Emergenza Nord Africa. 'Grazie e a non rivederci'

da www.huffingtonpost.it

19 / 12 / 2012

Sta per terminare, il 31 dicembre, l'Ena (emergenza nord Africa), il programma di accoglienza del governo italiano e della comunità europea, destinato a decine di migliaia di rifugiati subsahariani in fuga dalla guerra in Libia.

Poco prima che il governo cadesse, il ministro Cancellieri, nell'ultima Audizione alla Commissione del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, ha dichiarato che questo esecutivo ha fatto il meglio che poteva per affrontare lo sbarco dei rifugiati. I risultati sono stati non solo positivi, ma tali per cui il metodo adottato potrà fare scuola per le emergenze future.

La realtà purtroppo sembra indicare ben altro. Tante sono state le zone d'ombra di questo programma di accoglienza, costata ai contribuenti italiani ed europei tanti soldi, ma dai risultati incerti, come abbiamo detto nelle pagine in questo blog e come hanno dimostrato diverse inchieste giornalistiche.

Inoltre delle migliaia di persone sbarcate, loro malgrado, in Italia saranno veramente poche coloro le quali, terminato il programma di accoglienza, avranno raggiunto livelli di autonomia, tali da pensare di potercela fare da sole. Questo perché, nonostante i tanti soldi stanziati, nella maggior parte dei casi i corsi di italiano, gli inserimenti formativi, le borse lavoro, non sono mai partiti. Come per la maggior parte dei rifugiati non è mai stato praticato, al contrario di quanto si era detto, il passaggio dalle mega strutture di accoglienza (casermoni che doveva ospitare decine o centinaia di profughi solamente per i primi giorni) verso abitazioni più piccole, dislocate su tutto il territorio italiano e maggiormente funzionali a favorire processi di integrazione.

D'altronde 18 mesi sono un tempo sufficiente (e 17.500 persone non è un esodo biblico, soprattutto se vengono distribuite su tutto il territorio italiano) per passare da una fase di accoglienza in "emergenza" ad una dove tutti, migranti, operatori, cittadini, costruiscono la normalità della quotidianità, dei progetti di futuro, delle relazioni, della ricerca dei cari, degli affetti, insomma della vita.

La logica dell'emergenza, ora lo sappiamo, interrompe la normalità, i suoi processi di decisione democratica, che tengono conto degli interessi di tutti gli attori coinvolti. Essa fa comodo agli interessi di alcuni contro quelli della comunità, è ostile ai cittadini italiani ed europei, come ai rifugiati e agli operatori del settore, che hanno lavorato in condizioni di continua precarietà ed indeterminatezza.

La sorte di buona parte di noi operatori è legata indissolubilmente a quella dei migranti provenienti dalla Libia, e la maggior parte tra noi perderà dal primo gennaio il lavoro. Di colpo e nel silenzio più assoluto, anche dei sindacati di categoria. Prima di mandarci a casa, però, ci chiedono di esercitare un potere infinito di classificazione sulla vita di queste persone. Infatti il governo, annunciando la fine del programma di accoglienza, ha spiegato come gli enti locali accoglieranno solamente i casi più vulnerabili, quindi certamente minori non accompagnati, famiglie con minori e coloro i quali hanno subito violenze.

Per quanto riguarda quest'ultimo punto, la protezione civile ha mandato un questionario a noi operatori, in cui si chiede di selezionare e classificare, con una croce in una casella, con un sì o con un no, chi ha subito una violenza adeguata e sufficiente per poter continuare ad essere preso in carico dai servizi di accoglienza in Italia e chi, sradicato dalla sua terra in Mali o Nigeria, arrivato in Libia attraverso il deserto, recluso nelle prigioni di Gheddafi, fuggito di nuovo dalla Libia, sopra un gommone e sotto le bombe, ha avuto una vita brutalizzata, ma non abbastanza da meritare ulteriore accoglienza e assistenza.

Poco prima di essere mandati a casa, agli operatori viene dato un estremo, arbitrario ed infinito potere di classificazione sulle vite di altri esseri umani. Si potrebbe obiettare che per analisi di questo tipo, per scarnificare, sondare, mappare il passato e la memoria di una persona (la quale se ha subito efferatezze, prova prima di tutto a dimenticarle) occorrono altre professionalità, altre distanze. Molti operatori per sottrarsi a questo esercizio di catalogazione del dolore, hanno risposto così. Il punto fondamentale è un altro: noi non siamo nessuno per arrogarci questo potere.

E' infine notizia di questi giorni che il governo stia parzialmente tornando sui suoi passi, ovvero specificando che non lascerà nessun rifugiato, proveniente dalla Libia, in strada.

Non dice invece come e quando ciò avverrà, se si protrarranno le modalità di lavoro adottate finora, se per esempio affiderà alla Croce Rossa, (attaccata da più parti per la gestione dei piani di accoglienza) ancora denaro e vite umane.

Si brancola nel buio e gli operatori ed i migranti si sentono come l'agnello prima di Pasqua: sospesi ed in attesa della grazia o di perire. Questo clima di indeterminatezza può servire a far accettare qualsiasi aiuto, purché arrivi anche fuori tempo massimo.

Mi sembra che non la pensino così le diverse comunità di rifugiati, e di migranti in generale, che hanno deciso di scendere in piazza, di prendere parola sulla loro condizione, hanno insomma rifiutato di essere vita nuda e muta. A volte hanno preso parola con gesti forti, altre volte invece, con manifestazioni ed assemblee pubbliche, come in Emilia Romagna, dove da Parma da Rimini , da Reggio Emilia , sono stati promotori di iniziative in cui chiedono un'accoglienza degna, che permetta loro di farcela nel minor tempo possibile da soli.

A Bologna, per esempio, la comunità nigeriana ha chiesto alla cittadinanza tutta di essere presente al suo fianco, giovedì 20 dicembre, davanti la sede della regione Emilia Romagna, dove si svolgerà l'ultima cabina di regia dell'anno tra gli attori coinvolti nella gestione dell'Ena e che presumibilmente si parlerà delle dismissioni della stessa accoglienza.

Il protagonismo, con cui i migranti lottano e irrompono nella città chiedendo di poter prendere parola sul loro futuro, è un atto fondante del loro ingresso nello spazio pubblico e nella cittadinanza reale.