Non moriremo socialdemocratici. C'è più e di meglio da fare

5 / 11 / 2009

Ci siamo persi il futuro, qualcuno accenda la luce, dobbiamo cercarlo

Socialdemocrazia? Non suona più bene, da qualche tempo a questa parte. Giuseppe Berta parla, nel suo ultimo libro, di “eclisse della socialdemocrazia”. Non crisi ma eclisse, fine di una parabola. Stefano, che ha ripreso questo tema su Firstdraft, e coloro che hanno commentato il suo post, sembrano dargli ragione, sia pure con qualche differenza (siamo o non siamo nella stagione di Obama?). Ma anche se l’eclisse fosse il preludio di una scomparsa, destinata ad archiviare la socialdemocrazia come ideologia politica del secolo scorso, bisogna dire che con questo non finisce la storia: ne siamo tutti convinti. Dunque, la questione è: che cosa c’è dopo l’eclisse? Questa è la domanda di fondo, ancora a aperta e a cui dobbiamo seriamente pensare, approfittando del cono d’ombra e del tempo di attesa che sono tipici di ogni eclisse. E intanto cerchiamo di capire che cosa non va nell’idea di fondo che si associa alla socialdemocrazia e alla sua parabola storica: diversa tra i diversi paesi e nelle diverse fasi, ma sempre con una continuità di fondo. La sensazione comune è che l’idea di socialdemocrazia cominci ormai ad appartenere alla storia, più che al presente. E’ un modello datato. Nonostante contenga ingredienti e soluzioni valide, su singoli punti, in realtà è privo di ciò che più conta nella politica di oggi: la fede in un futuro che sia diverso e migliore del presente. La visione socialdemocratica, incontrandosi col mercato e con la sua logica, ha realizzato nel corso del tempo la sua missione di fondo, arrivando alla diffusione del welfare, un po’ in tutti i paesi industrializzati. Ma alla fine, è diventata un metodo di amministrazione dell’esistente, non di progettazione del nuovo e del possibile. Il pragmatismo socialdemocratico dei nostri giorni, suggerisce razionalizzazioni e correzioni, ma – imponendo di rispettare la logica dell’esistente - inibisce fantasia e sperimentazione, vietando di aspirare a qualcosa di diverso.

L’imperatore è nudo: alla fine qualcuno lo ha detto

C’è poco da fare: la socialdemocrazia nel mondo di oggi non ha più la freschezza progettuale e l’appeal di una volta. E’ una sorta di ricetta della nonna che qualcuno sostiene sia ancora adatta alla torta da cucinare, ma che sempre meno convince chi dovrebbe provarla. Nel capitalismo globale della conoscenza – tanto diverso dall’ambiente in cui quella ricetta è nata - s’avanzano infatti nuove cucine e nuovi cuochi. La vecchia ricetta rimane negli scaffali polverosi della cucina politica, insieme all’Artusi: glorioso, curioso, affascinante mito di altri tempi. Da maneggiare con cura, nelle serate culturali e di gala. Ma senza crederci troppo. In questo rimbalzare del tema “eclissi della socialdemocrazia” - da un blog all’altro, da un libro all’altro – si avverte così qualcosa che assomiglia ad un fremito liberatorio. Finalmente, anche la sinistra comincia a dire, senza troppi arzigogoli, che l’imperatore è nudo. Evviva. Non moriremo socialdemocratici: c’è di più e di meglio da fare. E’ una cosa che si sapeva da tempo, ma che in precedenza ci si limitava a mormorare in tono sommesso in circoli ristretti. Adesso un po’ tutti lo dicono, e c’è nell’aria non la preoccupazione per un ideale che rischia di perdersi, ma il senso di liberazione di chi finalmente riesce a mettere in soffitta un mito diventato ingombrante. Possiamo fare dell’altro … chi ci credeva più?

