Sabato 13 febbraio 2010. Alcuni di noi fanno appena in tempo a tornare
in Lombardia dal seminario organizzato da Uninomade e Melting Pot,
tenutosi al TPO di Bologna, sul tema delle migrazioni. Ad accoglierli
trovano una notizia terribile: a Milano, un 19enne di origine egiziana
è stato ucciso, pare da giovani di origine latinoamericana, con
conseguente guerriglia urbana scatenata dai nordafricani nella zona più
multietnica della metropoli.
L’omicidio pare essere nato da un futilissimo motivo: un piede pestato
sull’autobus, come riferiscono i due amici scampati all’aggressione, o
forse del solito inopportuno apprezzamento a una donna. Ciò nonostante,
un “investigatore” subito interpellato dall’ANSA sciorina le sue
conoscenze sulla suddivisione per “materie” della malavita straniera (a
te il racket, a me la droga, a lui la prostituzione), e sugli sgarri
che portano a vendette. Viene da chiedersi a quale etnia competa il
controllo dei piedi schiacciati.
Conosciamo la situazione dei giovani latinoamericani a Milano, specie
di quelli che appartengono alle bande. Sappiamo quanti sforzi facciano
per togliersi dalla strada, e quanto sia difficile perché la strada ti
segue ovunque. Sappiamo anche che il rischio di commettere o subire
violenza faccia parte della loro vita, e di come i conflitti tra bande
siano generati più da semplici questioni di “prestigio” e onore, o dal
machismo adolescenziale, che non da chissà quali oscure lotte di potere
criminale. Sappiamo quante altre volte ciò sia accaduto all’interno
delle relazioni tra bande latinoamericane: il 7 giugno 2009, a Milano,
morì così David “Boricua”, che non era affatto un criminale: stava
compiendo un percorso di emersione con i Latin Kings, da banda di
strada ad associazione culturale.
Chi pensa che i fatti di via Padova siano generati dallo scontro per il
controllo delle attività criminali, dunque, o non conosce l’oggetto
delle sue investigazioni, o parla in malafede. Una malafede subito
emersa dal fitto campionario della stupidità meneghina e nazionale,
esemplificato dalle dichiarazioni vomitate a raffica dai politici. Ma
per adesso lasciamole dal parte.
E’ sempre rischioso trarre ammaestramenti assoluti
dagli episodi di cronaca, tuttavia urgono alcune considerazioni sulla
situazione di profondo disagio sociale al tempo della crisi economica e
della governance impossibile.
Un disagio che nella dimensione metropolitana si acuisce con il
progressivo deteriorarsi della vita pubblica, generato dalle campagne
d’odio in cui si profonde la cultura di destra e dalle quali si lascia
tentare un vasto settore di popolazione, in maniera proporzionale al
proprio smarrimento di fronte a una realtà incomprensibile, precaria.
Su come sia facile passare dallo status di disagiato a quello di
violento, esiste una vasta letteratura sociologica. I giovani
latinoamericani vivono in molte città europee una condizione comune,
fatta di sradicamento culturale e di marginalità sociale, cui
rispondono con l’attaccamento identitario ai propri simili. Non si
sentono italiani, anche perché non sono trattati come tali dagli
indigeni d’Esperia, ma perdono i legami con i paesi d’origine. Da
questo meccanismo di adesione identitaria, di aggregazione spontanea,
nasce una linea di demarcazione tra chi è con te, è tuo amico, è della
tua banda, e chi non lo è. Se chi non lo è ha la tua età, vive in
condizioni simili alle tue, ma non ha la tua origine o appartiene a
un’altra banda, ebbene, allora può facilmente diventare un tuo nemico.
Se lo vedi come un tuo nemico, il solo fatto che ti pesti un piede, o
ti guardi la fidanzata, può bastare a scatenare l’aggressione.
Ma la cronaca di queste ore non si concentra sulle motivazioni
dell’omicidio, bensì sulla rivolta rabbiosa dei nordafricani di via
Padova, protagonisti di danneggiamenti di automezzi, scontri e
devastazione di negozi. Anche per loro, la reazione è di tipo
identitario: hanno ucciso uno come me, uno della mia comunità, dunque
voglio vendetta. La loro logica non è forse migliore, ma nessuno può
dire che non stia nelle cose.
Chi difende i nordafricani, chi difende gli stranieri? La polizia
schierata a “proteggere” il corpo dell’assassino, cioè ad acuire la
rabbia? Gli italiani che, si perita di annotare l’inviato ANSA,
continuano indifferenti l’happy hour davanti alla scena del delitto? Le
istituzioni milanesi, il cui unico vanto, frutto del machismo
poliziesco del vicesindaco De Corato, è sbandierare il numero di
sgomberi come fossero i centimetri di un membro priapesco? No, i
nordafricani sanno di essere soli, e reagiscono perché si sentono
toccati nel vivo della propria comunità: i suoi giovani. La rabbia
esplode con dinamiche già viste al sud, e si accanisce sulle cose. In
più, occorre notare l’incapacità delle forze di polizia nel contenere
tale rabbia: cosa già vista a Milano, quando a morire fu Abba Guiebre,
e gli africani ruppero i cordoni di polizia per giungere in corteo sul
luogo dell’omicidio razzista. Lugubre la simbologia del sangue del
cadavere, fatto bruciare in segno di vendetta. Lugubre ma efficace: la
nostra metropoli brucia di rabbia per le sue ferite.
