Dentro la piazza e oltre

Riflessioni sul 13 febbraio

15 / 2 / 2011

Per cominciare facciamo una piccola premessa. Abbiamo avuto le stesse perplessità, o meglio lo stesso fastidio, nel leggere l’appello di indizione della giornata del 13 e abbiamo accolto con la giusta attenzione la presa di posizione di Muraro. Ma abbiamo deciso di attraversare il 13 proprio perché una piazza delle donne non può essere eterodiretta, strumentalizzata, usata come testa di ponte da un’opposizione nulla e inefficace. Piuttosto, è la stessa complessità costitutiva di ogni movimento delle donne, che ne fa qualcosa di inafferrabile e proprio per questo i commenti alla giornata non riescono a rappresentarla.

Non ci pentiamo di questa scelta perché per una volta i numeri e la composizione, estremamente variegata sotto tutti i punti di vista, parlano chiaro: l’enorme partecipazione parla di qualcosa di straordinario e eccedente ogni operazione politica che ci si voglia fare sopra.

Questa non vuole essere semplicemente un’affermazione di principio, ma una valutazione che deriva da alcune considerazioni a partire dal contesto italiano ma allargando lo sguardo oltre.

«Siamo tutte egiziane!» è stato uno degli slogan che dentro la grande manifestazione romana di ieri, più di altri, ha riscosso i consensi e la partecipazione di moltissime. Accomunarsi alle donne egiziane suona vagamente provocatorio in un paese il cui governo, fino a qualche tempo fa, guardava con sospetto la condizione delle donne dei paesi afro-asiatici sottoposte alla dura legge del velo. Ma la dichiarazione non si attesta nemmeno sulla soglia della pura solidarietà femminile transfrontaliera, dal momento che punta ad individuare una comunanza e ad istituire un nesso tra chi in Egitto – anche lì donne, studentesse, precarie – sta dando vita ad un processo rivoluzionario e chi qui ha cominciato a dire «I would prefer not to...».

Il Mediterraneo e l’Europa sono attraversati da manifestazioni che hanno in comune il carattere dell’enormità numerica, con un grado di partecipazione di massa ed individuale incredibile. Eppure le convocazioni sono anonime e del tutto estemporanee, come se non riuscissero più ad essere contenute e determinate dalle strutture tradizionali, siano esse sindacati o partiti. La rete, i social network e la piazza trovano di nuovo un concatenamento virtuoso, una cosa riflette e moltiplica l’altra, l’organizzazione delle lotte si fa diffusa eppure capace di canalizzarsi. Le strutture politiche tradizionali non possono che soccombere o rincorrere.

All’indomani di una mobilitazione variegata, come quella del 13 febbraio, verrebbe da chiedersi se quanto sintetizzato dai media mainstream sia in grado di esprimere il processo in atto. Una piazza gremita, non può essere solo numericamente fotografata. E’ stato detto: sono un milione. Ma prima di tutto una moltitudine di donne, e anche di uomini, accomunati da profonde differenze, un caleidoscopio di età, vite, desideri, aspettative… qualcuna di noi avrà incontrato i propri vicini di casa, altre ancora la collega di corso universitario o del call center.

Allora stupisce quando il tentativo di sintesi diventa riduzione pura di queste molteplicità: Concita De Gregorio afferma nel suo articolo di ieri (14 febbraio) sull’«Unità» che tutta quella pluralità di donne che si oppone – e, aggiungeremmo volentieri, che talvolta resiste – necessita di essere rappresentata ovvero di essere corrisposta nei propri bisogni, esigenze e desideri da un’immagine politica e partitica. E’ sorprendente quanto alle volte le voci di una piazza risultino, a chi le recepisce, confuse. Un atto di destituzione di un potere – in questo caso di Berlusconi – non equivale esattamente ad un processo di sostituzione di quel potere con un altro della stessa natura. Che dai discorsi e reclami, sicuramente molteplici e non lineari di ieri, se ne possa dedurre che il desiderio principale di chi a gran voce li ha espressi sia una differente rappresentazione della propria capacità politica, è quantomeno un’aspirazione velleitaria. Chiariamoci: il fatto che in quella piazza si sia anche espressa una diffusa opposizione che non vuole e non riesce ad eccedere il quadro di rispetto e di compatibilità delle istituzioni democratiche e i contorni della carta costituzionale, è un fatto indiscutibile. Alcune tonalità della piazza di domenica, in questa prospettiva, assumono l’aspetto di una «rivolta democratica»: il richiamo alla moralità simmetrico al richiamo alla legalità, la difesa della costituzione come principale riferimento e spazio di azione non pongono automaticamente il tema della trasformazione dell’esistente.

Ma puntare lo sguardo direttamente al fondo di questa complessità, può far emergere risvolti inediti ed interessanti. Piuttosto che misurare la densità e l’efficacia di questa opposizione attraverso espressioni binarie, termometri della radicalità, schemi semplificatori, può essere utile osservare le differenziazioni interne a questa «rivolta democratica» che ha attraversato il 13 le piazze di molte città. Al fondo della questione sta un’interrogazione, pienamente politica su quale sia il rapporto tra questa forma di rivolta ed un tumulto vero e proprio, tra espressioni del potere costituente e strumenti della mediazione politica.

Le centinaia di migliaia di voci che ieri hanno gridato in piazza un generico sentimento, misto di indignazione e rabbia, fanno emergere in maniera chiara la necessità di uscire dall’indistinto, di nominare i problemi specifici, di iniziare ad agirli, di provare a tracciare traiettorie percorribili, di prendere posizione. La piazza gremitissima di ieri ci ha comunicato chiaramente questa urgenza. L’eccedenza numerica e soggettiva che si è espressa in quella occasione ci ha spinte, in maniera assolutamente estemporanea, ad attraversare selvaggiamente la città fino ad arrivare, con una corsa rocambolesca e liberatoria, fin sotto Palazzo Montecitorio per rispedire al mittente, Governo e Parlamento, i provvedimenti che in questi anni hanno portato di fatto alla distruzione delle libertà e dei diritti, in particolare per le donne, propri di una democrazia degna di questo nome.

Le commesse dei negozi di via del Corso che si affacciavano sulla soglia applaudendo e scandendo gli slogan del corteo selvaggio ci dicono che questa urgenza deve essere colta e che una traiettoria deve esser tracciata.

È anche in piazze come queste, le piazze della «rivolta democratica» – quelle di primo acchito così educate, così rispettose della legalità, così poco conflittuali – che si apre la possibilità del tumulto, dell’indignazione e dell’affermazione di libertà.