Intervista realizzata il 7 aprile 2009 al Théâtre du Rond-Point di Parigi

"Le Pulle" di Emma Dante

Introduzione e intervista pubblicate sul n°2 del periodico francese "Le Cercle"

Utente: Serena
6 / 10 / 2009

Emma Dante per elaborare la sua drammaturgia si "appoggia" sui corpi dei suoi performers.

Nel suo ultimo spettacolo, intitolato Le Pulle, ricorre al dialetto palermitano per creare un dipinto del popolo e delle sue origini.

Quello che l'autrice mette in scena, è il dramma di coloro i quali non possono avere una vita "normale", perché non conformi ad alcun modello prefabbricato.

Emma Dante ci mostra un regime di paura determinato da diversi fattori. In primo luogo, la dottrina cattolica, ben radicata, che persegue l'ideale di una società patriarcale. Le campagne mediatiche del governo che ci insegnano l'odio per tutto ciò che è diverso in genere o in colore. E infine, l'assenza di alcuni basilari diritti civili per chi resiste all'etero-normazione. Tutto ciò porta i personaggi di questa pièce, travestiti e transessuali a costruire un modello alternativo di famiglia: il bordello.

La pièce Le Pulle ha luogo in una notte qualunque, in un bordello qualunque, dove gli aneddoti del passato riemergono in superficie mostrandoci delle tragedie sociali mascherate da tragedie personali.

di Serena D'Andria

Intervista

Attualmente, fra le forme di scrittura teatrale utilizzate dai giovani autori italiani, il teatro di narrazione è certamente una delle preferite, è un tipo di teatro che può sicuramente essere definito politico. Il suo teatro può essere definito altrettanto o no?

Il teatro che io faccio si può definire civile nel senso che racchiude indagini, anche politiche, sulla società. Parla di temi sociali difficili, scomodi, di personaggi di un ceto assolutamente non borghese, ma basso, parla cioè dei problemi del popolo legati al disagio sociale. Soprattutto parla dei grandi temi della società che sono ancorati a dei tabù, temi che hanno a che fare con l’emarginazione, l’oppressione e la disperazione. Per cui in questo senso si può dire che c’è anche un’attenzione politica a questi problemi, ma è sicuramente più sociale e civile. Ecco io lo definirei proprio così, un teatro civile.

Palermo è la città che le permette di fare tutto questo?

Sì, Palermo scrive per me, scrive il mio teatro perché è una città dove il teatro è per strada. A Palermo il teatro vive negli sguardi delle persone, nei loro atteggiamenti e nei dialoghi, la vita a Palermo, a differenza di una metropoli come Parigi, è vissuta fuori dall’intimità del privato. La città di Palermo è un grande palcoscenico dove ci sono milioni di storie intrecciate, dove le persone recitano tutti i giorni e non solo, danzano e cantano anche.

La ricchezza di questa città si può trovare nella contrapposizione fra la marginalità dei personaggi del suo teatro e i loro sogni molto convenzionali.

Il sogno è l’altra faccia della realtà, il sogno è il risultato di una sofferenza, questi personaggi di cui io scrivo attuano il loro riscatto nel sogno della loro vita e allo stesso tempo in scena, gli spettacoli sono una valvola di sfogo per questi personaggi disgraziati; è come se io li mettessi in un luogo in cui loro riescono appunto a vincere la sfida. Lo spettacolo diventa il loro riscatto.

In Francia possiamo dire che in un certo senso nel teatro dei giovani autori manca il conflitto. Riguardo alla percezione del suo teatro, in Francia lei è benvoluta pur restando trasgressiva, in Italia invece com’è considerato il suo teatro?

