La Costa d’Avorio sull’orlo della guerra civile

28 / 3 / 2011

Le elezioni che si sono svolte in Costa d’Avorio alla fine dello scorso novembre avrebbero dovuto permette al paese di superare una crisi vecchia ormai di quasi un decennio. Si pensava che il voto potesse rappresentare l'atto finale del processo di pace nato dall’accordo di Ouagadougou, che nel 2007 aveva posto fine alla guerra civile scoppiata cinque anni prima.

Dopo il doppio turno elettorale, la Commissione elettorale indipendente aveva proclamato vincitore l’ex primo ministro Alassane Ouattara con il 54% dei voti. Tuttavia il presidente uscente Laurent Gbagbo non ha accettato la sconfitta e, grazie alla complicità del Consiglio costituzionale, ha dichiarato nulli - causa presunti brogli - migliaia di voti espressi nelle regioni settentrionali del paese, dove Quattara aveva raccolto la maggioranza delle preferenze.

Gbagbo ha ribaltato l’esito delle elezioni nonostante le operazioni di voto fossero state giudicate regolari da tutti gli osservatori internazionali. La vittoria di Ouattara è stata inoltre certificata dalla missione di pace delle Nazioni Unite (Onuci), un compito assegnatole dal già citato accordo di pace che lo stesso Gbagbo aveva sottoscritto nel 2007.

Gran parte della comunità internazionale ha riconosciuto Ouattara quale nuovo presidente del paese, mentre nei confronti del regime di Gbagbo sono state adottate pesanti sanzioni economiche.

Dal mese di gennaio le sanzioni sono state estese al divieto di esportare cacao, di cui la Costa d’Avorio è il primo produttore mondiale, mentre l’appartenenza dell’economia ivoriana all’area del franco Cfa ha permesso di paralizzare il sistema bancario e monetario del paese.

Alla pressione economica si è affiancata un’intensa attività diplomatica. Tuttavia l’esplosione delle rivoluzioni a nord del Sahara e soprattutto l’evoluzione degli eventi libici hanno avuto l'effetto di ridurre l’attenzione da parte dei governi e dell’opinione pubblica mondiale sulla crisi di un paese assai meno strategico come la Costa d’Avorio.

A sostegno di questa tesi, la straordinaria prontezza con la quale la Francia ha inviato i propri caccia sui cieli libici. Una prontezza che gli stessi transalpini, la cui influenza nel paese africano è ancora molto forte, non hanno dimostrato quando le Nazioni Unite hanno richiesto l’invio di rinforzi per la loro missione di pace per tentare di fronteggiare la crisi.

Sebbene il consigliere speciale di Sarkozy, Heinri Guaino, abbia dichiarato che la Francia sta tentando in ogni modo di convincere Gbagbo a cedere il potere, la gestione della situazione sembra ormai essere a carico delle sole organizzazioni regionali africane. All’interno dell’Unione Africana però è mancata, almeno finora, la necessaria unità di intenti.

Paesi come Angola, Zimbabwe e Uganda si sono schierati in modo più o meno esplicito a sostegno di Gbagbo, tanto da essere sospettati di finanziare il regime, vanificando in questo modo l’efficacia delle sanzioni economiche. Secondo l’Economist il presidente angolano Dos Santos avrebbe addirittura inviato soldati a protezione del palazzo presidenziale di Abidjan, mentre Mugabe è accusato di aver fornito armi a Gbagbo, in violazione dell’embargo in vigore dal 2004.

Del comportamento di noti antidemocratici come Mugabe e Dos Santos non c'è da stupirsi. Degna di nota è invece la cautela con cui il Sudafrica, paese guida nell'Africa subsahariana, si è allineato alla posizione internazionale. La proposta di Pretoria sarebbe stata quella di realizzare un compromesso in base al quale dare vita a un periodo di condivisione del potere tra Gbagbo e Ouattara.

A opporsi fermamente a questa ipotesi sono i paesi appartenenti alla Comunità economica dell’Africa occidentale (Ecowas). Direttamente interessati dagli effetti che la crisi ivoriana potrebbe avere sulla stabilità regionale, questi hanno più volte minacciato di ricorrere all’uso della forza qualora la situazione non dovesse sbloccarsi a favore dell'ex premier.

