Decrescita e spiritualità indigena: due concetti che mettono in discussione le radici del moderno “progresso”

24 / 6 / 2023

Quando parliamo di decrescita e spiritualità, rimaniamo spiazzati, in quanto non abituati nel nostro lessico politico, anzi tendiamo a vederli con un certo sospetto e pregiudizio. Per comprenderli a fondo bisogna riuscire a contestualizzare questi due concetti, riferirli al loro campo di azione storico-politico e coglierli nella loro utilità per l’azione rivoluzionaria nel tempo presente.

Intanto decrescita, quale significato: la tematica è molto complessa, ricca di variabili e sfumature e dovuta in particolare ai lavori di André Gorz, Ivan Illich, Serge Latouche e molti altri.

Lo sguardo “sospettoso” rispetto al concetto è determinato dal fatto che – se lo si guarda in maniera immediata e superficiale - esso sembra un mito del passato, romantico e nostalgico, un nuovo pauperismo, un ritorno indietro. Ma andando più a fondo delle problematiche proposte da questo filone di pensiero, seppure con tutte le sue variabili e contraddizioni, in realtà troviamo una critica radicale al modo di produzione capitalistico, al circolo mortale tra produzione e consumo, al saccheggio e appropriazione di tutte le risorse del pianeta, in nome del profitto e dell’accumulazione di capitale. È evidente che tutto ciò ha a che fare con la crisi ecologica e sociale che sta portando il nostro mondo sull’orlo dell’abisso, della catastrofe.

Non si tratta di produrre di più e consumare sempre di più: ciò che è già prodotto basta e avanza: semmai è un problema di redistribuzione globale della ricchezza, eliminazione delle diseguaglianze macroscopiche tra ricchezza e povertà ovunque nel mondo. Porre un freno al produttivismo e al consumismo, ridurre il lavoro a un minimo indispensabile, produrre valori d’uso per i bisogni sociali, e non valori di scambio per il mercato e il profitto di pochi, valorizzare in termini politici l’autoproduzione, l’indipendenza, l’autonomia sociale ed economica delle comunità.

L’aumento del consumismo sfrenato è, peraltro, una metodologia tipica del capitalismo attuale e della governance neo-liberale, che costruisce un apparato di cattura del desiderio: desideri indotti, mai soddisfatti, che vogliono di più, sempre di più, in una spirale perversa. E così la povertà diventa una colpa individuale, dove trova la sua applicazione il meccanismo dell’indebitamento. D’altra parte, non sosteneva la Thatcher che “la società non esiste, esistono solo gli individui”? Atomi individuali, in cui ciascuno è per sé stesso, privo di relazioni, in perenne competizione con tutti gli altri e solo i “meritevoli” possono accedere all’elevazione nella scala sociale e realizzare i propri desideri. Ora, un concetto di “decrescita” da porre all’attenzione, è proprio quello di porre un freno alla logica del produttivismo e del consumismo, al continuo saccheggio e privatizzazione dei beni comuni, ricostruire un senso di comunità, un rapporto diverso con la natura e il mondo-ambiente in cui siamo immersi. Sostituire l’essere all’avere, al possesso di merci!

Ma decrescita diventa anche un potente strumento di critica radicale al capitalismo fin dalle sue origini storiche ed ai presupposti ideologici e culturali su cui si fonda.

In primo luogo l’idea di uno sviluppo illimitato nel tempo e nello spazio delle forze produttive: ma come è possibile questo sviluppo illimitato e indefinito in un mondo finito, dalle risorse finite? Un concetto paradossale eantiscientifico, che va contro il secondo principio della termodinamica e la questione dell’entropia: le risorse sprecate non possono essere rimpiazzate, gli scarti e rifiuti non possono essere ricomposti.

Questa visione del mondo sta alle origini della modernità, risale ai secoli XVI e XVII con Cartesio, Bacone, Newton, con la nascita della scienza e della filosofia moderna. Con Cartesio si afferma la separazione tra soggetto e oggetto, tra l’io pensante e la materia inerte, tra uomo e natura e Bacone teorizza esplicitamente la necessità dello sfruttamento della natura attraverso l’uso della tecnologia e la rivoluzione industriale, il dominio sulla terra in nome dello sviluppo economico. Difficile non cogliere l’influenza della teologia cristiana che accompagna tutti questi presupposti ideologici del capitalismo fin dall’accumulazione originaria, dalla recinzione delle terre comuni alla riduzione in povertà delle grandi masse coltivatrici, fino ad arrivare alla privazione dei mezzi per la riproduzione, alla loro trasformazione in operai salariati sotto il dominio del capitale.

