In un vecchio video datato 1993 che potete
rintracciare su youtube c'è una delle ultime apparizioni Rai di Beppe
Grillo. Se la prende con chi rema contro una possibile rivoluzione
tecnologica democratica, contro il capitalismo che ci imprigiona con le
macchine a benzina e non ci fa sviluppare quelle elettriche... La sua
retorica è già tutta politica, anche se non lo confessa, anzi. A un
certo punto, al minuto 13 circa, Grillo, dopo essersi preso gli ennesimi
applausi, si rivolge al pubblico e dice "Non sto qui a fare come quello
di Quinto potere. Se divento un messia, fatemi un gesto e mi metto
subito questo": estrae dalla tasca un naso rosso e se lo infila.
Nessuno
evidentemente gli fece il gesto, verrebbe da commentare. Così, quello
che poteva restare un clown, uno Zanni che manifesta la verità
attraverso il suo corpo umile e buffo, si trasformò un tribuno
simil-dannunziano che si fa a nuoto lo Stretto di Messina.
Ma anche
questa conclusione è riduttiva: non è solo Grillo a essersi trasformato
in un profeta qualunquista. È che da quel video sono passati vent'anni e
in questo ventennio che per comodità abbiamo definito berlusconiano,
qualcosa di irreversibile è cambiato nella comunicazione politica:
l'indifferenziazione tra piano letterario e piano ironico,
l'identificazione dell'informazione con la performance, la riduzione
della verità alla "versione che ha più successo" (Rorty e i suoi epigoni
hanno avuto ragione). Grillo ancora non lo sapeva, Berlusconi ("un
imprenditore che ha 4000 miliardi di debiti" come lo apostrofava Grillo)
invece sì; e pochi mesi sarebbe apparso a fare il suo famoso discorso
del Questo è il paese che amo. Le idee non servivano più, bastava
l'attorialità.
Ora, in questa campagna elettorale, nessuno si
stupisce che il valore delle parole non venga praticamente mai messo a
confronto con una dialettica di idee, ma appunto solo con la sua
capacità performativa - che siano i sondaggi o lo spread a fare da
indici di consenso.
Quello che è invece meno visibile è come i
candidati abbiano capito di sfruttare una retorica teatrale precisa,
quella comica: privandola però della sua capacità di rovesciamento, di
paradosso, di polemica. La comunicazione politica di Bersani e Vendola è
stata in definitiva messa all'angolo in questi ultimi mesi da tre
comici che utilizzano tre repertori diversi: Grillo, Berlusconi e Renzi.
Il primo si rifà ai comedians
anni '80, Lenny Bruce o Bill Hicks (coloro che lo ispirarono per i
programmi tipo "Te la do io l'America") da cui ha eliminato l'afflato
libertario per conservare invece solo la vis accusatoria, una denuncia
che spesso si riduce alla ricerca di capri espiatori. Anche per questo
riesce a catturare il voto degli under 30, di coloro che sono cresciuti
con il sarcasmo liquidatorio dei Griffin o di Beavis & Butthead.
Berlusconi
invece, lasciato il bramierismo barzellettaro, riesplora in repertorio
della commedia scollacciata anni '70. Sa che c'è un sacco di gente,
soprattutto nella fascia over'60 che si concede volentieri una risata
franca sui froci che sculettano, sulle tettone, sui fascisti buoni,
sugli ebrei che se la sono cercata. Anche qui, l'elemento goliardico
dell'autosberleffo viene completamente rimosso: la scena, da Santoro,
della sedia pulita come l'uscita al Binario 21 si rivolgono a elettori
euforici, disposti a essere scorretti e a darsi di gomito. Di fronte a
lui però Berlusconi non incarna un Pierino indifendibile: ma con un
gesto speculare al naso rosso di Grillo, è come un Alvaro Vitali che si
toglie i calzoncini e si infila il completo Caraceni.
La comicità di
Matteo Renzi è forse quella più contemporanea, anche se datata di fatto
agli anni '90: il suo modello evidente (lo faceva notare in un bel
pezzo recente Francesco D'Isa) è un mix tra Panariello e Pieraccioni.
Ossia il toscano cazzone che alla fine liquida le questioni con una
battuta da adolescente, uno che finisce ogni frase con una specie di
adagio del Benigni innocuo degli ultimi tempi: «Si fa per ridere, eh».
Il bacino di elettori che va a prendere è proprio quello dei suoi
coetanei, la "Generazione Bim Bum Bam" delineata da Francesco Aresu.
La
cosa incredibile è che in un paese così arretrato da un punto di vista
retorico, tre comunicatori che emulano gli stilemi degli anni '70, '80 e
'90 siano la novità di questa campagna elettorale, ma la cosa ancora
più incredibile è che questo tipo di comunicazione metta in difficoltà
uno come Bersani. Tutto presi ogni volta nel ribadire che il piano
informativo non è quello performativo, strillando contro chi non cita i
fatti, chi non manterrà le promesse, chi è demagogico.... Ma la sua
strategia, su questo profilo, è assurda: è come rimproverare Arlecchino
perché fa lo scemo in scena.
Quale allora la contromossa da opporre
agli attori, guitti o virtuosi che siano? Occorre rovesciare il
meccanismo, o svelare il trucco. Avete presente il coup-de-theatre che i
repubblicani avevano preparato nell'ultima convention americana: Clint
Eastwood che fece un discorso livorosissimo a una sedia vuota? Beh, non
ci volle molto a Obama per capire che non serviva smontare Eastwood
argomento per argomento. Bastava mettere una foto su twitter, la nuca di
Obama seduto sulla poltrona presidenziale e il messaggio: «Questo posto
è occupato»?
Nel frattempo a Bersani consiglio almeno un ripasso di Seinfeld e Louie C.K., ci provi con il suo staff: in fondo non ci vuole molto per inventarsi contromosse del genere e lasciare le boutade sui cani adottati e l'Imu al repertorio di un vecchio guitto all'ultimo giro.