Crisi economica e istituzioni politiche: dalla Sovranità alla Tecnoplutocrazia

di Maurilio Pirone

5 / 12 / 2011

Verosimilmente, non era mai successo nella storia della Repubblica che nel giro di dieci giorni venisse approvata una legge di stabilità (la vecchia finanziaria), si sciogliesse un governo, un cittadino fosse fatto prima senatore a vita e subito dopo premier, opposizione e maggioranza si dichiarassero pronte a collaborare per il bene del Paese. Per una buona volta i nostri parlamentari potranno dire di aver lavorato molto, quasi quasi gli vien voglia di chiedere un bell'adeguamento di stipendio. Non solo, ma finalmente ci si è liberati di Berlusconi: grazie Napolitano, viva Monti! Ora tocca a quest'ultimo risollevare le sorti d’Italia, bisogna collaborare tutti e mettere da parte le vecchie divergenze… 

Raccontata così, sembra una storia di liberazione dall'oppressione e di risveglio di un sentimento civico, morale e patriottico. Eppure ho l'impressione che ci sia poco da sentirsi a proprio agio in questa narrazione, come se dietro l'euforia e le belle parole si nascondesse qualcosa di insidioso, un pericolo ancora più grande di quello da cui siamo scampati. Forse è anche questo uno degli effetti di 17 anni di berlusconismo, ci siamo abituati a far ruotare qualsiasi questione sociale esclusivamente attorno alle vicende di una persona, senza guardare oltre, ogni discorso politico si è appiattito sulla dicotomia si/no a temi come legittimo impedimento, conflitto di interessi, bunga bunga, intercettazioni. Forse è proprio per questo che uno come Monti può assumere i connotati del Salvatore. Discreto, riservato, curriculum perfetto, ottime credenziali internazionali, mai fuoriluogo, esattamente l'opposto di Silvio. Siamo rimasti talmente intrappolati in questo gioco di specchi da accettare senza problemi il fatto che venisse messo in piedi un governo tecnico fatto di professoroni, economisti, banchieri, giuristi, consiglieri d'amministrazione, advisors, dirigenti d'azienda, lobbisti, cattolici delle alte sfere. Altro che conflitto d'interessi! Solo che qui gli interessi non sono più quelli di un singolo rispetto a tutti gli altri suoi concorrenti, ma quelli di una parte della società rispetto a un'altra. Perché bisogna riconoscerlo, lo scopo del governo Monti non è quello di tutelare gli affari di una particolare banca o azienda, ma difendere l'esistenza stessa della finanza e del libero mercato. “Bisogna eliminare i privilegi” è stato il primo comandamento del Nuovo Vangelo; già, ma quali? A ben vedere le riforme sul tavolo lo si capisce benissimo: pensioni, mercato del lavoro, abbattimento della pressione fiscale sulle aziende e innalzamento del prelievo sui consumi, Ici, grandi opere, liberalizzazioni, dismissioni del patrimonio statale. Privilegi, insomma, sono quelli che impediscono all'economia di ripartire, al mercato di espandersi, alla finanza di salvarsi. Cambiano gli attori, ma il copione imposto dalla BCE rimane lo stesso. Patrimoniale o prelievi sui conti correnti potranno pure esserci, ma a che serviranno? Finiranno ingurgitati da quel pozzo senza fondo che è il debito pubblico. Una volta ottenuti questi interventi, come chiede gran parte della sinistra, ci si accorgerà che non basteranno minimamente a evitare il rischio del fallimento di Stato e, anzi, saranno costretti ad accettare tutte le altre riforme in gioco in nome di un principio di equità. Inutile illudersi, come ha fatto qualche politicante, di poter dettare l'agenda di questo governo; non si può ancora dire con certezza se andrà avanti fino a fine legislatura oppure i partiti ci ripenseranno prima, fatto sta che le scelte che contano non sono più prese nelle aule parlamentari. Il punto è che adesso ci sono da prendere decisioni importanti, impopolari, dettate dall'alto e nessun partito ha intenzione di metterci la faccia, meglio far fare a qualcun altro il lavoro sporco garantendo un appoggio esterno, in modo tale da potersi smarcare al momento opportuno. Nessun rimpianto per la politica della rappresentanza quindi, ma attenzione per i processi in corso, interrogarsi sulle dinamiche che stiamo attraversando.

Cerchiamo di capire innanzitutto il contesto che ha portato alla formazione di questo nuovo governo. Ricapitoliamo: in maniera molto semplicistica, dopo lo scoppio della crisi nel 2008, l'instabilità economica è venuta sempre più a concentrarsi sul debito pubblico. In maniera isterica i mercati finanziari vanno su e giù, la produzione mondiale è sull'orlo della recessione, le banche rischiano di fallire, gli Stati anche. Un bel quadretto, insomma, all'interno del quale la necessità di ripagare il debito statale è diventata l'arma di ricatto per imporre scelte e nomi ai governi. Cosa facciamo, allora, per uscire dalla crisi di un sistema basato sul libero mercato, sull'accumulazione, sul credito? Semplice, ci affidiamo a banchieri, industriali, economisti che si adoperino affinché ci sia ancora più mercato, ancora più guadagno, ancora più finanza. Come curare una persona allergica somministrandogli quella stessa sostanza che la fa star male.

