Vivere in una prigione fatta di devozione

Potosí, Bolivia, 1700: la vita di chi rinuncia a tutto per entrare in un convento di clausura.

30 / 7 / 2020

Esistono migliaia di storie individuali di esperienze collettive che ignoriamo quasi completamente. Esistono protagonisti senza nome sparsi in diverse parti del mondo, seminati in diversi momenti storici, tutti però accumunati dal vivere sulla propria pelle oppressioni e lotte che noi in genere ascoltiamo o leggiamo distrattamente sui media, ma che per loro sono realtà concretissime. Questa serie di racconti brevi ci trascina nel mondo quotidiano di queste persone e, attraverso i loro ricordi, frammentati e incompleti come quelli di tutti, ci permette di ricostruire la loro storia e di approfondire contesti lontani dalla nostra conoscenza diretta. La quinta puntata della rubrica "Suture"- che uscirà ogni giovedì alle 12.30, a cura di Valeria Andreolli.

Stai mangiando in silenzio la tua zuppa di mais. In mezzo alla sala da pranzo capeggia un orrido teschio cosparso di cenere. È lì per ricordarti che "cenere siamo e cenere ritorneremo", per smorzare ogni tuo minimo pensiero allegro. Ma tanto tu riesci a distrarti lo stesso: dopo la prima settimana ci si fa l'abitudine, si comincia a vederlo come un soprammobile. E pensare che eri una ragazzina tanto solare prima, nella tua altra vita, riuscivi sempre a far ridere tua sorella durante quelle noiosissime cene con la crème dell'aristocrazia potosina: una serie infinita di grassi spagnoli in esilio volontario dalla loro terra che continuano a godere di tutti i lussi che l'Europa regala loro, tutti coinvolti in qualche misura nel traffico dell'argento. Era una perenne gara di ostentazione: ogni tavola era sempre più imbandita della precedente, ogni bicchiere sempre più pieno, ogni sala sempre più sfarzosa.

È per colpa di questa assurda competizione che tu sei finita in convento. Il convento di clausura di Santa Teresa è un'istituzione a Potosí. Entrarci vale ventimila monete d'oro, una somma esorbitante anche per l'aristocrazia locale. Di conseguenza avere una figlia al convento è un vero e proprio status sociale. Per questo metterti lì non era stato altro che muovere una pedina della partita, era stato un atto puramente egoistico da parte dei tuoi genitori, che pure ti dovevano volere un po' di bene: venivano ogni mese a sentire la tua voce flebile coperta da tre strati di riparo dal mondo esterno e ogni Natale ti mandavano regali di ogni tipo: candelabri fatti di vetro di Murano, scatole di té inglesi, pizzi e fazzoletti olandesi. Ma forse anche questi erano solo segni di feroce ostentazione delle loro capacità economiche.

Ti ricorderai sempre il momento in cui varcasti la soglia del convento, qui la chiamano "la prima morte". Il momento in cui vedi per l'ultima volta la piazza a pochi metri dall'ingresso del convento, tuo padre che ti guarda con il sorriso sulle labbra, tua madre che ti lancia occhiate incoraggianti, tua sorella con le lacrime agli occhi, i tuoi capelli lunghi e ricci. Sono passati due anni da quel giorno, ma ti sembra ne siamo passati molti di più. Fai una gran fatica a ricordare la tua vita prima. D'altronde una monaca era morta proprio pochi mesi dopo il compimento del tuo quindicesimo compleanno, quasi l'avesse fatto apposta per lasciarti il suo posto. Eri preparata, lo sapevi da sempre di essere destinata al convento, ma speravi che il tuo ingresso in quel mondo avvenisse con un po' più di ritardo. A volte bisogna aspettare anni. 

Le tue compagne di vita monacale sono tutte molto più vecchie di te, non che probabilmente la presenza di qualche coetanea allieterebbe la tua permanenza al convento: entrando hai fatto voto di silenzio, ragion per cui queste venti sorelle, le uniche creature con cui condividi l'ossigeno, rimangono per te delle estranee. Vivi una solitudine soffocante. Dio è il tuo unico compagno e confidente, anche se ti sei chiesta più volte se egli meriti tutti i sacrifici che fai, che fate per lui.

Soprattutto il cilicio. Non è obbligatorio, ma lo indossano tutte almeno una volta alla settimana e quindi ti sei adeguata anche tu. È una sofferenza indescrivibile, stringi i denti e cerchi di pensare che il corpo, la carne sono solo capricci, che ti stai purificando, ma finisci sempre per chiederti se ne valga davvero la pena, se questo dolore senza riscontro serva davvero a qualcosa. Non ne sei certa perché una vera e propria vocazione non ti è mai arrivata, perché ti senti una merce di scambio, perché se fossi nata primogenita invece che per seconda non ti sarebbe toccato questo destino, saresti stata data in sposa a qualche rampollo dell'aristocrazia potosina e avresti continuato a frequentare le cene con le tavolate cariche di carne di lama e di vino francese. Sarebbe stata una vita migliore? Non lo puoi sapere. Sicuramente non avresti mai imparato a leggere e saresti così stata privata di innumerevoli conoscenze.

La madre superiora ingoia l'ultima cucchiaiata della sua zuppa come se stesse facendo un sacrificio estremo. Ha finito e sta per intonare l'ennesima preghiera. Tu abbassi lo sguardo e socchiudi le labbra svogliatamente.

** Pic Credit: aNdrzej cH