Riflessioni dal Ponte della Libertà

Quegli strani operai che vanno al contrario

2 / 11 / 2008

Il lancio di un’agenzia di stampa, a proposito della straordinaria iniziativa di giovedì scorso a Venezia (quando più di diecimila tra studenti, ricercatori e precari hanno attraversato in corteo il collegamento translagunare del Ponte della Libertà: mai nome poteva essere più appropriatamente benaugurale!), ricordava che qualcosa del genere “non accadeva dai primi anni Settanta, quando la lotta operaia di Porto Marghera invadeva il Ponte spezzando Venezia dalla sua terraferma.”

L'osservazione, di per sé, sottolinea la portata storica della manifestazione di giovedì, ma il parallelo non può che fermarsi al dato oggettivo del blocco del ponte e alla simultanea constatazione del nuovo irrompere del conflitto sociale sul territorio, mentre è il dato soggettivo ad apparire profondamente mutato.

Indizio primo di tale mutamento è la direzione del corteo, inversa rispetto a quella degli Anni Settanta. Oggi il movimento parte dalla laguna, da quella città d’acqua che si è trasformata in “fabbrica della cultura” cioè in un bacino produttivo specializzato nella formazione superiore e universitaria, nella ricerca accademica e non, nel trattamento e nella valorizzazione dei beni architettonici, storici e culturali, anche del contemporaneo, per andare ad investire la dimensione metropolitana: ma non si tratta di un semplice rovesciamento di ciò che avveniva in passato.

La logica che portava gli operai a imboccare il Ponte della Libertà, per occupare il terreno simbolico del centro storico veneziano (che era la città “dei siori”, e la sede dei palazzi del Potere politico), presupponeva un territorio in cui le funzioni produttive e quelle governative rimanevano chiaramente divise e distinte sul piano topografico e, soprattutto, avevano negli stabilimenti di Porto Marghera, nelle cittadelle operaie della chimica e della metalmeccanica, il proprio indiscutibile baricentro.

Oggi, il fatto che migliaia di giovani si siano ritrovati a Piazzale Roma e abbiano marciato verso la Terraferma testimonia dell'assunzione di una dimensione pienamente metropolitana, anche da parte di questa composizione sociale in lotta, nominalmente studentesca ma costitutivamente precaria.

Quella diffusa metropolitana è la dimensione produttiva della contemporaneità, articolata in una pluralità di luoghi senza centro, che non origina più, al nostro livello locale, una netta separazione funzionale tra Terraferma e Città storica, ma che unisce attraverso molteplici connessioni trasversali spazi qualitativamente differenziati, disseminandoli di dispositivi (tra cui le stesse sedi universitarie), dove si mettono a valore linguaggi, conoscenze, relazioni. Oggi, studenti e precari non marciano verso un luogo, non muovono da un punto di partenza segnato dallo sfruttamento per giungere ad un punto di arrivo simbolicamente connotato come centro del Potere; essi si muovono, piuttosto, dentro al tessuto della fabbrica sociale metropolitana, spazio dell’ambivalenza che organizza la forza lavoro immateriale precaria e che, per ciò stesso, costituisce il terreno di proliferazione delle nuove soggettività che si oppongono alle forme di questo sfruttamento. Uno spazio che già eccede la rappresentazione delle aule universitarie come fabbrica della conoscenza, uno spazio metropolitano che questo movimento ha già scelto come il proprio campo di battaglia, andando a sancire così l'esodo dall'università-torre d'avorio, quella dei baroni, dei loro discepoli, dei rettori, delle logiche clientelari, della didattica verticale calata dall’alto.

Lasciarsi alle spalle questa università significa sfuggire alla trappola di chi ci vorrebbe utilizzare per difendere gli antichi privilegi baronali, di chi ci vorrebbe strumenti di una “mobilitazione per la conservazione” della miseria esistente, pronti ad “agitare tutto affinché nulla cambi”. Scegliere il tessuto metropolitano come campo di battaglia testimonia, contemporaneamente, della comprensione (e del rifiuto) di un destino di “precarietà infinita”, che già si materializza per la maggioranza di noi nel tempo degli studi universitari.

Dal punto di vista soggettivo, il movimento veneziano sembra poi condividere alcuni tratti decisivi con quelli emersi dall’Onda nelle altre città d'Italia. Primo fra tutti, il suo carattere irrappresentabile: la sua permanente tensione alla libertà da gabbie ideologiche ed identitarie, come quelle rigurgitate in Piazza Navona a Roma, riproposizione farsesca di un'identità tragicamente monolitica, perciò ideale alla strumentalizzazione e naturalmente propensa al servizio del potere costituito e delle sue logiche. Un movimento indipendente: semplicemente estraneo alle dinamiche partitiche e alieno da pruriti corporativi.

Un movimento che sarebbe miope etichettare come meramente oppositivo. Questo movimento potrà essere, sarà, è già costituente, nella misura in cui si concepisce la resistenza alla distruzione governativa dell’università come bene comune, non come un atto meramente reattivo, ma come un motore che costringe il potere ad adeguare e mutare le forme della propria presa, costituente poiché le istituzioni del comune si costruiscono dentro e contemporaneamente ai percorsi di lotta, in opposizione ai poteri costituiti, come laboratori di democrazia e autodeterminazione.

Il conflitto esploso contro il complesso dei provvedimenti governativi targati Tremonti-Gelmini è, allo stesso tempo, il campo della battaglia politica per un'università nuova. Le due tensioni non sono separate, ma simultanee. Questo è un movimento costituente che, nella mobilitazione, coniuga la contestazione del disegno del governo con la costruzione dell'università del comune – oltre perciò lo schema “privatizzazione versus pubblico (cioè di Stato)” –, ovvero di un’università che si configuri come luogo di socialità e di costruzione di pensiero critico, dopo che la riforma del 3+2 aveva imposto tempi di lavoro e di studio da istituzione disciplinare in senso classico. L'università del comune è quella che ridisegna i termini della didattica, la sua agenda di contenuti, ma, soprattutto, il modo stesso di concepirla in termini di negoziazione con il corpo docente. L'università del comune è quella innervata dalle reti delle pratiche di autoformazione, esperienze diverse che in diversi atenei parlano della necessità di trasformare una didattica in debito di ossigeno in un'arma per inflazionare il sistema dei crediti, per rovesciare il tentativo di imporre una misura al sapere e alla sua produzione.

L'università del comune è, come prima accennato, l'università metropolitana che rifiuta di farsi confinare, controllare, individualizzare, dispositivo di libertà che interviene nella dimensione metropolitana della produzione di saperi, che assume la precarietà dello studente, del ricercatore e del lavoratore della conoscenza quale punto di ripartenza per reclamare riconoscimento, dignità e reddito, dentro e contro una crisi, i cui costi – come ormai è noto – non intendiamo certo pagare noi.

Venezia, 2 novembre 2008

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