Immaginare
il paesaggio della propria terra, del luogo dove dovresti essere
felice, dove svolgi il tuo lavoro, è un elemento iconografico
importante che determina il livello della felicità nell’essere
umano. Lo skyline della città di Taranto è composto da un lato da
due mari : il mare grande ed il mare piccolo, con il ponte girevole
che separa le due parti della città dei due mari. Dall’altro lato,
verso l’interno, ci sono una ventina di ciminiere e quelle nuvole
che costituiscono la cappa di veleni che soggioga la città.
E’
veleno per chi lo sa. E’ sviluppo per chi non vuol vedere.
All’Icmesa di Seveso ufficialmente producevano fertilizzanti.
Nessuno in quel paese della Brianza poteva mai immaginare il volto
brutto e cattivo della fabbrica. Era sviluppo, era benessere, non
poteva esserci, in quel sogno tecnologico e moderno, un lato oscuro
che avesse a che fare con il veleno. Non l’avevano mai immaginato
fino al 10 luglio del 1976, quando il reattore dell’Icmesa fece il
botto, vomitando diossina su 108 ettari di territorio. Nessuno oggi
sembra voler ricordare quella che è stata la prima Chernobyl
italiana.
In quella fabbrica dove lavoravano decine di operai sbuffarono via
300 grammi di diossina pura capace di distruggere per sempre quel
piccolo centro lombardo. Seveso fu evacuata. Le case distrutte, i
campi arati per 40 cm. Tutto fu seppellito in una discarica fatta da
quattro vasche una sopra l’altra. I veleni del reattore racchiusi
in 41 fusti. L’Italia scopriva che il capitalismo produce scorie.
Forse è quella la data in cui nel conflitto tra capitale e lavoro fa
irruzione l’elemento dell’ambiente/salute. Da quel
momento, governi ed imprenditori sono stati ben attenti a manipolare
l’informazione, ad omettere il più possibile il lato oscuro della
modernità, quelle scorie di produzione che distruggevano le vite di
chi lavorava in fabbrica ed i territori dove sorgevano. Quello che
sta avvenendo a Taranto in merito alla vicenda dell’Ilva è senza
dubbio un fatto complesso. Lo è innanzitutto perché Taranto non è
la Brianza. Una città che secondo i piani di espansione demografica
legata allo sviluppo che la fabbrica dei Riva avrebbe dovuto portare,
sarebbe dovuta diventare, nelle stime di venti anni fa, un centro di
oltre trecentomila abitanti. Invece Taranto è ventimila abitanti in
meno rispetto al dato demografico in cui furono fatte quelle stime.
Un territorio dove il fenomeno dell’emigrazione, come elemento
caratterizzante di subalternità del mezzogiorno al Nord del paese,
continua ad essere un dramma del presente e non un ricordo. Taranto
non è la Brianza dove invece le fabbriche, dopo Seveso, hanno
continuato a prosperare trovando posti comodi e sicuri dove smaltire
quelle scorie cattive e portarle lontane dagli occhi e dalle
preoccupazioni dei cittadini. Proprio nel Mezzogiorno italiano o
magari nei paesi africani. Proprio come le scorie e ceneri di
alluminio delle Fonderie Riva di Parabbiago, in provincia di Milano,
finiti nella discarica di Pianura a Napoli tra la fine degli anni
ottanta e l’inizio dei novanta. Taranto resta una città dove il
solo lavoro possibile è quello all’Ilva. Un territorio dove i
termini del conflitto tra capitale/lavoro/salute si invertono fino ad
arrivare all’assurdo di una saldatura di interessi tra padrone ed
operai.
Magagne della sussunzione reale del lavoro al capitale.
Un lavoro che significa morire presto. Prima degli altri. Le
nuvole rosa provenienti dalle ciminiere dell’impianto siderurgico,
dai nastri trasportatori scoperti, dal deposito dei minerali che
sembra quasi uno spiazzale dove è accumulato terriccio ed invece
sono metalli pesanti, minerali, scoperti lasciati allo sbuffo del
vento di Levante, arrivano sulla città costantemente. Non ci sono
fusti di colore sgargiante che escono dalle fabbriche su dei camion.
