Non dimentichiamo Mohammed, Amadou e Abdou, capri espiatori del fallimento del sistema di accoglienza durante la pandemia

Le tre persone rischiano decine di anni di carcere per fatti risalenti al giugno 2020 nell’ex Caserma Serena in provincia di Treviso.

12 / 7 / 2023

Mohammed TraoreAmadou Toure e Abdourahmane Signate di 27, 28 e 31 anni rischiano fino a 15 anni di carcere per una protesta risalente a giugno 2020, avvenuta all’interno del centro di accoglienza dell’ex Caserma Serena (TV), in pieno periodo pandemico. Le persone sotto processo sarebbero dovute essere quattro, ma il giovane ventitreenne Chaka Ouattara si tolse la vita mentre nel novembre 2020 si trovava da quasi 3 mesi recluso nel carcere di Verona, posto in un ingiusto quanto assurdo regime di isolamento. 

Le accuse rivolte dalla magistratura appaiono del tutto spropositate rispetto al contesto e a come si sono svolti i fatti: le tre persone sono infatti accusate di sequestro di persona e devastazione e saccheggio in concorso.

Il prossimo 8 settembre si terrà l’udienza conclusiva ed è necessario ritornare sull’intera vicenda per far conoscere e ricordare una storia dimenticata troppo presto, in cui la mano pesante e punitiva delle autorità ha già spezzato la vita ad un ragazzo di soli 23 anni.

Il contesto dell’accoglienza

Il luogo è quella della Caserma Serena nel comune di Casier – frazione Dosson, hinterland di Treviso. E’ una storia nota quella della caserma Serena che è sempre bene ricordare per cogliere fino in fondo dove si colloca la vicenda.
L’ex caserma militare è stata trasformata nel 2015 in un hub-centro di prima accoglienza, uno dei più grandi del Veneto con capacità ricettiva di 437 posti letto, la cui gestione è stata assegnata all’azienda Nova Facility s.r.l. . L’ente gestore in passato si è occupato di tutto fuorché di servizi sociali e alla persona: è passata dall’installazione di tubature per il gas ai pannelli fotovoltaici ed a servizi immobiliari, prima di buttarsi nella gestione di CAS a livello regionale e poi nazionale (nel 2020 è arrivata anche all’hotspot di Lampedusa)[1]

Nel corso degli anni, l’accoglienza nel centro spesso sovraffollato (si arriverà anche alla cifra record di oltre 1.000 persone accolte) rivela tutte le gravi carenze e le inadempienze dell’ente gestore rispetto ai servizi offerti (orientamento legale, assistenza sanitaria, pasti, sostegno psicologico, insegnamento dell’italiano ecc). Le testimonianze dei richiedenti asilo raccolte dalla video-inchiesta di Talking Hands a fine 2016 spiegano perfettamente quali sono le pessime condizioni in cui vengono accolti[2].

Sono poi gli stessi richiedenti asilo, con una lettera recapitata al direttore della struttura, a denunciare nel marzo del 2017 le condizioni fatiscenti degli alloggi paragonati a “celle di prigione”, la scarsa qualità del cibo, la mancanza di adeguata assistenza medica e le frequenti intimidazioni di operatori, polizia e carabinieri[3].

In modo del tutto originale e senza volerlo lo conferma anche la Corte dei Conti, che nella relazione “La “Prima Accoglienza” degli immigrati: la gestione del Fondo Nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (2013-2016)” scrive che alcuni centri sono apparsi eccessivamente affollati “come ad es. la ex caserma Serena sita in Treviso (capienza 437, presenze 628)” e che “per la scelta del gestore è stata espletata la gara con il metodo dell’offerta “economicamente più vantaggiosa”. La Corte dei Conti si rallegra che l’ente gestore riesca a far risparmiare lo Stato grazie al fatto che i pasti sono confezionati all’esterno da parte di soggetti economici privati: “si realizza un risparmio di almeno 7 euro pro capite, rispetto ai 35 euro riconosciuti dal Ministero su base nazionale[4]

Il periodo di emergenza sanitaria

Siamo nel 2020, periodo di pandemia da Covid-19. La scure del primo decreto sicurezza del 2018 a firma di Salvini, al tempo ministro dell’interno, come rileverà poi il rapporto “Il sistema a un bivio” di Action Aid e Open polis [5] “ha aggravato le criticità strutturali del sistema di accoglienza” e “il fallimento della gestione della pandemia del Coronavirus nella tutela della salute”.