C'è qualcosa che non va in questo ragionamento, se non fosse quello che sta succedendo potremmo quasi dire che suona come schizofrenico. Come se non fosse successo nulla prima, la politica dei palazzi istituzionali ha messo totalmente da parte le cause alla base del nostro presente: la crisi c'è, quasi un evento miracoloso, un dogma insondabile dietro il quale non è possibile vedere, bisogna solo accettarlo e avere fede. Al massimo ci si sente dire che il peccato originale è stato quello di aver rallentato l'economia o di essere stati poco attenti sui mercati, c'è bisogno di un più sano liberismo insomma. Dietro questa rimozione si nasconde probabilmente l'esperienza più traumatica che il Capitalismo possa fare: accorgersi di non essere eterno, invincibile, incrollabile. Perché questo è una crisi, il momento in cui una certa grammatica di vita inizia a scricchiolare, girare a vuoto, avvertire la mancanza di presa sul reale e allora si affaccia la possibilità di nuove regole, di un diverso modo di stare al mondo. Ad essere messa in questione, dunque, è l'esistenza del Capitalismo stesso e per salvarlo c'è solo una via, acuirne ancora di più i caratteri, mettere a valore nuove risorse, far ripartire l'accumulazione. Il che vuol dire privatizzare tutto quello che si può, risparmiare ancor di più su salari e servizi, salvare i profitti. In un colpo solo si scaricano i costi della riproduzione sociale di cui lo Stato finora si era fatto carico e li si trasforma in una fonte di guadagno. L'arma con cui attuare questa nuova forma di espropriazione comune è il debito pubblico. Il deficit di bilancio accumulato negli anni (servito, tra le altre cose, a stimolare la produzione economica e poi a salvare le banche) è diventato un ricatto costante con cui dirigere la politica economica degli Stati più colpevoli. Berlusconi non si è dimesso per spirito civico, perché pressato dalle opposizioni o sfiduciato in parlamento, né (purtroppo) perché cacciato dal basso, ma in quanto i mercati avevano perso fiducia nelle sue capacità di mettere in pratica riforme strutturali, quel programma di interventi riassunto nella famosa lettera della BCE. Viviamo così con un costante senso di colpa, quello del debito, che abbiamo appreso all'Università (crediti formativi), in famiglia (prestito), e che ora viene esteso a condizione sociale; siamo peccatori che devono scontare la loro pena, fare sacrifici per recuperare la bontà (economica) perduta. Ogni debito/colpa naturalmente si basa su di un Signore a cui dover dare conto. Nel nostro caso si tratta di istituzioni internazionali come Fmi, Ue, G20, tutti organismi nati e sviluppati col chiaro intento di controllare e indirizzare le politiche economiche degli Stati. Ecco allora che quella che ci viene presentata come l'unica uscita possibile dalla crisi è, in realtà, una scelta precisa su come redistribuire le perdite e a chi indirizzare gli eventuali benefici. Abbattere il debito e far ripartire l'economia, ridurre le spese e aumentare le entrate: le due massime da seguire a tutti i costi, due facce della stessa medaglia. Abbattere il debito significa dismettere quanto più possibile i servizi statali, a favore dei privati; far ripartire l'economia invece vuol dire sgravare le imprese dai costi del lavoro, renderle più concorrenziali, stimolare la produzione. In sostanza, c’è chi da questi sacrifici ha tutto da guadagnare e chi invece ha da perdere anche quel poco che gli è rimasto, perché tasse e patrimoniali saranno ben ricompensate dall’abbattimento dei costi produttivi e da un’eventuale ripresa economica, ma chi si vedrà negare la pensione, tagliare lo stipendio, privare del welfare cosa avrà da guadagnarne?

A queste trasformazioni economiche corrisponde una ridefinizione delle forme istituzionali attraverso le quali l’economia capitalistica si tiene in piedi. Forse stiamo assistendo a una trasformazione radicale delle strutture di potere, con uno spostamento dall'asse dell'egemonia a quello del dominio. La vecchia sovranità statuale sta lasciando il posto alla Tecnoplutocrazia.

Tecné: le capacità tecniche, il saper-fare degli specialisti maturato in particolari ambiti strategici, la conoscenza approfondita delle dinamiche di mercato e di gestione delle risorse (materiali e immateriali) diventano strumenti fondamentali per riuscire a contenere e manipolare l’incertezza del presente. La ragione strumentale, quella che riduce tutto a oggetti, mezzi, quantità, è l’unica logica in grado di perseguire l’obiettivo di salvare il Capitale.

