Perù - Tra proteste e massacri la cinica Boluarte non molla il potere

19 / 1 / 2023

A quasi due settimane da quando sono ripartite le proteste contro il governo provvisorio di Dina Boluarte, il bilancio della violenta repressione delle forze armate contro i manifestanti si fa sempre più tragico: sono 49 le vittime accertate, un migliaio i feriti e centinaia gli arresti arbitrari dall’inizio delle proteste avvenuto oltre un mese fa. Una spirale di violenza che sembra inarrestabile e di cui la presidente Dina Boluarte e il suo primo ministro Alberto Otárola sono i principali responsabili non solo per la brutale repressione ordinata ma anche per la criminalizzazione dei manifestanti e della protesta, definita “atti di violenza attuati da piccoli gruppi”.

Il “paro nacional”, pur non essendosi mai interrotto del tutto dalla destituzione e cattura dell’ex presidente Pedro Castillo, è ricominciato il 4 gennaio, a partire dalla macroregione del sud, quella che comprende le regioni più povere e vicine proprio all’ex presidente: Apurimac, Puno, Cusco, Arequipa, Huancavelica, Ayacucho e Madre de Dios. Una partecipatissima e pacifica marcia nella “ciudad blanca” di Arequipa - una delle principali città del paese - ha aperto questa seconda fase delle proteste contro il governo di Dina Boluarte. Le mobilitazioni si sono subito allargate a macchia d’olio come testimoniano i dati sui blocchi alle principali vie di comunicazione stradali: se il 4 gennaio la SUTRAN (ente supervisore dei servizi di trasporto nazionali) segnalava “solo” 35 punti di blocco da parte dei manifestanti, nel giro di un paio di giorni i punti di blocco sono praticamente raddoppiati arrivando ad essere più di 120 dopo dieci giorni.

I motivi dell’allargamento della protesta sono molteplici. Inizialmente, al centro delle rivendicazioni c’era la necessità di fare piazza pulita di tutti i simboli istituzionali, responsabili della drammatica crisi istituzionale che da oltre sei anni ha invaso il paese. In primis il Congreso, chiamato apertamente golpista, non solo per l’infame opposizione fatta a Castillo durante tutto il suo mandato ma anche per il ruolo centrale avuto nel momento clou della crisi a dicembre con la deposizione dello stesso Castillo e lo stringersi attorno alla figura di Dina Boluarte come elemento di continuità del potere. Proprio la presidente, ex alleata di Castillo, ma espulsa ancora mesi fa da Perù Libre, è soprannominata “asesina” dai manifestanti e odiata anche nel dipartimento di provenienza, Apurimac, dove ci sono state mobilitazioni tra le più radicali. Il suo tradimento per prestarsi a spalleggiare il Congreso, l’attaccamento alla poltrona di presidente e la oggettiva responsabilità delle tante vittime, sono considerati ingiustificabili e per questo le viene chiesto insistentemente di dimettersi. La formazione di una assemblea costituente che possa superare la costituzione fujimorista del 1993 e nuove elezioni subito (e non nell’aprile 2024 come già deciso dal Congreso) sono le altre due rivendicazioni delle piazze di tutto il paese. 

A queste rivendicazioni si è aggiunta nel corso delle settimane la necessità di avere giustizia per tutte le vittime della repressione ordinata dal governo e messa in atto implacabilmente e impunemente dalla polizia e dall’esercito peruviano. Oltre alle già citate 49 vittime e al migliaio di feriti della brutalità delle forze armate, numerosi sono stati i casi documentati di violazioni dei diritti umani, di infiltrati nelle manifestazioni, di vandalismo provocato per criminalizzare la protesta. Nell’ultimo bollettino emesso qualche giorno fa, la Coordinadora Nacional De Derechos Humanos ha denunciato numerosi casi di violenza e violazioni dei diritti umani da parte delle forze armate, responsabilizzando la presidente in prima persona: «abbiamo identificato l'uso di armi letali proibite per il controllo della folla, l'uso indiscriminato della forza, che colpisce le persone che aiutano i feriti, i giornalisti [come ad esempio il giornalista Aldair Mejia ferito a una gamba da un proiettile e minacciato di morte dalla polizia] e coloro che non hanno nemmeno partecipato alle mobilitazioni. Inoltre, sono stati sparati proiettili e gas lacrimogeni, sulle case e persino contro i corpi delle persone».

La violenza delle forze armate è esplosa in tutta sua tragicità il 9 gennaio a Juliaca, nel dipartimento di Puno, uno dei luoghi più attivi contro il governo fin dall’inizio delle proteste. Un gruppo nutrito di manifestanti ha provato ad occupare l’aeroporto Inca Manco Capac, come estrema misura di pressione, ricevendo fin da subito la durissima risposta delle forze armate. Il numero delle vittime è cominciato a salire rapidamente, arrivando alla fine della giornata a 19, tra cui un medico soccorritore, mentre i feriti ospedalizzati sono stati 73. Il massacro di Juliaca, come è stato fin da subito ribattezzato, ha suscitato un’ondata di indignazione generale che ha travalicato i confini nazionali mostrando al mondo la feroce deriva autoritaria del governo guidato da Dina Boluarte.