La socialdemocrazia è stata la forma politica del fordismo

Sono quaranta anni, ormai, che il fordismo – come paradigma economicopolitico – è in crisi. Le imprese e la società civile hanno cercato strade nuove, ma la politica no: è rimasta ancorata alla visione socialdemocratica dello Stato, dimenticando che questa visione è destinata a deperire alla stessa velocità con cui – di fatto – deperisce il paradigma di riferimento. Il fordismo ha generato la visione socialdemocratica del mondo superando il liberalismo mercantile dell’ottocento, che era il risultato di un secolo di rivoluzione borghese contro l’aristocrazia pre-moderna. La grande impresa fordista ha bisogno di pianificazione, non di mercato. E, in politica, non ha bisogno di uno Stato garante delle regole del mercato, ma di uno Stato keynesiano che presidia la domanda, il punto debole che la grande impresa manageriale non è in grado di auto-regolare. Così, nel corso del novecento, in tutti i paesi – con governi di destra o di sinistra – la socialdemocrazia si afferma attraverso i due perni a cui viene agganciata la domanda: il sindacato, che – una volta legittimato – fa lievitare i salari in tutte le aziende, ridistribuendo ai consumi una quota rilevante della produttività generata nella grande fabbrica; e il welfare pubblico, che fa la stessa cosa attraverso la rapida crescita di servizi pubblici essenziali come la scuola, le strade, la sanità ecc.. La socialdemocrazia, in questo senso, non è né di destra, né di sinistra: essa esprime una necessità del paradigma fordista che affida la produttività al management delle grandi fabbriche e assegna alla politica – dunque al sindacato e allo Stato – il compito di “consumarla” con la lievitazione della spesa, privata e pubblica. In questa sintesi tra grande impresa e Stato del welfare si realizza anche un ragionevole compromesso tra il principio dell’efficienza (di cui è portatrice l’impresa) e quello dell’equità, che è invece una funzione assegnata alla politica. Ne viene fuori una pacifica divisione del lavoro tra i compiti del mercato e quelli della politica: il potere di gestire la produzione è delegato alle imprese e al mercato, mentre la politica, che cessa di interferire nel loro funzionamento, si riserva invece di negoziare con le imprese e con i grandi interessi organizzati la distribuzione del reddito prodotto, affermando così nei fatti principi di equità, che superano gli squilibri generati dal mercato. Intorno a questo binomio tra efficienza e equità - essenza dell’assetto socialdemocratico dello Stato - ruota la politica di tutti i paesi industriali fino a che è durata la golden age del fordismo (anni settanta), anche se l’alternanza tra destra e sinistra al governo provoca leggere correzioni della rotta verso l’efficienza, o verso l’equità. Ma che succede quando il fordismo va in crisi? Da allora, questa sintesi non regge più perché ne saltano i presupposti.

La socialdemocrazia ha perso il suo appeal quando la macchina fordista è andata in panne

Prima di tutto, a partire dagli anni settanta, ci si accorge che la produzione non può più essere delegata alle grandi imprese e alla razionalità del mercato, perché questo sistema si è rivelato troppo rigido per reggere alla instabilità del mondo postfordista. Al posto delle grandi organizzazioni che pianificano, viene allora mobilitata la società che, in Italia o in Giappone, si “mette al lavoro”. Entrano in gioco, nella produzione, reti personali, familiari e sociali di peso, che non sono né assimilabili al mercato, né ascrivibili alla burocrazia pubblica. Nell’auto-organizzazione dei territori, che nasce dal basso, prende forma un modo di stare in società che è terzo rispetto ai due modelli precedenti, non essendo né mercato, né Stato, ma “territorio”, “rete”, “capitale sociale” o altre cose: tutte poste oltre la diarchia tra mercato e Stato. La produzione riprende a crescere facendo leva sulle ambizioni e capacità dei tanti individui che si danno da fare, ma anche dei commons cognitivi e territoriali che vengono messi al lavoro nei distretti industriali e nei sistemi produttivi locali. E’ un altro modo di produrre, che mette insieme energie personali e legami sociali: due elementi che la macchina impersonale e organizzativa del fordismo tendeva a trascurare. In secondo luogo, poi, cambiano i compiti e la natura della politica, una volta c centrati sulla distribuzione del reddito. Nella nuova situazione, la distribuzione del reddito non può essere più delegata alla politica, semplicemente. Perché nel modo postfordista di organizzare la produzione è implicito un principio distributivo che non risponde né all’equità politica, né al disegno definito da un tavolo negoziale o da una decisione politico-elettorale. Il nuovo principio è che i redditi vengono autoprodotti dall’iniziativa, e dal potere contrattuale, di ciascuno, esercitato nelle funzioni produttive svolte. Non sarà la politica a definire il reddito dell’artigiano, del piccolo imprenditore o della partiva Iva, ma sarà il modo con cui essi si muovono nella produzione, facendo investimenti a rischio sulle proprie capacità e sulle proprie idee. Investimenti che, se le cose vanno bene, dovranno essere remunerati adeguatamente. E’ equo, non è equo? E’ comunque difficile cambiare le cose senza scoraggiare chi investe sulle sue capacità e sulle sue idee. Dunque, in una situazione del genere, la divisione del lavoro tra Stato e mercato, tipica della socialdemocrazia salta. Infatti:

