L'attualità della rivolta (dall’Europa al Maghreb, all’Egitto)

Relazione I appuntamento LUM 2011

28 / 2 / 2011

Reazioni correnti ai tumulti: evento istantaneo e retorica anarco-insurrezionale con tocchi giovanilistici oppure riconduzione subalterna e rétro a modelli tradizionali. Lasciamo perdere il 1789 della moltitudine globale e mettiamo piuttosto a verifica l’intelligente ma non condivisibile distinzione che fa Badiou (seminario del 19 gennaio 2011): dopo il corretto rilievo sulla “rarità” delle sommosse tunisine, ovvero di essere vittoriose: ci sono –in un corso storico che evidentemente non si è rinchiuso nella coppia democrazia parlamentare-economia di mercato, cioè nella fine della storia– fasi rivoluzionarie e fasi “intervallari”, in cui le sommosse tengono aperto il discorso, testimoniano le contraddizione e preparano gli elementi della rivoluzione, in primo luogo il partito e una strategia alternativa di cambiamento. Per es. la fase che va dal 1815 al 1905-1917 (un po’ lunga, davvero).

Vogliamo però muoverci in un’altra direzione, studiando la forma-tumulto in sé, non quale preparazione e deviazione rispetto a un ulteriore (la rivoluzione) e vogliamo perciò cambiare ipotesi, sostituendo all’alternanza metafisica fra periodi rivoluzionari e intervallari quella storica tra fasi di potere illegittimo e di legittimazione sovrana. Le prime riconoscono la legittimità del tumulto, le seconde lo esorcizzano. Le prime si fondano e si consolidano sullo sprigionarsi dei tumulti, le seconde sulla loro repressione. La pratica dei tumulti comunali e la teorizzazione machiavelliana del tumulto chiudono l’assetto feudale e la dottrina scolastica (tomista) del summum bonum in un ordinamento plurale gerarchico. Le grandi rivoluzioni attraversano la pratica e la teoria della sovranità legittima centralizzata che si instaura successivamente, ogni volta cambiando (e rafforzando) l’assetto dello Stato sovrano grazie a una generalizzazione del tumulto funzionale al primato sociale dell’Uno, al compattamento del comando e dell’amministrazione.

Così è avvenuto per il successo (parziale, se si considerano gli obbiettivi più radicali) della Rivoluzione inglese del 1647-49 e per la Rivoluzione francese (una volta sconfitti i giacobini), che già per Tocqueville rappresentò una fase di passaggio incrementale nella centralizzazione amministrativa dello Stato. La funzionalità delle rivoluzioni russe e cinesi alla realizzazione dell’accumulazione originaria e alla costituzione di Stati-Nazione a vocazione imperiale, sempre una volta stroncate le aspirazioni più radicali (primo bolscevismo e Rivoluzione culturale), potrebbe essere validamente sostenuta. Non meraviglia pertanto che la crisi odierna della sovranità e il costituirsi di un assetto mondiale multipolare e multilivello (che non sono la stessa cosa ma concomitano), per un verso, rilanci nella governance elementi di mediazione che potrebbero ricordare il medioevo (o almeno il bonum commune nella versione della seconda Scolastica di Suárez, modellata già sugli Stati moderni), per l’altro conosca una rinnovata èra dei tumulti e l’emergenza di pratiche di potere illegittimo che della governance costituiscono il rovescio e sviluppano un loro discorso sul comune. In tal caso i tumulti non possono assolutamente passare per un embrione di rivoluzione, ma vanno valutati nella loro specificità e nella loro capacità di definire una nuova fase storica, di esito imprevedibile ma non destinato a ripercorrere la trafila di lotta spontanea-rappresentanza-partito-conquista legittima(bile) dello Stato sovrano esistente.