“Un fallimento annunciato – sottolineerà il rapporto – che ha portato alla distruzione del sistema di accoglienza diffusa per le persone migranti. Il capitolato di gara incentiva i centri di accoglienza di grandi dimensioni a scapito di quelli piccoli e distribuiti sul territorio, aumentando così, fra le altre cose il rischio di contagio da coronavirus”. Dal nord al sud del Paese, infatti, il contagio si diffonde più velocemente nei luoghi affollatti e contenitivi, e crea non poche difficoltà affrontare il lock-down e la quarantena all’interno di centri dove risiedono svariate centinaia di persone in condizioni decisamente inadatte ad affrontare una pandemia, in primis per i bagni e le docce comuni. Ma oltre all’aspetto prettamente sanitario legato alla prevenzione e alle gestione dei contagi, occorre considerare quanto da esso derivi e gli effetti sui fragili equilibri quotidiani dei richiedenti asilo: dalla gestione dei bisogni delle persone in quarantena, a quelli burocratici di rinnovo del permesso di soggiorno a quelli lavorativi e di tirocinio, fino al fattore relazionale tra ospiti e personale. 

Il clima che si respira al CAS di Casier lo spiega Fabrizio Urettini, fondatore di Talking Hands, un laboratorio permanente di design e innovazione sociale, con sede a Treviso, dove rifugiati e richiedenti asilo lavorano insieme a designer, fotografi, insegnanti, giornalisti e volontari, usando l’attività progettuale e manuale per narrare le loro biografie e i loro sogni, intraprendere dei percorsi di formazione professionale e instaurare relazioni all’interno della comunità in cui vivono. Nato nel 2016, nel pieno della crisi umanitaria europea dei migranti, in una prima fase si è posto l’obiettivo di sottrarre all’inattività i richiedenti asilo arrivati nella provincia, la maggior parte dei quali giovanissimi, aprendo una finestra tra i centri di accoglienza dove erano ospitati e il mondo esterno.

«Ricordo molto bene quel periodo perché già nel mese di marzo del 2020 per sensibilizzare la cittadinanza e contenere la diffusione del virus abbiamo deciso di convertire le linee e gli standard di produzione per fabbricare mascherine protettive lavabili. La campagna si poneva come obiettivo quello di diffondere l’uso della mascherina protettiva in quegli strati della popolazione che non possiede un domicilio fisso, che vive nei centri di accoglienza, e che spesso non veniva informata correttamente sulle norme comportamentali per far fronte all’emergenza sanitaria. Questa iniziativa ci ha concesso di continuare le attività del laboratorio mantenendo una finestra aperta all’interno dell’hotspot dell’ex Caserma Serena dove risiedeva uno dei beneficiari del laboratorio», racconta Urettini che ha vissuto direttamente lo stato di smarrimento di molti richiedenti asilo. 

«Il Centro è stato abbandonato dagli operatori e dai mediatori culturali e al suo interno, da quello che mi hanno raccontato, era garantita esclusivamente la distribuzione dei pasti, appaltata peraltro ad una società esterna. Vuoi per le difficoltà linguistiche, vuoi per l’impermeabilità di un luogo come un’ex caserma, le informazioni erano quasi totalmente inesistenti e il centro era di fatto autogestito dagli ospiti. Malgrado la situazione di abbandono nel quale versava la ex Caserma Serena in questo periodo i suoi ospiti si sono adattati alle nuove condizioni nel rispetto generale delle misure di contrasto. Come per tutti i cittadini, anche all’interno della Caserma Serena sono venute meno quelle attività di lavoro formale e informale che consentivano ai suoi ospiti di uscire dal centro per svolgere delle attività professionali e che di fatto, gli garantivano delle forme di micro reddito che poi consentono alle famiglie nei paesi d’origine di vivere grazie alle rimesse dei parenti emigrati in Italia», dice il referente. 

Tuttavia, nonostante la situazione fosse decisamente drammatica, per tutta la durata del lockdown non c’è stato all’interno del centro neppure un caso di positività al Covid-19, a riprova che “l’autogestione” è stata tutto sommato efficace nell’applicazione delle misure di prevenzione. I contatti tra ospiti e la rete antirazzista di Treviso sono costanti, sono anche organizzate delle piccole raccolte di generi alimentari che vengono consegnate all’ingresso del Centro. Grazie all’iniziativa delle mascherine lavabili, Talking Hands fornisce le autocertificazioni ai partecipanti e continua le attività, i volontari del gruppo cercano di fornire corrette informazioni relative alle diverse disposizioni che cambiano di settimana in settimana e poi soprattutto di fornire le mascherine, in quel primo periodo molto difficili da reperire e a costi non accessibili per gli ospiti del Centro d’Accoglienza.