- la società, con i suoi impulsi personali e i suoi commons cognitivi e territoriali,entra nella produzione e diventa fattore produttivo primario, determinando i livelli di produttività raggiungibili;

- l’intraprendenza individuale e aziendale diventa fonte decisiva nella distribuzione del reddito. Ognuno sa che l’investimento a rischio fatto su sé stesso e l’iniziativa auto-organizzatrice del proprio territorio di appartenenza sono il modo con cui, con un po’ di fortuna, si può migliorare la distribuzione del reddito nelle filiere a proprio favore. I “tavoli” negoziali apprestati dalla politica arrivano in seconda istanza e possono esercitare solo correzioni superficiali sugli esiti di mercato.

Servivano altre idee …

Di fronte a questo deperimento di fatto del modello socialdemocratico, che dura ormai da quaranta anni, si sono cercate vie alternative. Due hanno finito per occupare la scena. A destra, c’è stata la ripresa neo-liberista, che, con la Margaret Thatcher e con Ronald Reagan, ha riabilitato il principio del “libero mercato” che prevalevano prima del fordismo, mettendo al centro del sistema postfordista l’individuo egoista che, grazie alla mano invisibile del mercato, trasforma i suoi vizi privati in pubbliche virtù. E’ stata una politica efficace nella de-costruzione degli assetti eccessivamente vincolistici messi in piedi dal fordismo, ma, dal punto di vista della ri-costruzione si è limitata ad assecondare la tendenza spontanea del sistema. E’ la globalizzazione che ha dato corpo a questo modo di pensare, perché, in un mondo dove l’economia è diventata mondiale e lo Stato è rimasto nazionale, il potere di controllo degli Stati nazionali sugli equilibri sociali e politici tende a precipitare. Lasciando mano libera alle imprese e al mercato. Fino alla crisi di oggi, incubata in questo ritorno alla interdipendenza non regolata che esisteva prima di Ford.