In primo piano balza non il perfezionamento rivoluzionario dell’Uno (con conseguente servitù volontaria), ma la sua frattura che può declinarsi tanto come esodo quanto nella versione più tradizionale, comunarda, della rottura della macchina statale. Politeismo versus monoteismo. Ricordiamo la mitopoietica del Contr’Un di Étienne de la Boétie. Al centro si colloca l’insorgenza in opposizione all’obbedienza, quindi pratiche (arcaicamente recuperate come diritto) di resistenza versus l’irresistibilità della legge. Alle note virtù dell’obbedienza per hobbesiana obbligazione o in cambio dei vantaggi dello Stato sociale si contrappone non solo la constatazione che l’obbedienza non è più una virtù (ultimo eco dell’antinomia neo-aristotelica medievale magnanimitas-humilitas), ma la definizione delle virtù della disobbedienza. Esse non sono più la virtù individuale del Principe nuovo o la vertu del Popolo-Nazione a difesa delle istituzioni repubblicane, ma virtù moltitudinarie. Dovremmo, più che non rinnegare, rileggere tutta la tematica della rivoluzione otto-novecentesca come Machiavelli e i giacobini facevano con Roma. Riproponendola nell’imitazione-citazione e tradendola nella sostanza. Non ci guidano Mnemósune, la musa della memoria, né Prometeo, colui che calcola in anticipo –i donatori di senso (immaginario) proveniente dal passato o dal futuro, origine e fine– ma ci guida piuttosto l’immaginazione del e nel presente, la capacità di narrazione costituente.

Finora abbiamo parlato della forma-tumulto, rivendicandone l’autonomia e i tratti comuni che intreccia a tutte le tipologie di lotta oggi presenti, con qualche analogia anche per il passato1. Occorre adesso però individuare i tratti specifici della situazione attuale, su cui si innestano le divaricazioni anche sensibili dei singoli tumulti. Un primo momento è la crisi economica e finanziaria generalizzata la cui rapidissima diffusione e l’immediata connessione con forme autoritarie di controllo spiega la virulenza e la velocità dei movimenti (Internet è fattore ambivalente dei processi di globalizzazione), il passaggio brusco dal silenzio degli oppressi o dal torpore dei precari alla liquidazione della paura e alla presa di parola. L’impoverimento, che priva di ricompense keynesiane i meriti dell’obbedienza, produce per contraccolpo il degrado dall’alto della rappresentanza erosa (insieme allo Stato-Nazione) dal neo-liberismo globale e facilita il rifiuto dal basso della stessa. Nel processo di impoverimento entrano due fattori, diversamente mescolati nei paesi europei in decadenza da una condizione agiata e nel Nord Africa già ai limiti della sopravvivenza: 1) l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, legato alla finanziarizzazione e alla speculazione sui futures, 2) la crisi della società della conoscenza.

  1. Il 3 febbraio è stato pubblicato il FAO Food Price Index, l’indice che misura la variazione mensile dei prezzi internazionali di un paniere di cinque gruppi dei cibi più usati nell’alimentazione mondiale –zucchero, cereali, latticini, olio e grassi e carni– sulla base di 55 quotazioni dei mercati internazionali. Tale indice è salito ancora per il settimo mese consecutivo e nel gennaio 2011 è aumentato del 3,4%, il più alto aumento percentuale dal 1990. Il balzo alimenta la paura che si ripeta la situazione verificatasi nel 2007-2008, quando il prezzo dei prodotti dell’agricoltura era salito così tanto da portare Haiti e il Bangladesh a scontri interni. Nello scorso settembre ci sono stati scontri in Mozambico per l’aumento repentino dei prezzi di generi di prima necessità quali pane e olio, costringendo il governo ad abbassarli di nuovo. La spinta al rialzo non si attenua e nei prossimi mesi il costo del cibo è destinato ad aumentare ancora: in particolare nel settore dei prodotti caseari (+6,2% dal dicembre 2010), oli e grassi (+ 5,6%). Il grano è aumentato giorni fa del 3,3%, in seguito a speculazioni borsistiche conseguenti alle tempeste che si sono abbattute negli Stati Uniti, alle inondazioni in Australia e Canada e alla siccità dell’anno scorso in Russia e Ucraina.