I fatti contestati

È all’interno di questa combinazione, contesto di accoglienza e periodo emergenziale, che avviene la protesta dell’11 giugno e 12 giugno. Siamo a ridosso della fine del primo lockdown che era iniziato il 9 marzo e si era concluso il 18 maggio 2020. 

Fabrizio Urettini lo ricorda bene: «Era un momento in cui gli ospiti della struttura tiravano un po’ il fiato dopo quasi tre mesi di chiusura del centro e dove quasi tutto il personale non era stato più presente all’interno della struttura. Avevano ripreso le attività e per i ragazzi la possibilità di uscire dal centro di accoglienza e di lavorare veniva vissuto, come peraltro per tutta la società, come un momento di sollievo dopo un periodo davvero molto difficile, considerando che così era possibile riprendere ad aiutare economicamente le famiglie nei Paesi d’origine. Quindi un generale alleviamento anche della pressione psicologica facilmente immaginabile». 

Poi la situazione precipita nuovamente nel caos per l’innesco di un focolaio interno. «Si diffuse la notizia della positività al Covid-19 di un dipendente della cooperativa di origine pakistana, che aveva trascorso il periodo del lockdown presso la famiglia nel Paese d’origine e che era rientrato al lavoro senza che venissero disposte quelle misure di contrasto minime come il tampone obbligatorio o un breve periodo di quarantena. L’operatore rientrò immediatamente nel centro, essendo peraltro un lavoratore che alloggiava all’interno dell’ex caserma».

«La notizia – sottolinea il fondatore di Talking Hands – non venne diffusa, evidentemente per evitare il panico, ma venne, senza fornire alcuna spiegazione, semplicemente sbarrato il cancello e impedito agli ospiti di uscire nuovamente». 

La Prefettura e l’Ulss trevigiana hanno deciso di procedere con uno screening sanitario di massa ai 300 richiedenti asilo presenti. Per garantire che gli ospiti rimangano all’interno del centro sono posizionati dei reparti mobili di polizia e carabinieri in tenuta antisommossa, mentre è assente qualsiasi intervento dei mediatori culturali. Le persone per due giorni si riversano nel cortile interno della caserma, cercano di inscenare una protesta, creano delle rudimentali barricate allo scopo di proteggersi da un eventuale intervento delle forze dell’ordine. Inizialmente l’istanza che caratterizza la protesta è quella di allontanare dal centro l’operatore ammalato, hanno paura di contagiarsi, poi diviene una richiesta di poter uscire dal centro e recarsi al lavoro per il timore di perdere il posto, con la conseguenza di non poter più aiutare le famiglie. 

La cronaca delle settimane successive e delle ripercussioni è ben ricostruita dai ricercatori Omid Firouzi Tabar e Alessandro Maculan dell’Università di Padova nell’articolo “L’accoglienza perduta: cronaca di un suicidio nell’emergenza sanitaria[6] pubblicato all’interno del XVII rapporto sulle condizioni della detenzione dell’associazione Antigone:

“Quando la situazione rientra nella calma, lo screening sanitario viene effettuato e non vengono segnalati altri casi di positività. Siamo però solo all’inizio della crisi, di una crisi prevedibile e preannunciata. Il 30 luglio un nuovo controllo segnala la presenza di 137 persone positive al virus, trascorre una settimana e il 6 agosto un nuovo giro di tampone fa salire la cifra a 257, sul totale di 280 beneficiari presenti nella struttura, mostrando la grave fragilità dei sistemi di monitoraggio e contenimento dei contagi e l’assenza, ipotizzata anche dai responsabili dell’Ulss, di chiari protocolli previsti dall’Ente gestore. La decisione di sigillare il campo, bloccando l’insieme delle persone all’interno, suscita nuove proteste e rivendicazioni sia in riferimento alle “storiche” questioni di degrado interno più volte sollevate negli anni, sia, più specificatamente, rispetto alle modalità di gestione della crisi sanitaria. Dalle testimonianze delle/dei dirette/i interessate/i raccolte da una giornalista della stampa locale e attingendo dalle informazioni fornite da alcune associazioni solidali[7], si evince che gli spazi comuni come le cucine, la mensa e le docce hanno continuato ad essere usati da persone negative, positive e in attesa di tampone, che non sono stati effettuati spostamenti dei posti letto in seguito ai molti tamponi effettuati e che in generale non sono stati attivati protocolli interni in grado di differenziare il trattamento quotidiano delle/dei richiedenti alla luce dei risultati dei test. 

