Cari lettori, continuate ad abbonarvi al manifesto!
Cari compagni del manifesto, redattori e lettori, non sono d'accordo con
voi su alcune posizioni, ma continuo a leggere e difendere (per quel
poco che posso fare) il manifesto. Le riflessioni che sono state
avanzate da Rossanda, Castellina, Parlato e Di Francesco sono
sacrosante, ma difettano in un punto: non inquadrano la questione libica
nel suo contesto storico.
Sarebbe un dibattito avanzato e profondo
su dubbi e zone d'ombra, se non ci fosse in corso una tragedia di un
popolo che viene ucciso ogni giorno, nelle piazze delle città libiche e
nelle piazze d'affari del mondo industrializzato. La frase del compagno
Parlato «Sono e resto un convinto estimatore del colonnello Gheddafi»
(Il Sole-24 Ore del 18/2/2011, poi ribadita sulle pagine del manifesto
dieci giorni dopo) fa molto male a chi - come me - ha perso la propria
libertà a causa del tiranno. Quanti articoli sul manifesto ho dovuto
firmare diversamente, per scongiurare una repressione contro i miei
familiari.
Prima di tutto, quella in corso non è una guerra civile;
lo potrà diventare in futuro, ma adesso è una resistenza popolare contro
un tiranno, la sua famiglia, i miliziani e mercenari. È paragonabile
alla resistenza italiana contro il fascismo mussoliniano.
La
questione della bandiera issata sulle zone liberate, avanzata da Manlio
Dinucci, quella dell'indipendenza, non è un sintomo di ritorno al
passato. Quella bandiera non è certo proprietà dell'ex re Idriss o della
confraternita senussita. (A proposito, non ho capito il riferimento del
compagno Parlato all'asserito antisemitismo di Idriss. Essere
anti-sionisti non è necessariamente antisemitismo. Vi ricordo che prima
dell'occupazione della Palestina, tra i vari progetti per creare
Israele, nella prima metà del Novecento, la Cirenaica era uno dei luoghi
proposti. Essere contrari a quei propositi non è certo antisemitismo).
Io avrei usato la bandiera rossa, ma io e la mia generazione non
contiamo nulla in questa rivoluzione. La corrente monarchica
nell'opposizione è assolutamente minoritaria e lo sbandierare di quel
tricolore, con stella e mezzaluna in bianco, non è un attaccamento al
passato ma un chiaro rifiuto del regime. Fondare su questo una critica
ai giovani libici che hanno affrontato a petto nudo le mitragliatrici
anti-carro dei miliziani e mercenari di Gheddafi, è di una ingenerosità
disarmante. Non si nega qui l'esistenza di piani internazionali per
mettere le mani sul petrolio della Libia, ma la rivoluzione libica del
17 Febbraio 2011 non è guidata da fantocci dell'imperialismo, bensì da
giovani e democratici che hanno una storia nel paese. La caduta del muro
della paura, dopo le esperienze di Tunisia e Egitto, li ha portati ad
alzare la testa contro la tirannia. Se non mettiamo al centro
dell'attenzione questo grido di libertà, che nasce dal basso, non
capiremmo nulla dai moti di rivolta che stanno caratterizzando la lotta
dei paesi arabi contro le cariatidi al potere da troppi anni.
La
seconda questione riguarda il Gheddafi socialista. Le tesi sul
cosiddetto socialismo arabo hanno imperversato negli anni Cinquanta e
Sessanta, al momento del riscatto nasserian-baathista di Egitto e Iraq.
Interessanti esperienze di borghesia nazionale del sud del mondo, che
sono state, solo per necessità, anti-imperialiste nella prima fase del
loro sviluppo. In Iraq, Egitto e Siria di quegli anni i comunisti e i
socialisti sinceri sono stati perseguitati e repressi. Quelle esperienze
di colpi di stato hanno dato molti frutti positivi sul piano sociale,
ma solo nella prima fase del loro sviluppo. La tendenza verticistica e
la mancanza di una legittimità democratica, da una parte, e l'attacco
dei paesi occidentali alleati di Israele dall'altro (guerra di Suez nel
1956 e quella del 5 giugno 1967) hanno reso questi nuovi regimi delle
oligarchie militari che nulla hanno a che fare con l'idea di una giusta
distribuzione della ricchezza nazionale e dello sviluppo sociale e
culturale dell'essere umano, base di ogni esperienza socialista.
Gheddafi
arriva dopo, nel 1969. La «spinta propulsiva» del golpe militare contro
il vecchio re Idriss, per dirla con Berlinguer, è finita molto presto.
Già nel 1973 della rivoluzione degli ufficiali liberi non c'era più
nulla, se non la spietata repressione di ogni dissenso. Le forche
all'Università, l'allontanamento dei compagni d'armi, la cancellazione
di ogni forma d'opposizione, il divieto dei sindacati, l'annullamento di
ogni azione indipendente della società civile, l'uccisione degli
oppositori all'estero (l'Italia è stata un teatro prediletto per azioni
terroristiche) e le operazioni militari contro civili che protestavano
pacificamente contro le volontà del tiranno (anni '80 e '90 a Derna e
Bengasi...), il massacro di Abu Selim (26 giugno 1996), sono esempi di
questo dominio di una nuova classe dirigente che si è ridotta di fatto
alla famiglia di Gheddafi e a una piccola cerchia di suoi seguaci.