Ancor prima di questi dati Barbara Stocking, CEO di Oxfam, un potente gruppo di organizzazioni umanitarie di tre continenti impegnato a combattere la fame nel mondo, aveva esortato a mettere la penuria di cibo al primo posto nell’agenda annuale del World Economic Forum di Davos, denunciando il pericolo di rivolte degli affamati, aumentati dal 2007 di 150 milioni, e citando le migliaia i suicidi annui di agricoltori indiani a causa dei debiti contratti. Intervistato a Davos dalla CNN, l’economista Nouriel Roubini ha detto che il rapido aumento dei prezzi del cibo rappresenta una seria minaccia alla stabilità e la sicurezza globali. «I fatti successi in Tunisia e che stanno succedendo oggi in Egitto e gli scontri in Marocco, Algeria, Pakistan, sono legati non solo alla percentuale di disoccupazione, al reddito e alla sperequazione economica, ma anche al rapido aumento dei prezzi del cibo e dei prodotti più basilari». Ne è riprova anche il crescente successo della guerriglia dei Naxaliti indiani, forte di un esercito di 10-15.000 uomini, che combatte contro le aree speciali in cui lo Stato concede vantaggi fiscali per favorire la costruzione di nuovi impianti industriali sottraendo la terra ai contadini.

Il fattore “povertà” pesa in termini diversi nel Nord Africa, dove ci sono Stati ricchi (nel rapporto risorse/abitanti) quali Libia e Algeria, dove sussistono problemi di ripartizione del reddito (nel primo fra cittadini libici e immigrati, nel secondo fra arabi e berberi e all’interno delle etnie), paesi dove la povertà e la disoccupazione sfiorano in alcune zone rurali interne la fame (Tunisia e Marocco), infine l’Egitto dove l’alimentazione è diventata da qualche anno un grosso problema, anche per la totale dipendenza dagli aiuti esteri e dalla speculazione finanziaria. In tutti i casi l’aumento dei prezzi alimentari e gli effetti della crisi sull’agricoltura hanno peggiorato la condizione di vita delle masse popolari, accompagnandosi a scandaloso lusso e corruzione clientelare della classe dirigente e degli apparati pubblici, ben oltre il facilmente individuabile familismo sfrenato dei vari rais.

Caratteristica comune è anche il carattere puramente formale dei processi elettorali e delle garanzie giuridiche in tutti questi paesi, ciò che ha costituito un importante fattore per lo scatenamento della protesta e che probabilmente condurrà a forme rappresentative più civili. Quanto era scaricato nell’emigrazione (oggi molto più difficile nella Fortezza Europa) oggi si è sprigionato come resistenza e rivolta interna –dall’exit alla voice. Fino a far saltare la macchina delle pluriennali leggi d’eccezione e della crescente repressione poliziesca. Il fatto che tutti i partecipanti alle lotte pongano l’accento sulla lotta per la libertà più che per il pane testimonia la radicalità delle lotte stesse e la loro valenza politica più che sminuire le motivazioni economiche. Osserviamo che il passaggio dal diritto di fuga all’insurrezione si riflette nella coscienza dei già immigrati e dei nuovi migranti, modificando il loro rapporto con i precari dei paesi di arrivo e costringendoci a ripensare anche le nostre forme di intervento. Del resto anche episodi recenti avevano segnalato un grado diverso di partecipazione e radicalità –pensiamo a Rosarno e alle “salite” su gru e torri di Brescia e Milano.

2) Anche laddove la pauperizzazione e la fame non sono così eminenti e non abbiamo per ora “rivolte del pane”, si manifestano tuttavia fenomeni di deprivazione e deception rispetto alle aspettative di ascesa sociale collegate alle illusioni del capitalismo cognitivo. L’impoverimento fa tutt’uno con lo sfruttamento della relazionalità sociale, il suo non riconoscimento salariale e occupazionale, la distruzione del tessuto connettivo politico-sindacale del fordismo dentro le nuove reti di connettività del post-fordismo. Fenomeni del genere sono presenti anche nelle situazioni di cui a 1), per esempio in paesi a forte scolarizzazione gratuita e disoccupazione di laureati, tipo Tunisia. Domina ovunque la figura del graduate with no future (cfr. n. 1)