Il 19 agosto quattro richiedenti asilo, accusati di sequestro di persona, devastazione e saccheggio in riferimento alle proteste dell’11 e del 12 giugno, vengono arrestati e incarcerati nella casa circondariale di Treviso. La richiesta degli avvocati di revocare o quantomeno mitigare le misure di custodia cautelare viene respinta dal GIP. Egli ha ritenuto che, nonostante l’incensuratezza degli imputati, “le accuse a loro carico apparissero di elevata gravità e loro non dimostrassero propensione al rispetto delle regole nonostante la loro situazione, le protezioni e gli aiuti prestati per la permanenza e la regolarizzazione all’interno dello Stato e della comunità[8]

Queste considerazioni – soprattutto quelle legate alla loro situazione, alla protezione e agli aiuti – si discostano molto dal tipo di esperienza vissuta dai quattro richiedenti asilo nell’ex caserma Serena. Un’esperienza, come abbiamo visto, caratterizzata da abbandono e confinamento, in luoghi sovraffollati e spesso fatiscenti. Dopo circa due mesi di detenzione, a metà ottobre 2020, su indicazioni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), i quattro richiedenti asilo vengono sottoposti al regime di “sorveglianza particolare” di cui all’articolo 14 bis L. 354/1975 per una durata complessiva di tre mesi”.

È duro il commento della rete solidale trevisana sulle conseguenze che porta questa decisione estremamente punitiva: “E’ un regime di isolamento in cui si relegano solo i criminali più pericolosi, perché l’isolamento, di norma, è finalizzato solo ad ostacolare le comunicazioni degli imputati con le loro organizzazioni criminali esterne. Ma i quattro ragazzi hanno 23, 25, 26, 29 anni ed il vero unico crimine, agli occhi di una società sempre più impaurita e incapace di leggere la realtà, è solo quello di essere stranieri, neri e arrivati con un barcone.

Passano i mesi, la vita procede e ci si dimentica di questo episodio e in tanti si sono dimenticati di quattro esseri umani che continuavano a rimanere in un tanto assurdo quanto ingiusto regime di isolamento. Chaka Ouattara, il più giovane di loro non ha retto a questa condizione. I primi giorni di novembre, da solo nella sua cella, si è impiccato. Abbiamo parlato con chi aveva imparato a conoscerlo bene. Chaka lavorava da oltre un anno in una nota catena di panini e carne alla griglia. Parlava molto bene l’italiano, era pieno di vita e voglia di imparare. Aveva molti amici tra i suoi colleghi, gli piaceva la musica ed andare a ballare. Il carcere lo ha ucciso ma prima del carcere lo ha ucciso il grande hub, la caserma Serena, il luogo che doveva accoglierlo e che invece è diventato la sua tomba. Lo ha ucciso un sistema di accoglienza che non ha né logica, né pietà. Una morte che ci riempie di tristezza e di rabbia. Una morte che ci ha dato la carica e l’indignazione per reagire di fronte all’indifferenza.

Con le imputazioni a carico dei migranti, per una persona “normale”, che ha una casa, sarebbe possibile essere scarcerati ed attendere il processo agli arresti domiciliari. Così non è stato per Chaka ed i suoi amici”.

La sorte degli altri indagati. Ci sarà mai giustizia?

Abdourahmane Signate viene scarcerato il 27 novembre 2020 grazie all’intervento dell’avvocato Giuseppe Romano e di persone solidali che capiscono la situazione e decidono di accoglierlo. L’avv. Romano spiega la travagliata vicenda prima della prossima udienza prevista l’8 settembre: 

«Nell’arco delle numerose udienze celebrate e nonostante le tante testimonianze escusse nessuno ha mai potuto attribuire un solo comportamento violento in capo all’imputato. Ed a ragione poiché lui – come gli altri ospiti della Serena – furono vittime di ingiustizia e non artefici. L’imputato fu arrestato a due mesi di distanza dai fatti quando lavorava ed abitava in un altro luogo. Non solo, dopo altri due mesi, durante la detenzione, per quei meccanismi tipici di una burocrazia malevola è stato trasferito a Belluno e messo in isolamento al 14 bis. La cella piatta e con divieti di incontro, nelle stesse celle dove fu detenuto il boss Cutolo. 

