Oltre l’autogolpe, il Perù scende in strada per una nuova costituzione

12 / 12 / 2022

A pochi giorni dal precipitare degli eventi che hanno visto l’ex presidente Pedro Castillo sciogliere il Congresso e la reazione delle istituzioni che hanno portato alla sua destituzione e arresto, non è ancora tornata la calma nel paese sudamericano. Castillo, in attesa delle indagini della magistratura sul suo conto, è in carcere preventivo mentre Dina Boluarte, la vice divenuta presidente, è scesa a patti con la destra costruendo un governo di unità nazionale e ha annunciato che non procederà con l’annunciare elezioni anticipate a meno che la situazione non lo renda opportuno. E intanto nelle strade monta la protesta in appoggio all’ex presidente, per la chiusura del Congresso “golpista”, per una assemblea costituente e per ottenere elezioni anticipate.

Negli ultimi giorni si è discusso molto su chi abbia effettivamente tentato o fatto il colpo di stato: il tentativo di Castillo o la trappola ordita dal Congresso per destituirlo? Che Castillo abbia forzato l’ordine costituzionale è fuori di ogni ragionevole dubbio: sciogliere il parlamento, dar vita a un “governo d’eccezione” e istituire il coprifuoco, sono tutte misure che esulano dall’esercizio “normale” della democrazia, tanto che sono attuabili solo attraverso un patto tra forze politiche e militari. Patto che evidentemente non è avvenuto o è stato disatteso dalle forze armate che hanno lasciato solo l’ex presidente, come del resto tutte le altre cariche istituzionali. Ma la crisi istituzionale peruviana va oltre la responsabilità del colpo di stato: imputarla a Castillo o al Congresso non risolve il problema, anche se aiuta comunque a capire cosa sta succedendo in questi giorni nel paese sudamericano. Per cercare di capirlo, è quindi necessario approfondire gli eventi degli ultimi mesi, che hanno portato alla forzatura di Castillo e al rapido riassestamento istituzionale.

La vittoria alle elezioni del 2021 aveva sorpreso tutti, infatti, nonostante la sua attività da sindacalista, a livello nazionale Pedro Castillo era abbastanza sconosciuto. Ma già dalla vittoria alle elezioni si era capito che il compito a cui andava incontro non sarebbe stato dei più semplici. Il suo infatti risultava essere un governo senza una vera e propria maggioranza anzi, con un Congresso in cui l’opposizione era la maggioranza e di questa una buona parte fujimorista. Nel suo anno e mezzo di mandato Pedro Castillo ha dovuto quindi passare più tempo a difendersi dagli attacchi del Congresso che a costruire le politiche promesse in campagna elettorale e i cinque cambi del Primo Ministro e gli innumerevoli rimpasti nella squadra di governo lo dimostrano. L’opposizione è divenuta giorno dopo giorno sempre più aggressiva e Castillo ha dovuto affrontare ben altri due tentativi di deposizione, oltre a quello che ne ha determinato l’effettiva caduta.

Non solo, uno dei limiti più evidenti è stato quello di guidare un governo senza un’anima, senza un progetto concreto di trasformazione, al di là della più volte dichiarata volontà di rinnovare la Costituzione fujimorista. Scrive Pablo Stefanoni «Castillo non è riuscito a trovare una dinamica di governo», a causa dell’inesperienza politica e dell’incapacità di fare squadra. Per la sociologa Marisa Glave, intervistata sempre da Stefanoni, «il peccato originale di Pedro Castillo non è stato solo il modo in cui ha assemblato i suoi gabinetti di ministri, ma come ha dato origine a ambienti di palazzo opachi». I suoi gabinetti infatti hanno coinvolto tutto l’arco istituzionale, partendo da personalità di sinistra per finire ad abbracciare politici e dirigenti opportunisti più interessati ai propri interessi che a quelli del paese. E tale deriva è stata la causa dei numerosi problemi legati alla giustizia sia del governo sia dello stesso Castillo. Anche all’interno del proprio partito, Peru Libre, Castillo è entrato presto in conflitto: dopo pochi mesi il presidente è uscito dal partito per l’attrito con il presidente Vladimir Cerron. Scrive Yair Cybel, membro della CELAG (Centro Estratégico Latinoamericano de Geopolítica) che tra i principali responsabili nelle sue fila c’è proprio «l’autoproclamato Lenin di Junin, presidente del partito Perù Libre, che ruppe la sua alleanza con il Prof».

I dubbi che Castillo sia caduto in una trappola del Congresso appaiono più concreti quando osserviamo l’operato dello stesso Congresso durante le ore cruciali della crisi a seguito del messaggio pubblico di Castillo. Nessun cedimento, nessun dubbio, nessun tentennamento da parte delle istituzioni che, compatte, si sono strette attorno alle regole democratiche tante volte offese, per difendersi dai tentativi dittatoriali del suo presidente. In poche ore Castillo è stato destituito e arrestato e Dina Boluarte investita della carica presidenziale. Fa sorridere, ma anche riflettere, la linea difensiva degli avvocati di Castillo che hanno denunciato come durante la lettura del messaggio dello scioglimento del Congresso il presidente fosse sedato a causa di una bibita datagli da bere. Ipotesi degna di un racconto di Gabriel García Marquez dove il realismo magico fonde la realtà e la finzione.