Allora la povertà frustrante diventa la casella vuota a partire dalla quale tutto si rimette in moto gettando sul tavolo la forza della relazionalità conseguita e denegata. La marginalità dell’Italia rispetto alla fase ascendente della società della conoscenza diventa la situazione-limite più favorevole a farne un laboratorio politico degli effetti creativi della precarietà, il luogo della virtù che prende corpo nella congiuntura ambigua o fortuna. Il simmetrico del grande esperimento pilota del populismo mediatico di Berlusconi. Ovvero un exemplar di tumulto non riassorbibile nel sistema dei partiti e delle cinghie di trasmissione sindacali, per quanto sfilacciate e allentate (come invece in parte avviene nel resto d’Europa). Vedi il flop di Camusso e Bersani-Veltroni nel tentativo di controllare la Fiom durante la vertenza Fiat –un interessante limite al disciplinamento concertativo della forza-lavoro, anche se non fa subito dei metalmeccanici un soggetto politico e sovversivo e neppure apre la strada allo sciopero generale a breve.

Un tratto corrente nella lettura europea e americana dei tumulti e che desta la massima protesta dei protagonisti è quello che enfatizza il pericolo di un’islamizzazione integralista della società una volta abbattuta la tutela dei dittatori –un tratto che di regola ha per slogan di evitare un nuovo Iran. A parte, nel caso specifico, la sottovalutazione dei caratteri peculiari di sciismo e sunnismo, va rilevato come proprio i movimenti in questione si presentino quali soggetti di massa tipicamente post-islamisti, contenendo in modo minoritario tendenze di islamismo sociale orientate, caso mai, verso il modello turco, non wahabita o peggio qaedista. Questo era abbastanza scontato per la Tunisia, paese profondamente laicizzato, lo era meno per l’Egitto, dove i pur moderati Fratelli Musulmani non hanno svolto il ruolo aspettato nell’agitazione insurrezionale, scavalcati da forze spontanee, con la partecipazione di strutture di base che hanno rapidamente estromesso i leader conservatori di Al Azhar e della Chiesa copta. Più problematica è la situazione algerina, dove la lotta politica (anzi la guerra civile) negli anni passati era stata segnata da forti elementi di fondamentalismo. In linea di massima lo spauracchio dell’islamismo è stato agitato dai governi locali e dagli israeliani per ottenere il consenso americano a regimi mafiosi ma collaborativi.

Entriamo così nell’ultimo ordine di considerazioni su queste insorgenze, che è impossibile scorporare dal contesto geopolitico: esse infatti stanno disintegrando l’ordine americano nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, non senza interferire anche nel grande scontro africano fra Usa e Cina, di cui la secessione referendaria del Sudan meridionale dal Sudan è stato l’ultimo episodio saliente. Dopo una prima fase di sbandamento, il Dipartimento di Stato ha cercato di sostituire i cavalli perdenti Ben Ali e Hosni Mubarak con Mohamed Ghannouchi (primo Ministro dal 1999, indicato fin dal 2006, secondo WikiLeaks, dall’ambasciata americana a Tunisi quale possibile successore) di Ben Ali e Omar Suleiman, notorio residente Cia per tutta l’area mediorientale da decenni. Se l’operazione riuscirà, vedremo, ma un primo risultato è che è stata spazzata via ogni influenza europea, soprattutto dalla Tunisia, già fantoccio franco-italiano (addirittura feudo di Craxi e Berlusconi- Ben Ammar). Allo stesso tempo sono cresciute le preoccupazioni di Israele, stretto ora fra un Libano, dove gli Hezbollah (amici ma non succubi dell’Iran) sono andati al potere con un colpo di Stato legale, e un Egitto che, pur in mano ai militari, dovrà ostentare un certo grado di grinta anti-israeliana per accontentare le masse in rivolta, sia musulmane che copte che laico-nazionaliste. Sintomatico inoltre il terrore che il declino di Mubarak ha messo al quisling Abu Mazen, ma sembra che neppure Hamas sia troppo contenta. Obama cercherà di sfruttare l’occasione per riproteggere Israele su posizioni meno oltranziste e garantire la sua carta Suleiman, ma è un gioco complicato e rischioso, tanto più che anche Giordania e Yemen sono in subbuglio e la Turchia diviene sempre più infida, nella speranza di guadagnare il vecchio ruolo egemone ottomano. La sconfitta irakena pregressa e quella afghana ormai ineluttabile stanno producendo i loro effetti.