L’amministrazione penitenziaria aveva, infatti, ricevuto in ritardo un’annotazione che dava il ragazzo tra gli organizzatori di una protesta in un centro di accoglienza; ergo era sicuramente pericoloso anche in carcere (dove in realtà non aveva assunto nessun comportamento sintomatico di pericolosità per tutti i mesi intercorsi). Si intende che la detenzione al 14 bis per un soggetto giovane, incensurato ed alla prima esperienza carceraria è assai difficile da sopportare mantenendo lucidità e speranza. Infatti, quando mi recai a Belluno lo trovai del tutto smarrito ed assente mentre in contemporanea un coimputato mandato a Verona si toglieva la vita. Di qui la decisione di interloquire subito con il circuito di volontari che ancor oggi lo segue e che fornì subito l’alloggio per i domiciliari poi tolti nelle more del processo.

È evidente che i meccanismi descritti da Fabrizio Urettini, quale teste a processo, ed in particolare l’aver perso il lavoro per controlli non effettuati ai propri dipendenti di rientro dall’estero e per la scelta di tenere nel centro i due casi positivi dell’11 giugno, ha creato un’esplosione di rabbia del tutto spiegabile; tuttavia la contestazione di pene che vanno fino a 15 anni di reclusione appare incongruo rispetto all’assenza di qualsiasi aggressione o lesione. Il reato di devastazione e saccheggio viene contestato per il danneggiamento di oggetti presenti in una piccola stanza il cui totale di danno ben si distanza dai casi di cronaca che vedono questa fattispecie elevata in ipotesi ben distanti per danno arrecato e raggio di azione. 

Il tutto a tacere del fatto che nessun testimone o video in atti ha potuto attribuire la responsabilità anche del più piccolo danneggiamento che viene addossato a coloro che del tutto arbitrariamente vengono definiti capi di una protesta che ha coinvolto centinaia di persone. Il tutto in un contesto che vede questi centri di accoglienza di enormi dimensioni al centro di plurime inchieste giudiziarie per l’opacità della gestione. In contemporanea al nostro processo si sta svolgendo il processo contro il centro accoglienza di Cona dove siamo costituiti invece parte civile per alcuni ospiti. 

Ebbene nel corso dell’udienza davanti al Collegio veneziano di pochi giorni fa, una delle dipendenti ha candidamente spiegato che le firme per la presenza degli ospiti (su cui si parametra il contributo per la cooperativa) erano da loro falsificate a fine giornata. A tacere della altrettanto candida ammissione secondo cui le visite ispettive venivano preannunciate giorni prima per consentire lo spostamento di personale. Visite sempre ostacolare invece per chiunque voglia raccontare questi luoghi per quello che sono e ben venga quindi il tentativo di tenere alta l’attenzione dalla parte di chi ha meno voce».  

Mohammed Traore viene invece scarcerato a fine giugno 2021 grazie alla disponibilità di un connazionale che vive a Napoli e che è ben inserito nel contesto locale in qualità di legale rappresentante dell’Associazione “Mande” che si occupa di progetti di inclusione sociale.

Traore è difeso dall’avv. ta Martina Pinciroli che ripercorre quei mesi e aggiunge ulteriori elementi di riflessione: 

«A fine maggio 2021 mi nomina suo difensore mentre è ancora ristretto in carcere. I primi colloqui sono un sostanziale fallimento perché il ragazzo, originario del Mali, parla solo ed esclusivamente il suo dialetto (bambara) e ad accompagnarlo al colloquio sono ragazzi del Gambia o della Nigeria (anglofoni, pertanto, che nulla c’entrano con il Mali), suoi compagni di cella che si prestano ad aiutarlo constatandone il senso di smarrimento. Gli atti processuali fino ad allora notificati all’interessato sono in italiano e le udienze sinora svolte, compresa quella di convalida, sono celebrate senza l’assistenza di un interprete.

Grazie alla rete di volontari sul territorio, reperiamo un mediatore bravissimo che, su mia istanza, viene autorizzato ad entrare in carcere e mi consente di instaurare un dialogo con il mio assistito, fargli comprendere le accuse a suo carico e farmi raccontare quanto sia realmente accaduto in quei giorni e, più in generale, in tutto quel periodo di restrizioni e limitazioni all’interno della caserma, ivi compreso il suo ruolo in tale contesto.

