pubblicato sul quotidiano della Calabria (03/12/2010)

Resistere alle azioni predatrici

di F.M. Pezzulli

6 / 2 / 2011

Conosco Massimo da una vita, da quando poco più che bambini inventavamo giochi alle autolinee, in una Cosenza che ormai, per fortuna, non c’è più. Nel giro di 500 metri avevamo quattro campetti di calcio: di fronte la Sip, dietro il lavaggio di Davide, all’erbetta (epiteto dettato esclusivamente dal desiderio di giocare in un vero campo, in realtà era terriccio incolto che alle prime piogge diventava fanghiglia) e all’asfalto. Quest’ultimo, oggi viale Mancini, era quello prediletto: posizionato in pianura (può sembrare strano ma dietro il lavaggio era un campo in salita), raramente dovevi interrompere la partita causa passaggio di macchine e soprattutto c’era l’asfalto compatto che – per intenderci - resisteva anche alla pioggia. Ancora oggi da casa di Massimo si intravede l’asfalto, rumoroso e spesso ingolfato di traffico. Mi racconta che ogni mattina passa da lì e ricorda le partitelle, mentre si dirige al lavoro, a Rende, in un call center. Non si è mai lamentato più di tanto del lavoro, anche rispetto alle mie invettive contro lo sfruttamento nelle fabbriche dell’immateriale, ha quasi sempre ribadito che «è vero quello che dici, ma non mi posso lamentare… ci trattano bene… abbiamo un contratto…conosco altri call center a Roma nei quali si scoppia davvero… nei quali lo sfruttamento è tangibile, perpetuo, massacrante… da noi alla fin fine qualche tutela esiste…». Insomma era d’accordo, ma con dei distinguo, dovuti soprattutto al fatto che c’è di peggio, nei call center a Roma come in fabbrica a Vicenza (altro impiego assunto da Massimo anni orsono) «dove capisci che il razzismo è idiota… quando lavori con immigrati e ti rendi conto che sei sulla stessa barca…che sei operaio, non marocchino o italiano». Per lui, che da adolescente era stato cooptato da tristi elementi della destra cosentina, deve essere stato davvero esplosivo scoprire la massima politica (e scientifica) che gli operai non hanno patria, che il mondo è la loro patria.

Insomma il call center a Rende è certamente meglio della fabbrica a Vicenza: «anche a Vicenza il contratto era a tempo determinato… qui però non devo pagare l’affitto e mi rimangono più soldi in tasca…non che faccia spese inutili, però almeno i soldi della pizza o per uscire non li devo chiedere a papà». Questo fino a pochi giorni fa, quando ricevo una telefonata da Massimo che, frettolosamente, mi dice: «France, stiamo per occupare il call center e forse tratteniamo il dirigente…» gli chiedo di spiegarmi meglio, anche se mi rendo conto che non è il momento di spiegazioni, ma lui - ormai ansimante - mi concede un altro minuto: «è venuto questo cazzone da Milano comportandosi come se dovesse fare un corso di formazione ed ha detto che fra tre giorni l’azienda chiude definitivamente… ma forse verremo riassorbiti da un’altra azienda, però di questo non ne è sicuro perché sono trattative ancora in corso… poi ha aggiunto che aveva fretta che alle 16.30 aveva un treno che non poteva proprio perdere… insomma è arrivato tutto smagliante ha licenziato di colpo senza motivo più di 100 persone, molte delle quali con famiglia, ed aveva anche fretta…. Come dire, vi ho detto quello che dovevo adesso non fatemi perdere tempo…. A quel punto gli abbiamo fatto capire esplicitamente che il treno l’avrebbe perso».

In questi casi mi torna sempre in mente la vecchia distinzione sociologica tra capire e comprendere. Tutti possiamo capire una situazione del genere. Innumerevoli volte le analisi dell’ultimo decennio (come quelle dei decenni precedenti) ci hanno ripetuto che «si può ragionevolmente affermare che in assenza di agevolazioni la quasi totalità delle imprese del Centro Nord non avrebbe scelto il Mezzogiorno come area d’insediamento» (Rapporto Svimez 2003 sull’economia del Mezzogiorno, pagg. 672 – 691). E’ tutto chiaro, abbiamo capito, è una riedizione delle vecchie forme di dualismo in cui le imprese della parte avanzata del paese usano il Mezzogiorno come mercato di sbocco per i propri prodotti, area di delocalizzazione degli impianti, eccetera. Ma comprendere è diverso, vuol dire mettersi nei panni di Massimo e degli altri lavoratori e lavoratrici di call & call, vuol dire prendere una posizione netta verso queste azioni predatrici, vuol dire non solo esprimere solidarietà ma rilanciare progetti in grado di riaffermare l’assoluta priorità delle condizioni d’esistenza di coloro i quali hanno lavorato e peraltro arricchito per lunghi anni chi adesso ha fretta di prendere il treno. Questo dovrebbe comprendere la classe politica locale, ma forse è pia illusione per chi non ha neppure la testa per capire. In ogni caso i lavoratori di  call & call, in attesa che si risolva la questione con l’ingresso di nuovi e migliori imprenditori,hanno iniziato a resistere e mai come oggi la resistenza è anche costruzione di nuova soggettività e cooperazione. Dobbiamo stargli vicino, per loro ed anche per noi stessi, perché attraverso la resistenza passeranno i piani di sviluppo che stanno per essere sperimentati nel Mezzogiorno e in Calabria.