Le parole sono importanti
“La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” (Costituzione Italiana, art 42.2).
Il nemico principale di ogni città, della sua bellezza e funzione sociale, è la proprietà frazionata del suolo. Quello che era indiviso e comune è oggi in mano ai proprietari delle aree e dei terreni, che cercano di indirizzare la pianificazione per incrementare la propria rendita fondiaria: negli ultimi decenni hanno lavorato sodo, influenzando la legislazione urbanistica a proprio vantaggio e creando un nuovo lessico, ambiguo e pernicioso; e così oggi sentiamo parlare di programmazione negoziata, urbanistica contrattata, diritti edificatori acquisiti, diritto di iniziativa e di partecipazione (dei proprietari...). In altri termini il soggetto pubblico deve fare un passo indietro, e un inchino, alle ragioni della speculazione fondiaria e immobiliare. La possibilità delle amministrazioni pubbliche di pianificare le trasformazioni del territorio nell’interesse comune sono ridotte e compromesse da meccanismi di fondo iniqui e avversi all’idea che la città sia un bene comune e la casa un bisogno primario.
Riforma e Controriforma
“Soltanto una legge urbanistica che preveda l’esproprio obbligatorio
e totale delle aree e delle zone di espansione a favore del comune
(…) può impedire che si perpetui la gara di corruzione e di favoritismi
che accompagna, fatalmente, la redazione, l’adozione, l’approvazione,
e persino la pubblicazione e l’esecuzione dei piani regolatori”
scrive
Fiorentino Sullo, democristiano e ministro dei Lavori Pubblici tra ’63
e ’64.
Stava lavorando a una riforma dell’urbanistica che avrebbe determinato un altro corso alla storia del territorio italiano, andò diversamente:
il blocco del mattone affossò i suoi tentativi e Sullo finì marginalizzato
politicamente. Il dibattito di quegli anni porto frutti più timidi, come la
legge sugli standard urbanistici (1968) e la legge “Bucalossi” del 1977.
Quest’ultima stabilisce che il diritto di costruire non è connesso alla
proprietà del suolo ma viene concesso dall’amministrazione (concessione
edilizia); stabilisce poi che il detentore della rendita deve restituire
alla comunità una quota del plusvalore che realizza costruendo, in opere
o in denaro, gli oneri di urbanizzazione.
La natura di questa legge è stata stravolta nel 2001. Sino ad allora i
proventi degli oneri (entrate straordinarie) dovevano servire per finanziare
spazio pubblico e infrastrutture, come strade, giardini, asili... (uscite
straordinarie). Dal 2001 il governo centrale taglia i trasferimenti agli enti
locali e consente loro di usare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente.
Questa decisione ha innescato una spirale perversa che ha costretto
i Comuni a “monetizzare” il territorio per “fare cassa” e raggiungere il
pareggio di bilancio attraverso il consumo di suolo.
Standard, indici e colori
“Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai, che non si deve mai confondere
la città col discorso che la descrive. Eppure tra l’una e l’altro c’è un
rapporto” (Italo Calvino, da “Le città invivibili”).
L’urbanistica non è una scienza esatta, ma una disciplina, e le rappresentazioni
che impiega sono inevitabili riduzioni della realtà. Quelle belle
tavole piene di retini e campiture colorate possono trarre in inganno, e far
sembrare piena di verde una città dove in pochi anni il consumo di suolo
è avanzato impietoso. A quei colori corrispondono delle funzioni, a ogni
area corrispondono degli indici, ovvero dei parametri che dicono quanto
si possa costruire. Gli standard urbanistici invece fanno corrispondere
al numero di abitanti delle superfici che vanno destinate a funzioni e attrezzature
collettive. Standard, indici e colori sono una semplificazione
quantitativa della complessità, e guardano le città dall’alto, quando i suoi
abitanti la vivono dalla strada.
Di Reggio in peggio, di Reggio in meglio
Veniamo da vent’anni che per la nostra città sono stati deleteri e devastanti, un ventennio frutto di una cultura speculativa, aperta e accogliente verso corruzione e infiltrazioni mafiose. Gli effetti di questa sbornia cementificatrice hanno prodotto un’emergenza abitativa fatta di migliaia di alloggi vuoti e centinaia di provvedimenti di sfratto emessi ogni anno. Gli enti pubblici hanno assecondato la crescita urbana attraverso la delocalizzazione di funzioni e attività presenti nel centro storico, come INPS, catasto, cinema, residenza e commercio. Particolarmente significativa l’operazione Alta Velocità concepita come catalizzatore per investimenti immobiliari. Innumerevoli le scelte sbagliate e le occasioni perse: la svendita del Mercato Coperto a Coin e di Palazzo Busetti a H&M; lo sventramento delle Poste Centrali; il nuovo parcheggio di Piazza Vittoria e l’ampliamento di quello della Caserma Zucchi; gli alloggi nel cinema Boiardo; il regalo dell’area ex polveriera al Consorzio Romero; il fallimento del faraonico Parco Ottavi; l’interminabile cantiere di via Compagnoni; il proliferare di lottizzazioni sparse nelle frazioni. Ma assieme alla città reale vivono nell’immaginario anche le città che non sono state e avrebbero potuto essere: a Palazzo Busetti l’archivio multimediale delle biblioteche; al Mercato Coperto una galleria di botteghe e baretti, aperta sul mercato contadino di Piazza Scapinelli; un auditorium al Cinema Boiardo; l’estensione dei giardini nell’area della Caserma Zucchi... queste suggestioni sono un invito a pensare alla città che potrebbe essere, e a sottrarre luoghi e spazi alle fauci del mercato.