Sulla scorta della dimostrazione della sostanziale mancata comprensione degli atti non solo in lingua italiana ma anche nelle lingue veicolari (inglese, francese), riusciamo ad ottenere dal Tribunale l’annullamento degli atti fino ad allora notificati che gli verranno successivamente rinotificati tradotti in lingua bambara e, nel corso delle successive udienze, sarà assistito da un interprete di tale lingua e provenienza.

Mohammed ci tiene a partecipare al processo e, pur vivendo a Napoli, ogni volta affronta un lungo viaggio pur di essere sempre presente alle udienze, cosa che è avvenuta. Anche questa circostanza è sintomatica del fatto che Mohammed ancora non riesce a darsi una spiegazione del perché sia stato in carcere quasi un anno, poi agli arresti domiciliari per un altro anno e, attualmente, sia sottoposto all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Altrettanto incomprensibile ed inaccettabile è la prospettiva di dover tornare in carcere stanti e pene elevatissime in caso di condanna.

La questione linguistica non è solo un vezzo formale ma costituisce, a nostro avviso, proprio la ragione del malcontento di quei giorni, quantomeno di una parte degli ospiti della caserma: oltre ad esserci stata una scarsa e tardiva informazione circa la necessità (sulla quale è lecito discutere e se ne discuterà al processo) di chiudere la caserma, alcuni dei richiedenti asilo, tra i quali Mohammed, non hanno proprio compreso le ragioni di tali iniziative perché la caserma non aveva un numero sufficiente di mediatori ed i pochi che c’erano parlavano solo inglese e francese.

Nel corso del processo non sono emerse condotte violente da parte del mio assistito e il suo ruolo di promotore della rivolta viene desunto dal fatto che lo stesso avrebbe interloquito con alcuni ospiti agitando le braccia, circostanza che lo assimilerebbe ad uno dei leader della protesta (durante le spontanee dichiarazioni che l’interessato ha ritenuto di rendere alla scorsa udienza, si è avuto modo di constatare la gestualità molto pronunciata dello stesso). Trattasi, in ogni caso, di supposizioni e di percezioni soggettive dei soggetti che hanno di volta in volta visionato le immagini delle telecamere puntate sul luogo dei fatti e non di circostanze constatate nell’immediatezza.

Mohammed, in realtà, spiega che in quei giorni era molto agitato e preoccupato perché aveva la necessità di procurarsi dei farmaci dall’esterno che la chiusura della struttura gli avrebbe impedito di assumere.

Alcuni testimoni poi, (ma sul punto le deposizioni sono contraddittorie) avrebbero visto Mohammed chiudere uno dei cancelli della caserma con una catena da biciclette, circostanza fermamente negata dallo stesso.

Non possiamo prevedere come andrà il processo ma il fatto che l’ultima udienza sia celebrata ad oltre 3 anni dall’arresto e dai fatti è già sintomatico di una giustizia che funziona poco e di un sistema di accoglienza che non ha certamente saputo migliorarsi pur a fronte di quanto accaduto».


[1] Dai mattoni ai migranti: l'evoluzione degli affari, Collettiva.it 11-08-2020

[2] “Talking Hands”, una video inchiesta sulle condizioni dei richiedenti asilo a Treviso, Meltingpot.org 29-11-2016

[3] Treviso, ex Caserma Serena. I richiedenti asilo in protesta per i tempi d’attesa per la Commissione e le condizioni dell’accoglienza, Meltingpot.org 27-03-2017

[4] La “prima accoglienza” degli immigrati: la gestione del fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo (2013-2016)

[5] Il sistema a un bivio, Centri d’Italia 2020

[6] XVII rapporto sulle condizioni di detenzione, L’accoglienza perduta: cronaca di un suicidio nell’emergenza sanitaria, Rapporto Antigone

[7] Si tratta delle testimonianze raccolte e pubblicate dalla giornalista Alice Carlon e da ciò che ci hanno riferito realtà come l’Associazione Caminantes e l’Adl Cobas di Treviso che hanno seguito da vicino questi accadimenti e supportato alcuni migranti soprattutto in seguito alle incarcerazioni di alcuni di loro che descriveremo nel prossimo paragrafo (nota degli autori)

[8] Disordini alle ex "Serena", restano in cella i capi della rivolta, Treviso Today 26-08-2020

Immagine di copertina: Grafica di Fabrizio Urettini (Talking Heads)

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