Ploutos: la ricchezza e la sua riproduzione, incarnate da figure come banchieri, dirigenti d’azienda, economisti, diventano gli amministratori diretti della decisione politica. La distinzione fra economico e politico si rovescia, sfuma: gli intenti del Capitale si fanno direttamente operativi, salta qualsiasi mediazione di interessi. La sfera pubblica, nata come spazio neutrale e di accordo fra diverse soggettività sociali, diventa perlopiù sterile e si trasforma in luogo esecutivo di decisioni economiche e finanziarie.

Kratos: il potere, la messa in forma dei rapporti di forza all’interno di una società, non si organizza più attorno all’egemonia, ma si esercita tramite il dominio. Nel primo caso la riproduzione di un certo sistema è affidata alla fiducia e alla pratica di un insieme di valori, idee, abitudini socialmente condivise, anche laddove in realtà questi ultimi rappresentano gli interessi di una determinata classe sociale. Nel secondo caso invece i rapporti di forza non sono più comunemente accettati, dunque c’è bisogno di imporli con la violenza (fisica, verbale, legislativa); mentre il controllo delle decisioni viene ristrette all’interno di ambiti particolari, la disciplina si fa più rigida, pervasiva.

La fiducia nel liberismo, nelle istituzioni rappresentative, nei valori borghesi è sempre meno forte, la domanda di cambiamenti radicali si sta facendo sempre più pressante, eppure a questo non ha fatto da contraltare un apertura di spazi politici e sociali di decisione, bensì una stretta sulla possibilità di scegliere quale strada percorrere per uscire dalla crisi. La Tecnoplutocrazia non cancella dallo scenario politico la sovranità, ma la svuota di senso: gli Stati continuano ad esistere ed operare, il punto è che sono privati della prerogativa che li rendeva tali, il monopolio della decisione politica; il loro potere viene ad appiattirsi ed identificarsi del tutto con l’esecuzione di diktat economici imposti da altre istituzioni, la maggior parte delle quali non rappresentative, sovrastatali, internazionali. La politica economica degli Stati è sempre più dettata dai mercati, dalle banche, dalle multinazionali, dalle istituzioni finanziarie internazionali, ed è sempre meno frutto di scelte condivise. Questo segna un cambiamento nei rapporti fra Capitale e società: se prima erano necessari tribunali, parlamenti, scuole, polizie per tenere in piedi il processo di accumulazione, adesso diventano importanti altre istituzioni, maggiormente internazionali e finanziarie poiché è il Capitalismo stesso a essersi fatto sempre più globale, astratto. Basti pensare al dibattito sulla riforma dell’UE e della BCE. In questo nuovo orizzonte gli spazi di influenza per l’opinione pubblica si fanno sempre più angusti, scialbi; con il venir meno di una sfera politica di mediazione e con la concentrazione del potere all’interno di istituzioni internazionali le richieste popolari diventano perlopiù inascoltate, se non represse. C’è sempre un rating o uno spread che possono affossare qualsiasi pressione pubblica e imporre decisioni impopolari.

Non c’è tecnoplutocrazia senza un aumento della disciplina. Nuovi comandamenti e virtù vengono diffusi: sobrietà, equità, sacrifici, risparmi, controllo. La morale del Rigore impone di tagliar via tutti gli eccessi e i privilegi, stringere la cinghia in attesa che il Profitto torni a far sentire la sua voce. Preti senza stola si affollano nei salotti televisivi, sui giornali, nei parlamenti per convincerci che c’è solo una via d’uscita dalla crisi e dal peccato del debito, Liberismo.

Il dogma che solo privatizzando e svendendo beni, diritti e dignità potremo salvarci non è così neutro come sembra, ma in realtà nasconde precisi interessi e finalità. Ed allora non rimane che essere eretici e gridare che non c’è la Verità, ma diverse possibilità, ognuna delle quali comporta rischi, scelte, prospettive, cambiamenti. Eretici al punto tale da dire che il debito pubblico non è il nostro, non ci appartiene e dunque la crisi non la paghiamo, non rinunciamo a nulla, ma pretendiamo molto di più; vuol dire rifiutare qualsiasi senso di colpa, liberarsi dal continuo ricatto dei mercati, cercare di riprendere possesso della decisione politica. Può sembrare folle, forse lo è, magari un default di Stato non è praticabile, ma almeno è un concetto che è già conflitto in quanto separa alla radice chi ha interesse a salvare il Capitale e chi no, chi vive del lavoro altrui e chi cerca di sopravvivere con il proprio, chi ha da salvaguardare i propri profitti e chi non ha nulla da perdere ma tutto da guadagnare. Questo non vuol dire rivendicare l’autonomia dello Stato o nostalgia per la sovranità, tutt’altro, indietro non si torna! Piuttosto significa aprirsi a uno scenario internazionale in cui iniziare a costruire uno spazio politico che sappia condurci oltre il Capitale.