Questo “grande gioco” –che potrebbe diventare più redditizio di quello disastroso sullo scacchiere afghano-pakistano e si salderebbe alla riconquista clinton-obamiana dell’Africa­– potrebbe però incontrare un esito catastrofico se il domino raggiungesse gli Emirati e l’Arabia Saudita oppure l’Algeria e la Libia. Se al momento gli Usa riescono a controllare i governi di transizione, nel medio periodo le cose potrebbero precipitare su larga scala; inutile osservare che anche i rifornimenti di petrolio e gas per l’Europa andrebbero compromessi, almeno ai prezzi attuali, con conseguente aggravamento della crisi economica. Di un contenimento del flusso di immigrati, neppure a parlare!

Ponendo l’accento in simultanea sullo spontaneismo delle insorgenze e la loro positiva liberazione dai vincoli confessionali e dalle influenze occidentali che paralizzavano i governi precedenti (il tratto più vistoso in comune con lo scuotimento dei pesi ideologici dei movimenti europei) ma anche sulla forza del condizionamento geopolitico ci riserviamo evidentemente ogni previsione sul futuro –che non è d’altronde il nostro mestiere. Più interessante, e con gli occhi volti alle prospettive italiane e generali, insomma al tema del tumulto virtuoso che è l’argomento dei nostri seminari, ci domandiamo: cosa sarà virtù moltitudinaria? come potrebbe configurarsi una moderna variante di potere illegittimo? quali istituzioni ipotizziamo nascere dal tumulto, quali regole flessibili e provvisorie installarsi? quali i dispositivi per favorire la felice riuscita degli incontri, fronteggiare le avversità inevitabili, contenere le contraddizioni interne alla moltitudine, revocare i fatti compiuti? Su queste linee si muoveranno i prossimi incontri.

1Paul Mason, Twenty reasons why it's kicking off everywhere, riportato in http://www.bbc.co.uk/blogs/newsnight/paulmason/2011/02/twenty_reasons_why_its_kicking.html, offre una buona sintesi dei tratti comuni a varie insorgenze generazionali, per es. la centralità del graduate with no future con ampio access to social media e conseguente capacità di esprimersi in a variety of situations ranging from parliamentary democracy to tyrrany. I protagonisti delle lotte sembrano allergici to traditional and endemic ideologies: Labourism, Islamism, Fianna Fail Catholicism etc... in fact hermetic ideologies of all forms are rejected, coinvolti piuttosto in un horizontalism che kills vertical hierarchies spontaneously, all'inverso delle esperienze novecentesche che invece uccidevano il dissenso burocratizzandolo. Sono generazioni fortemente indebitate per mantenersi agli studi

e che, in ogni caso, will be poorer than their parents, per di più con prospettive di maggior disciplinamento sociale. Un irrequieto proletariato intellettuale mescolato al resto della povertà e del sottoproletariato in una situazione che ricorda quella ottocentesca (con i raves al posto dei cabarets) e un caratteristico sprezzo della paura che si associa proprio al loro spiazzamento sociale e al declino delle solide e circoscritte situazioni di classe (You couldn't "have a day off" from the miners' strike if you lived in a pit village). L’eccedenza di sapere valorizzabile li rende ingovernabili, malgrado gli strumenti di controllo della “guerra al terrorismo“ e molto attenti alla dimensione invasiva del potere e alla difesa della loro autonomia, anche in regimi duramente repressivi.