Tutto è nell’aria e ciò che si vede poco, si sa, preoccupa sempre
meno. Qui non c’è stata una Seveso, nonostante i continui
incidenti che hanno caratterizzato la vita della fabbrica, nonostante
le immense nuvole cariche di metalli pesanti che si sono rovesciate
sulla città ad ogni errore nella produzione, ad ogni guasto
all’impianto. Non c’è stato uno shock
che abbia prodotto una presa di coscienza collettiva su come quella
fabbrica stia uccidendo la città ed i suoi cittadini. Li uccide
lentamente. Senza botti. Non c’è un reattore che esplode e
centinaia e dei corpi che cadono in terra. Anche se a Taranto tutti
lo sanno che la fabbrica fa male. Fa morire presto. Lo sanno ma lo
nascondono, come una verità scomoda che ti fa arrossire e di cui ti
vergogni. Al tempo stesso agisce un elemento di rimozione del
problema frutto del ricatto del padrone che concede il solo lavoro
possibile. La vicenda dell’Ilva abbiamo detto che è complessa ed è
giusto che sia il territorio ad indagarne le contraddizioni ed a
raccontare ciò che succede.
Questa vicenda però ci dice
chiaramente alcune cose.
La prima è che non possiamo più
immaginare il tema della salute come elemento estraneo alla lotta di
classe. La Fiom, che da alcuni anni ha
cominciato a parlare di riconversione ecologica, di salute dei
lavoratori e del territorio come elemento centrale di un piano di
rivendicazioni complessive degli operai, fa fatica ad articolare come pensiero forte questi assunti, sebbene colga la contraddizione di un conflitto tra lavoro e salute, denunciando con forza le responsabilità della proprietà dell'Ilva "assistita" per anni dai finanziamenti pubblici. A farsi sentire sono quei
sindacati, come la Cisl e la Uil che “difendono
il lavoro contro gli ambientalisti”.
Quei sindacati complici dei padroni dell’Ilva che non vedono come
gli elementi stessi del conflitto sindacale siano completamente
sovvertiti quando quelle che dovrebbero essere le organizzazioni
degli operai hanno gli stessi interessi del padrone. Non considerare
l’elemento della salute come parte integrante del conflitto tra
capitale e lavoro, dove la salute da tutelare è quella degli operai,
del territorio e di chi lo vive, significa anche rinunciare ad una
funzione di formazione rispetto al territorio a cominciare da chi in
fabbrica ci lavora. Se oggi a Taranto, e non solo, si parla di
difendere il lavoro contro la salute e l’ambiente è perché negli
anni proprio i sindacati tutti hanno rinunciato a considerare
quell’elemento come parte della lotta di classe.
La seconda è
che ogni volta che si parla di necessità di immaginare un modello di
sviluppo alternativo a quello esistente non possiamo continuare ad
agire sul piano dell’astrazione. Le infinite contraddizioni della
vicenda dell’Ilva devono farci capire che si deve avere sempre il
coraggio di stare da una parte. Produrre acciaio inquina. Non esiste
possibilità di produrre acciaio salvaguardando la salute del
territorio. Per questo difronte a queste divaricazioni non può
esserci nessuna via di mezzo, non può esserci nessuna chimera
riformista per rendere il gigante di veleno un gigante buono. Bisogna
stare da una parte. O dalla parte degli interessi di chi vive e muore
sul territorio – tra cui anche chi in fabbrica non ci lavora -
oppure dalla parte dei padroni che agiscono il ricatto del lavoro
come strumento di calmierazione dei conflitti.
A Seveso i
cittadini continuarono ad essere terrorizzati per anni da quei 41
fusti di rifiuti tossici frutto dello smantellamento del reattore
dell’Icmesa.
Nell’estate del 1982 fu comunicato ai cittadini
di Seveso che i rifiuti erano andati via per sempre. Non fu detta la
destinazione. L’importante era farli sparire per far tornare la
tranquillità. Vagarono in tutta Europa con la complicità del
governo democristiano, di faccendieri e servizi segreti di mezzo continente, mentre le 4 vasche con i rifiuti di tutta l’area inquinata
dall’Icmesa restarono proprio lì. L’importante era dare parole
di tranquillità per continuare a mostrare il volto buono della
produzione industriale.
C’è da scommetterci che tra qualche
giorno ai cittadini di Taranto sarà comunicato che sono state varate
misure che permettono di riprendere la produzione senza inquinare.
Tutti saranno tranquilli. O magari (speriamo!) no.
Cose che
passano veloci. Come le nuvole cariche di veleni.
Nuvole rapide.
La vicenda Ilva di Taranto ed il conflitto tra capitale/lavoro/salute
Nuvole rapide
di Antonio Musella
30 / 7 / 2012