Io non credo di essere considerata un’artista trasgressiva, piuttosto direi estrema, perché non sono un’artista diplomatica io dico le cose come stanno. Questo a volte infastidisce e a volte piace. In Italia tendenzialmente i miei spettacoli sono amati, ma lo sono molto di più quelli che hanno a che fare con la poesia rispetto a quelli più “politici”. Soprattutto il mio teatro divide molto i favori della critica e quelli del pubblico, solitamente non combaciano. Mentre infatti la critica in Francia ha molto apprezzato lo spettacolo “le Pulle”, in Italia no, e secondo me dipende dal fatto che in Italia io solitamente faccio parte di quella piccola nicchia di artisti che indaga la famiglia e lo fa in piccoli teatri con pochi posti e questo va bene. Il problema sorge quando provo a cambiare strada, quando cerco di ampliare il mio sguardo, entrando nel teatro cosiddetto “ufficiale” col mio teatro che ufficiale non è, là vengo bacchettata dalla critica come se non mi dovessi permettere di uscire dal ruolo entro il quale mi hanno inquadrata. Il pubblico invece finora è sempre stato in estasi, mi ha sempre amata e riconosce e rispetta il tentativo di un’artista disposta a cambiare stilemi e punti di vista, “le Pulle” è amato dal pubblico che mi segue da tempo proprio perché è uno spettacolo completamente diverso che rompe i soliti schemi del mio teatro. La critica italiana sembra troppo pigra per comprendere questo. La giornalista di “le Monde” è rimasta un’ora ad intervistarmi dopo aver visto lo spettacolo due volte e infine ha scritto un articolo corposo e davvero benfatto, in Italia i giornali mi hanno dedicato solo un trafiletto.

Molti studiosi del teatro contemporaneo italiano, analizzando la situazione attuale, sono convinti che l’economia influenzi la creazione degli autori al punto da costringerli a pensare e scrivere testi che prevedono al massimo quattro attori. Questo per limitare i costi e avere spettacoli facilmente “vendibili”. Lei è d'accordo?

Certo, influenza anche me, e vi assicuro che è frustrante, questo spettacolo ("Le pulle" n.d.r.) in Italia non gira tanto perché prevede nove attori in scena.

Forse è anche per questo che il teatro di narrazione, in cui solitamente in scena c’è solo un narratore, in Italia ultimamente va per la maggiore?

Sì, come se l’arte fosse qualcosa che possa andare al risparmio. Mi chiedo cosa ne sarebbe stato dei fratelli Karamàzov se Dostoevskij avesse fondato la sua letteratura su tre, massimo quattro personaggi.

Riguardo al pubblico, sicuramente quello italiano è meno scolarizzato dal punto di vista teatrale rispetto a quello francese in generale e parigino in particolare, pensa che questo comporti una maggiore partecipazione emotiva nello spettatore italiano?

Sicuramente, anche se penso che il pubblico italiano sia molto preparato al teatro naturalmente, nel senso che l’Italia è un paese molto teatrale. Basta guardare la sua storia, le sue manifestazioni...

Quindi possiamo dire che il pubblico italiano è dotato di una cultura teatrale in senso antropologico ma non dottrinale?

Esatto, per questo penso che il pubblico italiano sia un ottimo pubblico, qui invece (Parigi n.d.r) se uno non è subito preso dallo spettacolo si alza e se ne va, non ha la pazienza di aspettare, di capire che succede dopo. Ho l’impressione che il pubblico francese non voglia perdere tempo, se c’è immediatamente una corrispondenza di amorosi sensi va bene, altrimenti va via!

Avremmo una domanda per quanto riguarda la messa in scena e la regia. Abbiamo l’impressione che lei lavori molto sul corpo, e che il corpo sia il mezzo attraverso il quale si afferma l’identità e la libertà d’espressione. É esatto?

Sì, io lavoro molto con gli attori e scrivo sui loro corpi la drammaturgia perché per me è molto importante far nascere dall’attore la proposta del gesto, della parola e dell’espressione. Per me è fondamentale che gli attori si prendano la responsabilità del gesto che fanno, di quello che dicono e della storia che vivono nello spettacolo! Perché voglio che loro abbiano una sorta di coscienza critica rispetto a ciò che fanno. Per questo il lavoro è molto violento con gli attori, si mettono in gioco delle cose forti, dei sentimenti forti. Non è un teatro ragionato il mio, é un teatro s-ragionevole che con la ragione non ha niente a che fare. Questo a volte crea molti conflitti e molti disturbi. Insomma si crea un rapporto sicuramente molto forte.

Intervista di Claire Lintignat e Serena D'Andria

Foto di Brigitte Enguerand