrenza e di controllo su chiunque faccia sia blog che televisione amatoriale: insomma su chiunque si esprima fuori dai ranghi.

Memo e meme per l’appello
Dalla sentenza si vedrà anche cosa, sulla privacy, esattamente si contesta a Google. Se si vorrà sostenere che Google deve occuparsi della privacy di tutti coloro che appaiono nei video che vengono pubblicati – una tesi che è stata sostenuta nella memoria delle parti civili e che è francamente ridicola sul piano fattuale e tecnologico, prima che giuridico. O se si dirà solo che Google aveva obbligo di registrarsi presso l’autorità delle comunicazioni e della privacy (sono due diverse) come stazione televisiva, assumendone quindi gli obblighi. E siamo, ma guarda un po’, alla sostanza del decreto Romani.
Tutto ciò che sfugge alle diverse parti in causa (o forse non sfugge affatto) è che in questa vicenda scorre sotto traccia la questione della libertà dei singoli di pubblicare e dire i propri pensieri sulla rete. In piena responsabilità.
La società digitale è una società di liberi, che semmai vanno in galera se delinquono. Ma non vanno né censurati né costretti all’autocensura delle “registrazioni” preventive.

Tratto da: