La protesta esplosa la notte scorsa è una delle tante che ha riguardato il Centro di identificazione ed espulsione milanese negli ultime mesi. Sei agenti e cinque nordafricani sono rimasti feriti. Un migrante di origine algerina è riuscito a fuggire mentre un altro ragazzo detenuto nel centro si è fratturato entrambe le gambe nel tentativo di saltare giù dal tetto, dove si erano arrampicati una quarantina di immigrati per protestare.Il 18 luglio scorso, nel corso di una protesta analoga, erano fuggiti altri tre migranti.
"Alcuni ragazzi sono saliti sul tetto. Dopo gli scontri sono stati picchiati dalla polizia,
con i manganelli sulla testa, in faccia, alcuni non sono ancora
rientrati dall'ospedale dove li hanno portati" ci spiega A., che si
trova nel Cie da un mese mezzo.
"La sezione coinvolta è stata la B,
ex sezione femminile, dove sono arrivati una trentina di migranti da
poco tempo. Sbarcati in Sardegna sono stati portati direttamente al Cie
di Milano. Alcune donne sono state trasferite a Roma. Non ci sono state
vere e proprie cause scatenanti, solo che stare qui è come stare in carcere. Io ho paura quando vedo queste cose".
A. ha un biglietto per essere rimpatriato in Tunisia. Dopo 24 anni di permanenza in Italia, dove ha una moglie e tre figli, gli è stato imposto il rimpatrio.
"Non
voglio partire, ma non voglio nemmeno essere picchiato. Tra due giorni
vado via, ma ci sono persone che stanno qui da mesi e resistere è
difficilissimo. Se ti ribelli arrivano in dieci, venti e ti picchiano.
Io non voglio che succeda a me".
E continua: "E' assurdo, qui c'è
tutta la mia vita. Non ho più nessuno di là, in Tunisia. Mi hanno
distrutto la vita, hanno distrutto la mia famiglia".
La polizia nel
pomeriggio ha eseguito controlli: "Stanno perquisendo tutti, tutta la
sezione B, ogni singola stanza, dai muri ai materassi, per trovare armi,
pezzi di ferro, qualsiasi cosa. C'è una situazione tesissima."
Nel report di Medici Senza Frontiere sui Cie italiani "Al di là del Muro", che ha come scopo quello di far conoscere la realtà di questi spazi chiusi ad osservatori esterni, il Centro di via Corelli risulta privo dei servizi di mediazione culturale. Non ci sono procedure sanitarie per la diagnosi e il trattamento delle malattie infettive. Il sostegno legale in materia d'asilo è carente.
I servizi indicati da Medici Senza Frontiere sono servizi
assolutamente necessari dato che nei centri s'intrecciano, in condizioni
di detenzione, situazioni di fragilità estremamente eterogenee tra loro
a cui corrispondono esigenze molto diversificate.
I detenuti-ospiti scoprono come il rispetto dei diritti umani, humus di ogni paese civile, possa essere facilmente ignorato. La vita dei migranti nei Cie oscilla tra l'attesa e l'orrore. Il disagio psicologico è pesante, ed è quello di vivere in una doppia assenza:
quella del paese che si è lasciato e quella del paese in cui ci si
trova, dove un vero e proprio esercito di apolidi rimane invisibile.
Fatto salvo per episodi di cronaca come quello di stanotte, quando forze
dell'ordine diventano protagoniste di atti di violenza, in mancanza di
una strategia politica alternativa.
Il manganello sembra essere uno dei pochi mezzi che
lo Stato ha a disposizione per esercitare il proprio potere, chiuso
nella sua morsa xenofoba.
Fin troppo semplice usare la repressione
contro l'immigrato, la cui colpa è quella di non essere in possesso di
un documento di riconoscimento, nuovo reato stabilito dal pacchetto sicurezza.
Tra le mura di queste vere e proprie galere per clandestini, che
replicano le strutture penitenziarie sotto diversi aspetti, si consumano
quotidianamente violenze che, troppo spesso, vengono ignorate
dall'opinione pubblica.
Flavia Cappadocia