La “sinistra liberale”, ovvero la socialdemocrazia della maturità

A sinistra, crisi del fordismo prima e globalizzazione poi, si subisce il colpo. Il nuovo baricentro su cui ci si assesta è la “terza via” di Blair che inaugura una stagione all’insegna della “sinistra liberale”, ossia di una sinistra che riconosce l’autonomia di imprese e mercati nel definire le forme organizzative della produzione, ma tutela in questo nuovo assetto il diritto dell’individuo all’auto-promozione, attraverso principi di equità che prendono la forma di “uguaglianza delle opportunità” (di studio, di lavoro, di consumo, di partecipazione, di felicità). Dell’individuo, si badi bene: niente tavoli negoziali tra categorie, classi, interessi organizzati, partiti politici. Ma servizi di welfare che rendano possibile a ciascuno una ragionevole auto-affermazione, secondo regole consensualmente accettate. Si combatte, in altre parole, la discriminazione sociale tra individui che possono avere punti di partenza differenti, ma che devono avere tutti ugualmente le loro chances. Questo ritorno al mercato, in una prospettiva di sinistra liberale, non si sottrae al difetto fondamentale che il neo-liberismo ha sperimentato con la crisi degli ultimi anni: dal fordismo, che è un sistema altamente organizzato, non si può infatti uscire tornando a forme elementari e atomistiche di organizzazione sociale. Se la complessità cresce, va bene de-comporre gli assetti fordisti, ma bisogna poi ricostruire assetti diversi, con un livello di organizzazione più alto e sofisticato, non più basso o più grossolano. La crisi del fordismo apre la sfida per la costruzione di forme organizzative che siano non solo efficienti, ma anche flessibili e creative. Avendo una struttura di rete sociale abbastanza robusta da reggere ai cambiamenti e alle sperimentazioni del nuovo, che avvengono a getto continuo un po’ dappertutto. Ed è qui che l’eclissi della socialdemocrazia investe anche la “sinistra liberale”.

Che cosa manca, e che cosa resta da fare

Per andare oltre la crisi del principio efficienza più equità, fatto proprio dalla “sinistra liberale”, occorre superare la classica visione per cui al mercato viene delegata l’efficienza, ossia la produzione di reddito, e alla politica la sua equa distribuzione. Perché oggi la produzione ha bisogno di politica, o comunque di azioni comunitarie, che metta in gioco risorse collettive sempre più importanti; e la distribuzione del reddito, per essere equa, ha bisogno di mercato e di efficienza, nonsolo di politica. Ce n’è abbastanza per cercare qualcosa di nuovo, sia sul fronte della produzione che della distribuzione del reddito. Per una politica post-socialdemocratica e postfordista, servono soprattutto due cose:

a) la riscoperta dei valori sociali nella produzione, sotto forma di riconoscimento del ruolo propulsivo dei commons (conoscenza condivisa, legami di rete, ecologie ambientali comuni);

b) La riscoperta dell’intelligenza personale e comunitaria nella creazione e distribuzione del reddito. La prima è il riconoscimento che l’efficienza produttiva richiede una mobilitazione non solo degli individui e del mercato, ma anche dei legami sociali che danno oggi alla società e alle comunità un ruolo importante nella produzione di valore. La produzione postfordista, essendo fatta di conoscenze e di legami sociali, non può essere delegata ad individui, imprese e mercati soltanto: deve mobilitare la società nelle sue articolazioni. Gli stessi individui andrebbero considerati come persone, ossia come nodi di una rete sociale interpersonale che li fa vivere in modo interdipendente con altri (la famiglia, il gruppo di amici, il circuito locale, le comunità di scopo, le comunità professionali ecc.). Le comunità on line che stanno proliferando nella produzione, nella comunicazione e nel consumo sono il segno di questa socializzazione della produzione che non avviene mediante l’intervento dello Stato, ma mediante l’intraprendenza sociale diffusa, appoggiata all’intelligenza delle persone, ai legami di rete, ai circuiti di propagazione e valorizzazione delle idee. Il nucleo centrale di questo modo di produrre è dato dai commons cognitivi e territoriali che ciascuna impresa e ciascuna persona utilizza per avviare la sua intraprendenza economica: la cultura, le identità, la conoscenza condivisa, i legami di rete ai diversi livelli, le ecologie biologiche e naturali su cui si innesta la produzione