A indignare ulteriormente le successive dichiarazioni della Boluarte e le drastiche misure “pacificatrici” promosse dal governo: a seguito del massacro, infatti, la presidente ha dichiarato di non capire i motivi della protesta mentre il primo ministro ha annunciato tre giorni di coprifuoco in tutto il dipartimento di Puno. Le risposte istituzionali non hanno sortito il benché minimo effetto, anzi, hanno solo buttato benzina sul fuoco della protesta, tanto che i giorni successivi ci sono state numerose e radicali mobilitazioni in tutto il paese, in particolare nella macroregione sud. Anche a Cusco i manifestanti hanno cercato di occupare l’aeroporto, obbligandolo alla chiusura momentanea, ma nella repressione un dirigente campesino è rimasto ucciso da colpi di proiettili sparati in pieno petto. 

Il crescendo delle proteste e dell’indignazione ha obbligato la Presidente ha lasciare un nuovo messaggio alla nazione: con un cinismo degno dei migliori dittatori latinoamericani, e dopo aver proclamato il 2023 “anno dell’unità e della pace”, la presidente ha reiterato la sua decisione di non dimettersi accusando i manifestanti di “abuso del diritto di protesta” e infine chiedendo “scusa per quello che non è stato fatto”. Poco dopo, il primo ministro Alberto Otárola ha dichiarato lo “stato d’emergenza” per trenta giorni nelle regioni di Lima, Puno (con coprifuoco) Cusco, Callao, e nelle province di Andahuaylas (Apurímac), Tambopata e Tahuamanu (Madre de Dios) e nel distretto di Torata (Moquegua). Lo “stato d’emergenza” interessa inoltre anche le principali arterie di comunicazione del paese, vale a dire la Panamericana Norte, la Panamericana Sur, la Carretera Central, il corridoio minerario e il corridoio Interoceanico. Durante questi 30 giorni saranno sospesi i diritti costituzionali relativi all’inviolabilità della casa, alla libertà di movimento, di riunione e di sicurezza della persona. 

Una vera stretta autoritaria quella del governo provvisorio peruviano che non promette nulla di buono. Con 49 vittime, un migliaio di feriti e centinaia di arresti il governo guidato dalla presidente Dina Boluarte è uno dei più sanguinari della storia recente del paese e si regge sui rapporti di potere interni ma anche sul silenzio internazionale di fronte a questi crimini. Anzi, lo stesso governo utilizza il “pericolo comunista” rappresentato dalla vicina Bolivia per sostenere il suo “governo democratico”: senza uno straccio di prove, Boluarte e Otárola hanno paventato il possibile ingresso di armi e munizioni dalla Bolivia, arrivando a dichiarare con sprezzante cinismo e contraddicendo le schiaccianti prove video viste in questi giorni, che proprio a causa delle infiltrazioni boliviane sarebbero stati uccisi i compatrioti nelle proteste.

Questa narrazione distorta dà al governo il sostegno internazionale che necessità per sopravvivere, mentre a livello nazionale, l’attuale esecutivo ha perso completamente, o forse non ha mai avuto, il sostegno popolare. Un recente sondaggio di IEP realizzato su un campione di oltre 1200 persone, ha stimato un tasso di disapprovazione per la presidente del 71% mentre la disapprovazione per il Congreso è addirittura all’88%. Nello stesso sondaggio, il 69% si è espresso favorevole alla formazione di una nuova assemblea costituente per superare l’attuale costituzione fujimorista del 1993 e il 60% ha espresso parere favorevole alla liberazione dell’ex presidente Pedro Castillo. 

Sostegno che Boluarte sembra stia cominciando a perdere anche all’interno del suo stesso governo: a seguito degli ultimi drammatici avvenimenti, due ministri hanno presentato le proprie irrevocabili dimissioni, contestando alla presidente la responsabilità delle vittime e chiedendone le dimissioni per permettere di riportare la pace nel paese. A rinunciare per primo è stato il ministro del Lavoro Eduardo Alonso García Birimisa: «la situazione merita un cambio di faccia nella direzione del paese ed elezioni anticipate che non possono aspettare aprile 2024». Successivamente si è dimessa anche la ministro delle Donne, Grecia Elena Rojas Ortiz che ha chiesto anche lei alla presidente di anticipare le elezioni.

Le evidenze dei massacri e delle violenze gratuite commesse dalle forze armate nei confronti della popolazione in lotta hanno indotto la procuratrice capo Patricia Benavides ha disposto una indagine preliminare nei confronti della Presidente Dina Boluarte, del primo ministro Alberto Otárola e dei ministri Víctor Rojas (Interno) y Jorge Chávez (Difesa) rispetto ai presunti crimini di genocidio, omicidio aggravato e lesioni gravi commessi durante le manifestazioni di dicembre 2022 e gennaio 2023 nelle regioni di Apurímac, La Libertad, Puno, Junín, Arequipa e Ayacucho.

La linea dura del governo sembra però irremovibile. Nelle ultime ore è proseguita la repressione e l’intimidazione verso chiunque osi manifestare il suo dissenso nei confronti delle istituzioni: a Ica, una carovana di abitanti delle zone rurali del sud è stata bloccata con pretesti mentre si dirigeva a Lima dove il 19 gennaio è prevista un’altra grande mobilitazione nazionale contro il governo. Preludio di due scenari possibili: un’altra giornata di massacri contro la popolazione o l’inizio di una nuova fase qualora la determinazione popolare dovesse riuscire a far cadere questi governo e Congreso di usurpatori, corrotti e violenti.