A cercare di dare una spiegazione logica al harakiri politico di Castillo ci ha provato DL Reporteros in un lungo e dettagliato reportage sulle ore che hanno preceduto l’annuncio di Castillo. Secondo questa ricostruzione «l’unica spiegazione di senso è quella di aver cercato di utilizzare l’autogolpe fantasma per ottenere un asilo che non sembrasse una fuga, qualcosa che imitasse ciò che è successo a Evo Morales». Ma anche questa teoria sembra avere dei buchi da colmare dal momento che nello stesso articolo si dà per certo il fatto che il Congresso non avesse i numeri per la destituzione (sebbene lo stesso Castillo dica il contrario ai suoi collaboratori).

Mentre nei palazzi - e nei social - si discute su chi abbia effettivamente fatto o tentato il golpe e si continua a far finta che il problema sia stato risolto con la destituzione di Castillo, è nelle strade che la questione “golpe” è “superata” dalle mobilitazioni che ogni giorno di più crescono, seguite da una repressione via via più dura. Dina Boluarte, la nuova presidente, ha nominato il nuovo governo, presieduto dall’avvocato Pedro Angulo. Governo che non sembra essere nato dalla decisione libera della Presidente, ostaggio del Congresso per la mancanza di una rappresentanza politica e di popolarità. E anche perché è stato lo stesso Congresso ad archiviare un’accusa di conflitto di interessi nei suoi confronti solo pochi mesi fa. Jaime Borda, attivista della Red Muqui e giornalista definisce così il nuovo governo: «Purtroppo il gabinetto che ha presentato Dina Boluarte non risponde alla crisi attuale, tanto meno ascolta la piazza e le richieste della popolazione, risponde solo a una quota politica del Congresso, lo stesso che ha l’8% di approvazione». Perché il problema non è mai stato Castillo, o meglio, non è mai stato solo Castillo ma tutto il Congresso. È lì, in quella casta politica corrotta che lotta per il potere sulla pelle della popolazione, che è il centro della crisi istituzionale peruviana. Ecco perché cambiare presidente e governo non risolve la crisi istituzionale, come dimostrano i sei presidenti cambiati in altrettanti anni.

E le piazze insorte di questi giorni lo sanno benissimo. Tanto che da Lima a Cusco, da Tacna ad Ica, da Huancayo ad Arequipa (e molte alte città e località), le parole d’ordine sono sempre le stesse: chiusura del Congresso, nuova assemblea costituente ed elezioni anticipate. Parole d’ordine che col passare dei giorni hanno preso il sopravvento su quelle per la liberazione di Castillo, pur se molte manifestazioni, presidi, blocchi sono di suoi simpatizzanti e continuino a chiederne la liberazione. Manifestazioni che giorno dopo giorno diventano quindi più partecipate e radicali. Dai blocchi alla Panamericana Sur ad Arequipa, alle proteste davanti al Congresso o in Plaza San Martín a Lima, i manifestanti sono sempre più determinati, anche per la risposta violenta delle forze armate che non si è fatta attendere.

Ma è ad Andahuaylas, nella regione di Apurimac (terra della Presidente) che si sono verificati gli eventi più drammatici: dopo essersi dichiarati in “insorgenza popolare” nei giorni scorsi, i comuneros sono riusciti ad occupare l’aeroporto e ad incendiare alcune strutture obbligando le autorità a chiudere l’aeroporto. Nella repressione però le forze armate hanno ucciso due giovani, di cui uno minorenne, provocando rabbia in tutto il Paese e l’immediata reazione dei comuneros che hanno incendiato il Commissariato di Andahuaylas. La Coordinadora Nacional de Derechos Humanos ha denunciato infatti numerose violazioni dei diritti umani: utilizzo di proiettili e gas sparati direttamente al volto per sedare le manifestazioni, infiltrazioni tra i manifestanti, forze armate non identificabili, controlli per intimidire e minacciare, detenzioni arbitrarie e falsificazione di prove, tra le altre. Nel suo ultimo bollettino, la Coordinadora ha registrato 11 persone arrestate arbitrariamente e 28 rimaste ferite nella repressione delle forze armate. A seguito di questi eventi, c’è stato il primo passo indietro della Presidente che ha annunciato la presentazione di un progetto di legge per le elezioni anticipate ad aprile 2024 ma anche lo “stato d’eccezione” nelle regioni più combattive.

Una prima importante vittoria per la popolazione in lotta ma che al momento non sembra risolvere la crisi politica e sociale innescata dall’autogolpe e dalla destituzione di Castillo. E la polemica su chi ha realmente fatto o tentato il golpe trova il tempo che trova dal momento che né Castillo né il Congresso sono la soluzione ai gravi problemi che attanagliano il Paese da anni, essendo loro stessi parte del problema. Cosa succederà è presto per dirlo: le elezioni anticipate sono un importante traguardo ma probabilmente l’unica cosa capace di allentare la tensione della popolazione e provare a risolvere la crisi sarà l’avvio di un nuovo processo costituente. Considerate le proteste radicali degli ultimi anni (che per esempio hanno portato alla destituzione di Merino dopo soli cinque giorni dalla nomina a presidente nel novembre 2020), non è per nulla impossibile che le proteste desde abajo possano portare a qualche cambiamento più radicale di quello che è avvenuto nei palazzi del potere.

Foto di copertina Renato Pajuelo