Stop al consumo di suolo
Il 2015 è l’anno dell’EXPO che si propone di “nutrire il pianeta”, giova
ricordare che un terreno edificato non nutre più nessuno e che una benna
impiega pochi secondi per azzerare i secoli che hanno reso fertile il suolo.
Dobbiamo apprendere una nuova contabilità, per la quale esiste una
ricchezza collettiva, da restituire alle generazioni future, preservata o accresciuta,
il regime fondiario attenta al patrimonio, perché consumando
suolo fa corrispondere all’arricchimento di pochi l’impoverimento di tutti.
Consentire l’edificazione di migliaia di alloggi è poi il peggiore modo di rispondere al bisogno di case, dato che la crescita urbana amplifica
l’intera curva di distribuzione dei valori immobiliari, facendo crescere
gentrificazione e disagio abitativo.
Lo scorso 13 febbraio il Comune di Reggio Emilia ha gettato un primo
piccolo seme: “Una nuova variante al Piano strutturale comunale (Psc)
programmata dal Comune consentirà di ridurre ulteriormente le previsioni
di espansione in territorio agricolo, a favore di interventi di riqualificazione
del patrimonio edilizio esistente. La definizione di quanto
queste previsioni di espansione verranno ridotte avverrà sulla base delle
informazioni raccolte attraverso una procedura partecipativa, con la
quale i proprietari di aree attualmente “urbanizzabili” potranno manifestare
un interesse a riclassificare tali aree come territorio rurale”.
Buone intenzioni accompagnate da affermazioni risibili e prive di fondamento
giuridico, come i cosiddetti “diritti acquisiti”. La pianificazione è
facoltà dell’amministrazione che deve operare nell’interesse comune,
non c’è bisogno di imbonire i proprietari delle aree con “procedure
partecipative”: come un terreno può diventare urbanizzabile, così può
tornare rurale.
Cemento fertile
Fermare il consumo di suolo si può fare, è una scelta. Recupero, riuso, ristrutturazione è quanto ne consegue: investimenti pubblici e privati sull’edilizia esistente (consolidamento sismico, risparmio energetico...), sullo spazio pubblico, sui vuoti, sul ripristino ecologico. Nuove attività che si insediano in capannoni abbandonati, case sfitte che riaprono i battenti, promozione di tecniche di autorecupero e autocostruzione. Fermare il consumo di suolo semplifica il lavoro all’ufficio di piano: niente dispute su quali terreni rendere edificabili e quali no, le intelligenze degli abitanti, le competenze dei tecnici sono impegnate per rendere migliore la città esistente. Cemento fertile significa trovare un senso, una bellezza agli spazi sempre più estesi e disarticolati della città diffusa, che non possono diventare città per saturazione (la quantità di vuoti è eccessiva) né tornare campagna (sono zone già troppo edificate), disegnando un nuovo paesaggio dove convivano agricoltura e urbanità.
Muoversi meglio
La mobilità sostenibile è un fattore di qualità urbana, oltre che di uso efficiente delle risorse energetiche. Reggio Emilia deve concertare un piano della mobilità con i comuni che la circondano, ragionando alla stessa scala territoriale alla quale avviene la grande parte degli spostamenti. Non abbiamo bisogno di nuove strade: il fantomatico mito della carenza infrastrutturale è funzionale ad alimentare un sistema clientelare di appalti e subappalti. La competizione tra bicicletta e mezzi pubblici da una parte e automobile dall’altra si gioca sullo spazio e sulle risorse economiche, entrambi limitati: ogni nuovo investimento in bretelle, svincoli, raccordi, tangenziali sottrae denaro al potenziamento delle corse, alla mobilità su ferro. L’offerta gratuita di mobilità pubblica (finanziata quindi con la tassazione) accompagnata alla moratoria su nuove strade sarebbe una forma di risparmio... (i sei chilometri e mezzo della tangenziale Nord tra San Prospero Strinati e Corte Tegge ci costeranno 186 milioni di euro). Tornando alla città immaginata, spesso più vivibile di quella reale, attorno al centro storico i viali di circonvallazione da asse di scorrimento veloce (limite) diventano un anello verde (cerniera) con corsia riservata al tram, e per le auto un sola corsia per direzione; a Porta Santa Croce, una “sottopiazza” per ciclisti e pedoni integrata con fermata autobus, stazione treni e taxi, a ricucire via Roma e viale Regina Margherita, i quartieri dentro e fuori mura; le linee ferroviarie obsolete che diventano metropolitane di superficie (Reggio-Ciano, Reggio-Scandiano, ReggioBagnolo), le nuove linee per Vezzano, Montecchio, Carpi...