La condizione indispensabile di questo scontro, infine, è
l’identitarismo razzista di buona parte della società italiana, per la
quale la morte del giovane milanese non sarà quella di un cittadino
ucciso da concittadini, bensì semplicemente quella di un egiziano
ucciso da altri stranieri. Una società che forse invocherà gli inutili
rimedi di sempre: più sbirri, più controlli, più ronde, più espulsioni,
continuando così a spingere i vicini di casa (in via Padova i cittadini
di origine straniera sono la maggioranza) a chiudersi
nell’identitarismo.
A Bologna, c’era chi parlava di “conflittualità orizzontale”,
corollario della crisi. In altre parole, stiamo parlando di una guerra
tra poveri, nella quale è inutile cercare dove stia il torto. Nelle
guerre tra poveri, non esistono vincitori, ma solo perdenti. Non ci
sono vincitori nemmeno nell’episodio di Anagni, la rissa tra albanesi e
romeni che suggella la tristezza di questo 13 febbraio.
Se proprio vogliamo cercare le responsabilità profonde,
cerchiamole. Ora sì che ci tornano d’aiuto le dichiarazioni dei
politici. Partiamo dalle punte di diamante della stupidità razzista: i
leghisti.
Borghezio, fisso come un’icona nel suo ruolo di grasso sciacallo, parla
di espulsioni di massa. Il suo collega, il milanese Salvini, torna
all’idea del White Christmas: controlli ed espulsioni casa per casa.
Calderoli, forse per far dimenticare di avere carnagione palesemente
mulatta, attacca la politica dell’“integrazione facile”. Non si capisce
di cosa blaterino personaggi che comandano da anni la politica
migratoria con la Legge Bossi-Fini, che governano la città, la
provincia e la regione, e che hanno regalato all’Italia l’ultimo dei
problemi che le mancavano, la ciliegina sulla torta: il razzismo
istituzionale. La realtà è che questi sono i frutti della LORO politica
sull’immigrazione, come dice il buon Bersani, che però dimentica il
lavoro di utile idiota svolto dal suo partito di ieri e di oggi, dalla
legge Turco-Napolitano ai manifestini di Pianura.
Cicchitto scarica le responsabilità della destra, affermando che questi
episodi accadono anche in Francia. Come se i cugini d’oltralpe fossero
governati da un oltranzista dell’intercultura, e non da uno che, in
campagna elettorale, definì “feccia” i banlieuesards
trattati come bestie dalla polizia francese. Il suo virgineo collega di
partito, il governatore Formigoni, ci ricorda che le nostre leggi vanno
rispettate da tutti, soprattutto da chi è “ospite”. Allora, dovrebbe
sapere che, a trattare l’ospite come un animale, si mette a rischio, se
non l’argenteria, almeno la cristalleria. No, decisamente non è
possibile associare la figura di Formigoni alla tradizionale ospitalità
mediterranea.
Eccoli, per chi li vuole cercare, i corresponsabili di questo e altri
episodi. Altro che integrazione facile. Sono loro, le prime galline che
hanno cantato, quelle che hanno deposto l’uovo dell’intolleranza.
Invocano classi ponte, tetti del 30%, ronde di onesti picchiatori,
respingimenti in mare, in nome di un concetto di cittadinanza che
assomiglia paurosamente a quello di identità tribale. Finché gente così
avrà in mano le leve del potere, non ci sarà nulla di facile. E il
fatto che ciò sia controproducente anche nell’ottica della politica
securitaria, è ben magra consolazione per noi che la avversiamo.
Qualcuno potrebbe pensare che questo episodio affosserà le intenzioni di tutti quelli che si stanno impegnando nella costruzione della giornata del 1 marzo, la prima mobilitazione migrante in termini di sciopero sociale. Ma sarebbe un errore frutto di emotività. La mobilitazione, anzi, assume oggi ancora più senso, più urgenza. Occorre dimostrare quanto l’economia italiana dipenda dal lavoro migrante, quanto sia impossibile trasferire su 5 milioni di migranti la responsabilità di singoli momenti di degenerazione sociale, quanto sia necessario scacciare la paura che ronza nella testa degli italiani. Non ci si nasconda dietro il “protagonismo migrante” o dietro le logiche sindacali, per sottrarsi alla responsabilità di costruire TUTTI una giornata senza di noi, cioè anzitutto una giornata CON noi, vecchi e nuovi italiani, chiamati a vivere in una società meticcia. Una società nella quale se il migrante non ha diritti ne avrà meno anche l’indigeno italiano, nella quale il controllo dei corpi e della vita, la subordinazione della società agli interessi economici e la perdita del senso della realtà minacciano tutti, e dunque esigono una risposta ben al di là dell’appartenenza etnica e della normale prassi sindacale di astensione dal lavoro.
Milano inizierà questo percorso di emersione delle istanze meticcie già sabato 20 febbraio con il corteo del Samedi Gras, attraverso una festa condivisa che oltrepassi le appartenenze culturali. Un percorso che ci porterà al 1 marzo, al quale chiamiamo a raccolta tutti, compresi i cittadini nordafricani di via Padova. Così, secondo noi, vanno incanalate la rabbia e la frustrazione: in un momento di rivendicazione moltitudinaria che ampli il concetto di cittadinanza nella maniera discussa da Uninomade a Bologna. Il terreno della cittadinanza, d’ora in poi, sarà quello nel quale si dispiegheranno le giuste rivendicazioni di chi è consapevole dei propri diritti. Un terreno che ci permetta di affermare (nordafricani, latinoamericani, europei dell’est e dell’ovest, asiatici e mediterranei), così come da anni rivendichiamo di essere tutti clandestini, che siamo tutti milanesi, siamo tutti italiani.
Daniele Di Stefano Ass. Ya Basta! Milano – Ass. Para Todos Todo