La
corruzione imperante e il dominio totale dei servizi segreti sulla vita
quotidiana dei cittadini sono alla base di un regime che ha sperperato
le ricchezze del paese non per costruire una Libia moderna capace di
creare occupazione e prosperità per il popolo, ma per comperare le
coscienze, conquistare l'appoggio di altri dittatori, in impossibili e
perdenti guerre africane (Uganda, Ciad...) e nel lusso per i suoi figli e
adepti. La Libia è un paese ricco, ma i libici sono poveri. Un
impiegato prende l'equivalente di 170 dollari al mese, mentre uno degli
stolti figli del tiranno ha speso due milioni di dollari per uno
spettacolo, durato solo un'ora, di una cantante americana, Beyoncé, in
una discoteca di Las Vegas.
Del socialismo gheddafiano, i libici
hanno un ricordo sbiadito dei supermercati vuoti dalle mercanzie e della
noiosa e stupida burocrazia corrotta, simile a quello che hanno
ereditato le giovani generazioni dell'est europeo. E non tutto era
anticomunismo.
Non credo che Gheddafi rappresenti una continuazione
dell'esperienza non allineata di Nasser. Castellina fa bene a ricordare
l'importanza di quell'idea, peraltro ridotta al silenzio dalla spietata
aggressione imperialista, di rifiuto di schierarsi per forza con uno dei
due patti militari in cui era diviso il mondo del secondo dopoguerra.
Nasser è morto povero e suo figlio non ha ereditato nessun ruolo
politico. Qui invece abbiamo la ricchezza petrolifera del paese
considerata come proprietà privata della famiglia e il potere
jamahiriano ridotto a una ridicola monarchia. Considerare Gheddafi come
parte di quel mondo che si è incamminato nel solco del nobile
esperimento dei «Non Allineati» è stato un errore di valutazione della
compagna Castellina.
Non bastano le belle intenzioni del colonnello!
Quel che conta nella politica è l'azione. Anch'io, come molti giovani
libici di allora, ho occupato il Consolato libico a Milano e ho
distrutto la gigantografia di re Idriss. Ma già nel 1973, l'Unione
generale degli studenti libici che guidavo, ha occupato l'ambasciata
libica a Roma, per protesta contro l'impiccagione nell'atrio
dell'Università di Bengasi (per di più senza processo) degli studenti
che chiedevano libertà e rappresentanza.
La sinistra libica è stata
cancellata con uccisioni e detenzioni e in alcuni casi con la
compravendita delle coscienze, nel più totale silenzio. È stata anche
colpa nostra, perché non siamo stati capaci di comunicare e tessere
relazioni e abbiamo vissuto l'azione di opposizione in forme
organizzative frammentarie. Ma non si può dare a Gheddafi la patente di
rappresentante di un'idea di socialismo. Gli errori di questo tiranno
non si limitano agli ultimi dieci anni, come sostiene il compagno
Parlato (il manifesto, 27 febbraio), ma risalgono a ben più lontano.
Gheddafi
ha sbandierato il vessillo dell'anti-imperialismo e
dell'anti-colonialismo, ma sotto il tavolo ha barattato la propria
salvezza personale con accordi che hanno aperto la Libia al saccheggio
dei paesi ricchi. Siamo consapevoli che il petrolio fa gola a molti. E
per questo siamo contrari a ogni intervento militare esterno.
L'opposizione ha chiesto una «No Fly Zone» per impedire l'uso
dell'aeronautica da parte del colonnello (come sta avvenendo in queste
ore su Brega e Ajdabieh).
Gli uomini che formano il governo
provvisorio di salute pubblica sono persone che conosco personalmente e
sono serie e fidate. Non sono secessionisti né fondamentalisti. La
matrice democratica che li spinge a ribellarsi agli ordini del tiranno è
fuori discussione. Non dar loro ascolto, sarebbe un grave errore da
parte della sinistra italiana e dell'Italia democratica tutta.
Infine,
l'autolesionismo. Perseverare nell'errore sarebbe il peggio. Il
giudizio positivo che si dava di alcune esperienze dei paesi
dell'emisfero sud non vieta la possibilità di una revisione critica.
Come avvenne per la critica dei paesi del socialismo reale dell'est
europeo, anche oggi è possibile prendere atto della fine di
un'illusione. Il giudizio di allora aveva le sue ragioni contingenti e
di contesto. La situazione attuale è un'altra. E va riconosciuta per
quel che è. Non credo sia lungimirante cospargerci il capo di cenere per
gli errori di valutazione e analisi del passato. Ricordiamoci che
Mussolini era stato socialista e che Giuliano Ferrara era comunista.
Anche
nel ricordo e per monito di quelle sconfitte, cari lettori, continuate a
comperare il manifesto, strumento indispensabile per informarsi e
discutere del mondo di oggi!Farid Adly con lo pseudonimo Abi Elkafi ha scritto sul manifesto molte cronache della rivolta libica
Dalla Libia arriva un grido di libertà
5 / 3 / 2011