Lucilleidi: il mio primo giorno da attivista in Corea

di Carla Vitantonio

3 / 10 / 2011

Per arrivare a Dumulmeori bisogna prendere il treno. Un’ora abbondante, e poi venti minuti a piedi attraverso le campagne di Yongsan, che vuol dire più o meno “dove si incontrano i due fiumi”. E infatti qua si incontrano proprio due fiumi, in mezzo a montagne diversissime da quelle che conosco io, e tutto è verde, rigoglioso, profumato. Camminiamo lungo un sentiero che sta proprio in mezzo all’acqua placida, fino a che non siamo a Dumulmeori. Che ci faccio qui? ho incontrato Suhee e Chakuri in uno dei miei disperati tentativi di capire se anche in Corea, da qualche parte, c’è qualcuno che si sbatte per una cosa che non sia avere la pelle bianca o il vestito alla moda. Ci ho messo un mese, ma alla fine li ho trovati. La storia di Dumulmeori comincia negli anni Settanta e se uno è proprio interessato si può leggere qualcosa in un report fatto molto bene, peraltro in inglese, da Suhee e da un fotografo di passaggio.

Quello che interessa me è che adesso la comunità è assediata dagli ultimatum del governo, che vuole sgombrarla con motivazioni che potrebbero tranquillamente essere chiamate scuse, per terminare un progetto allucinante che si chiama “four rivers” e che a me mi fa tanto pensare alla Val di Susa. Alla Val di Susa penso mentre sgambetto lungo il sentiero, alla resistenza della comunità, al diritto ad autodeterminarsi, mangiucchio un dolcetto di fagioli rossi e pastella che si chiama “pesce pane” (ma ci sono anche i fiori pane, se uno vuole cambiare forma) e mi domando se potrò usare questi riferimenti, o se non sia il caso, ancora una volta, di abbandonare ogni categoria e mettermi semplicemente ad ascoltare.

L’ultimatum è per il 5 ottobre e Suhee lungo il tragitto mi dice che sono tutti molto preoccupati e molto impauriti, perchè non vogliono lasciare le fattorie e perchè non sanno se davvero la polizia arriverà a sgomberarli. La qual cosa, mi pare di capire, sarebbe assai pericolosa e grave, poichè a quanto ne so io la polizia qua non si fa troppi scrupoli di fronte a un gruppetto di contadini che rivendica il diritto a coltivare la sua terra con piantagioni biologiche.Le ragazze, insieme a molti altri, vengono qui ogni fine settimana per occuparsi delle loro coltivazioni, mentre ci sono diversi stanziali che ci vivono da anni con le famiglie, e sono proprio loro i più preoccupati, perchè il progetto raderebbe al suolo, oltre alle coltivazioni, le case, l’auditorium, la chiesa. Che poi, quando parlo di case, auditorium e chiesa, viene da pensare a costruzioni in cemento e mattoni mentre invece si tratta di tende o qualcosa di molto simile che, quando le vedo, mi fanno pensare alla tournee a L’Aquila. E di nuovo mi impongo di togliermi dalla testa i ricordi e di stare qua, aperta, senza paragoni e senza soluzioni.Mi aspettavo qualcosa di più aggressivo, parlando in termini europei, e invece trascorro tutto il giorno con i miei nuovi amici attivisti a raccogliere patate dolci e cavolo per fare il Kimchi. Siamo tutti a piedi nudi, accovacciati sotto il sole, ognuno con la sua paletta. Ma la conversazione è inarrestabile, mi piovono domande su come ci organizziamo noi, e quando accenno alla pratica delle occupazioni vedo diverse facce che si illuminano, per cui, senza mai smettere di raccogliere patate, improvvisiamo un seminario in cui spiego perchè in Europa si occupa, cosa si fa perchè e percome, qual è la situazione a Bologna, che cosa ci stiamo preparando a fare il 15 ottobre. E a un certo punto, non so nemmeno come, mi viene fuori la storia dei book block, e Chakuri mi dice sto per piangere.Anche io, per un momento, penso a quel 14 dicembre di un anno fa e mi commuovo, ma ci sono altre domande cui rispondere, e patate da raccogliere, e Mon, che ha circa cinquant’anni e questa è praticamente casa sua, mi chiede come si fa ad organizzarsi, come fa tutta questa gente a scendere in piazza.Allora capisco che il problema, cazzo, il problema è che in questa zona ci sono moltissime fattorie nella stessa situazione, e attorno a ognuna di queste ruotano almeno un centinaio di persone, tra stanziali, ospiti e acquirenti, eppure sono come monadi, non comunicano, non si sostengono, e mi viene da pensare che è il solito problema che ho incontrato in questo mese asiatico. Le persone sembrano conoscere soltanto due dimensioni: quella individuale, che è proprio al limite del monadismo, e quella dell’aggregazione ufficiale. Che poi lo so, lo immagino che non sia così, però oggi attorno a me ci sono persone che stanno per essere sgomberate, e sono disperate, e sono attorniate da altre fattorie dove presumibilmente ci sono altre persone che raccolgono patate dolci e sono ugualmente disperate epperò non si parlano, eccheccazzo.