Secondo i principi del Cristianesimo, essendo l’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, esso è onnipotente, può manipolare e sfruttare la natura a suo piacimento, in una concezione del tempo lineare, dalle prospettive infinite, illimitate. Facile per il nascente capitalismo definire questo “uomo” come l’uomo bianco maschio occidentale, onnipotente, che in nome del progresso, dell’arricchimento, della proprietà privata, può disporre e sfruttare a piacimento le risorse umane e naturali.

Qui ritroviamo le radici del razzismo, del patriarcato, del colonialismo, delle differenze di classe e di genere e viene codificata una stratificazione gerarchica tra specie superiori e inferiori. Il colonialismo viene legittimato attraverso la inferiorizzazione delle popolazioni indigene, considerate “non uomini”, come nella colonizzazione delle popolazioni dell’America Latina, dove i “conquistadores” spagnoli e la furia devastante, lo sterminio, appropriazione delle risorse di quei popoli non a caso viene accompagnata da un processo di “evangelizzazione”. Così questa differenziazione gerarchica tra umano e sub-umano, fatta anche in nome della religione e del monoteismo cristiano, diventa un vero e proprio paradigma, che riguarda anche lo “specismo”: è possibile e giusto sfruttare il “vivente”, natura e animali, in qualunque maniera possibile. Ma il paradigma è applicato anche nella considerazione delle donne, esseri inferiori, e dei primi operai di fabbrica, non a caso definiti bestie, da sfruttare, sottomettere, dominare, disciplinare.

La logica della razionalità economica e del profitto, messa al primo posto nella scala dei valori della modernità, scorre nei secoli anche nell’illuminismo, nonostante le dichiarazioni di principio sull’universalità dei diritti umani: in piena rivoluzione francese fu repressa nel sangue la rivolta degli schiavi neri ad Haiti contro i coloni bianchi, guidata da Toussaint Louverture, per l’indipendenza e l’autonomia, per una repubblica libera ed autonoma, proprio in nome dei principi della rivoluzione francese e dell’illuminismo. Una contraddizione insanabile, destinata a svilupparsi nel tempo, tra dichiarazioni formali sulla libertà e l’eguaglianza e situazioni storiche e concrete, dove prevale la logica dello sfruttamento, dell’interesse economico, della proprietà privata.

Così anche la logica del profitto, dello sviluppo illimitato attraverso la scienza e la tecnica si manifesta successivamente nel positivismo e da cui non è esente neppure un certo marxismo, o perlomeno le interpretazioni meccanicistiche e deterministiche di Marx proprie della socialdemocrazia.

Molto altro si potrebbe dire, gli spunti sono innumerevoli e complessi: proprio per questo il concetto di “decrescita” apre la mente e allarga gli orizzonti sulla stessa genealogia del capitalismo, l’immaginario che esso è riuscito a costruire storicamente. Per questo Serge Latouche parla di “decolonizzazione dell’immaginario” come strumento di lotta contro il capitalismo e una vera e propria rivoluzione culturale, quanto mai all’ordine del giorno.

Piuttosto che decrescita, forse, sarebbe bene parlare di un’atra crescita, poiché è evidente che ci sono cose che devono crescere nel nostro mondo: la salute come bene comune, le attività di cura, la solidarietà e la cooperazione, li benessere fisico e psicologico, ciò che i Mapuche chiamano i buen vivir.

Il continuo accenno alla “spiritualità” delle popolazioni dell’America Latina, che combattono e resistono alla sottrazione neocoloniale delle loro terre da parte dell’estrattivismo e delle multinazionali, si nutre di questi profondi significati, su cui interrogarci, “camminare domandando”, come dicono gli zapatisti. Spiritualità in questo senso: la critica radicale al produttivismo e a un’idea falsa di sviluppo e progresso, marchiata dal sangue, dalla violenza, dall’ingiustizia. Tutto ciò non ha nulla di mistico o religioso, anzi è un’idea profondamente materialista: sta a significare sentirsi parte del mondo-ambiente in cui si vive, della propria terra, vivere con essa in un rapporto di armonia ed equilibrio, prendersene cura, creare comunità libere ed indipendenti, in grado di costruire relazioni comunitarie. Un altro modo di vivere, altre forme di vita, fuori dal capitalismo e dal suo dominio.

Certo, niente è lineare o precostituito: è una grande scommessa, ma un messaggio importante anche per noi, da interpretare e tradurre, pur nelle differenze, anche nei nostri territori, nella costruzione di nuove istituzioni del comune. Un messaggio rivoluzionario qui ed ora: la rivoluzione non è la presa del potere o la conquista del palazzo d’inverno, un evento da rimandare nel futuro ad una ipotetica ora x, ma un processo attuale e immanente.