Questi commons non sono sostenibili, e rischiano l’asfissia, se vengono affidati soltanto alle convenienze di mercato o alle paterne cure dello Stato. Ecco perché, nella pratica, le ricette di destra (mercato) e di sinistra (Stato) risultano insufficienti nella cura della produzione: esse non rispettano il principio comunitario dell’auto-organizzazione che genera e rende disponibili le risorse socialmente condivise (commons). Il secondo tema in cui resta molto da fare, andando oltre l’orizzonte socialdemocratico e anche oltre quello della “sinistra liberale”, è quello di come gestire le differenziazioni di reddito e di consumo, ossia la questione della equa distribuzione del reddito conseguito. In passato queste differenziazioni venivano affidate alla funzione livellatrice della politica, considerata come il meccanismo sociale deputato a realizzare la più equa distribuzione del reddito possibile. Ma come si fa a redistribuire il reddito quando la sua creazione e il suo uso prescindono da standard e circuiti centralizzati, su cui la politica può negoziare o influire? Certo, si può sempre usare la strumentazione fiscale o vincolistica per dare e togliere alle diverse categorie e anche ai singoli individui, ma diventa difficile farlo quando il livello di reddito conseguito da ciascuno deriva da una storia – diversa da tutte le altre – di investimenti, sacrifici, rischi che alla fine vengono riconosciuti dal mercato. In realtà, invece di intervenire ex post (sulla distribuzione del reddito) bisognerebbe intervenire ex ante, rendendo più facile alle persone e alle comunità la realizzazione di progetti e investimenti che valorizzano le proprie capacità e le proprie idee. Questo è un ruolo importante della politica, che può mobilitare le proprie risorse (di consenso e di Stato) per creare legami e condivisioni tali da rendere possibile un avanzamento della produttività e del reddito che non sia solo frutto di sforzi individuali, ma che nasca da progetti e impegni di tipo collettivo.

Ricerca di senso, doppia cittadinanza

Il che significa una cosa di particolare importanza: non si deve parlare soltanto di produttività e di reddito, ma anche di senso. C’è oggi una domanda inevasa di senso nel lavoro, nella produzione e nel consumo, cui la politica deve cercare di rispondere, fornendo ragioni credibili per l’impegno delle singole persone e delle loro reti sociali. La risposta a questa domanda di senso è fornita necessariamente dalle comunità e dunque da un processo di progressiva delega a comunità di senso, liberamente scelte dalle persone, funzioni di produzione, di consumo e di welfare che una volta erano assegnate al singolo individuo o allo Stato. Ma lo sviluppo di queste comunità di senso sul terreno della produzione o di servizi fondamentali (la scienza, la cultura, la scuola, la salute, il divertimento, lo sport ecc.) ha bisogno di uno Stato universalistico che fornisca a tutti uno zoccolo essenziale di diritti e di welfare. Lo Stato, in questa accezione, deve rendere possibile ai singoli di entrare e uscire dalle comunità di senso liberamente scelte, senza che ci siano barriere all’ingresso o all’uscita troppo forti. Le comunità rischiano sempre di diventare sistemi chiusi e auto-referenti: tocca allo Stato universale - che fornisce a ciascuno una cittadinanza di base e la possibilità di essere comunque parte di un circuito di produzione e vita sociale accettabile – il compito di “liberare” le singole persone dalle comunità di appartenenza. Lo schema post-socialdemocratico, dunque, è quello di uno Stato postfordista che faciliti lo sviluppo delle comunità di senso in tutte le funzioni della vita economica e sociale, ma che al tempo stesso fornisca a ciascuna persona una doppia cittadinanza, una doppia fonte di diritti-doveri: quella dell’essere parte attiva di comunità di senso liberamente scelte, e quella di essere al tempo stesso cittadino di uno Stato che consente di vivere anche al di fuori della tutela comunitaria. Un’utopia? Può darsi. La costruzione delle istituzioni e della forma politica del postfordismo è comunque all’ordine del giorno, perché i problemi pratici del produrre e del vivere nel capitalismo globale della conoscenza la impongono, a ciascuno e a tutti. L’importante è sapere dove andare, e poi avanzare un passo alla volta, mettendoci la prudenza strategica e la flessibilità tattica che di volta in volta servono. Ma tenendo la barra del timone nella direzione scelta, senza girare in tondo, spinti dall’incostanza dei venti.

* docente di Economia della Conoscenza
presso la Venice International University, Venezia

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