Un intervento militare a guida Ecowas appare però una soluzione poco probabile, almeno nel breve periodo. Le elezioni previste in Nigeria ad aprile catalizzano infatti l’attenzione nel paese leader in Africa Occidentale, impedendo al presidente Goodluck Jonathan di esporsi su un terreno così delicato. E senza la partecipazione delle truppe nigeriane un intervento armato  non ha numericamente la possibilità di concretizzarsi.

D’altro canto, un accordo che consentisse al presidente uscente di rimanere anche solo parzialmente al potere rappresenterebbe un pericoloso precedente, tanto più in un 2011 che prevede lo svolgersi di importanti turni elettorali in diversi paesi subsahariani.

Le divergenze in seno all’Unione Africana sembrano essere state superate grazie alla mediazione realizzata dal gruppo di cinque capi di Stato che l’Ua aveva istituito con l’obiettivo di rafforzare la sua azione diplomatica.

Il 10 marzo scorso, infatti, il Consiglio per la sicurezza e la pace dell’organizzazione panafricana, riunitosi ad Addis Abeba, ha reso nota la proposta formulata dal gruppo: in essa si conferma la validità della vittoria elettorale di Ouattara, al quale viene richiesta la formazione di un governo di unità nazionale comprendente esponenti del partito rivale. A Gbagbo verrebbe garantita un’uscita di scena dignitosa, senza però alcuna possibilità di far parte del nuovo esecutivo.

Tuttavia, l’intenzione di avviare una trattativa diretta tra le parti è fallita. Mentre l'ex primo ministro si è recato nella capitale etiope, Gbagbo ha delegato un suo rappresentante a ribadire di non essere disposto a cedere la presidenza, bloccando così ogni possibilità di accordo.

Nel frattempo, sul terreno la situazione appare sempre più fuori dal controllo dei caschi blu dell’Onu, impegnati principalmente nella protezione del Hotel de Gulf di Abidjan, dove Ouattara ha stabilito il suo quartier generale: la sua permanenza nella capitale economica è considerata strategica: qualora dovesse essere costretto a stabilirsi nelle regioni settentrionali a lui fedeli si riproporrebbe la divisione geografica che ha caratterizzato la guerra civile.

Alla fine di febbraio, in aree periferiche vicine al confine con la Liberia, si sono registrati i primi scontri diretti tra i ribelli che sostengono l'ex premier e l’esercito fedele a Gbagbo. A preoccupare, però, è soprattutto l’intensificarsi della violenza che sta colpendo le aree urbane di Abidjan.

Nella capitale economica del paese la proliferazione di gruppi armati non regolari e la repressione attuata dal regime nei confronti delle manifestazioni di protesta hanno già causato centinaia di vittime.

L’uso dell’artiglieria pesante contro la popolazione durante gli ultimi episodi repressivi ha inoltre segnato un’ulteriore escalation della violenza. In seguito a tali episodi, l’alto commissariato dell'Onu per i Diritti umani ha accusato Gbagbo di possibili crimini contro l’umanità, mentre Francia e Inghilterra hanno chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta da parte delle Nazioni Unite.

A rendere ancora più grave l’emergenza umanitaria vi sono le ingenti masse di sfollati e rifugiati, che mettono a rischio la già fragile stabilità regionale: i 90mila rifugiati che hanno raggiunto la vicina Liberia rappresentano una preoccupazione per la sicurezza di un paese che si trova ancora in piena ricostruzione postbellica.

In questo contesto, i due schieramenti sembrano prepararsi al peggio. Ouattara ha annunciato la formazione di un nuovo esercito nazionale, mentre Gbagbo ha chiamato alle armi migliaia di giovani. D’altro canto il vincitore delle elezioni ha accettato l’ipotesi di un governo di unità nazionale avanzata dall’Ua e ha lanciato un ultimatum a Gbagbo, il cui regime, peraltro, sarebbe ormai finanziariamente stremato dalle sanzioni economiche. Uno scenario che non lascia ben sperare. 



Con la Francia (principale
stakeholder occidentale) impegnata in Libia e la Nigeria (leader regionale) in attesa di quelle che sono considerate le elezioni più incerte della sua storia democratica, l’eventualità che Gbagbo riesca a tenere duro trascinando il paese in una nuova guerra civile sembra inevitabile.

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